giovedì 7 agosto 2008

Il segreto di Hannah


"Nell'agosto 1944 Hannah Arendt fu invitata ai colloqui di Pontigny-en-Amerique, che si svolgevano presso il College di Mount Holyhoke, nel Massachussets, non lontano da Boston. Dal monastero cistercense in Borgogna, armi e bagagli gli 'Entretiens de Pontigny' si erano lì trasferiti, dopo l'invasione nazista del suolo francese, e Mount Holyhoke era diventato in quegli anni un sicuro riparo per chi di origine ebraica fuggisse dalle persecuzioni razziali. Del comitato di intellettuali esuli facevano parte Jacques Maritain, Gustave Cohen, Jean Wahl. Insieme con Jean Wahl, nel 1942 era arrivata Rachel Bespaloff. La quale dal '43 aveva preso a insegnare Letteratura francese. Rachel era senz'altro tra coloro che in quell'agosto ascoltarono il discorso di Hannah Arendt su Kafka. Partendo dal romanzo Il castello, Hannah Arendt affronta lo stesso tema della violenza, cui Rachel e Simone Weil s'erano appassioante leggendo l'Iliade. A partire da un testo letterario anche lei rifletteva sul presente. Kafka era vicino, assai più vicino di Omero; era più facile, in un certo senso, leggerlo come un pensatore politico. E soprattutto profetico, perché Hannah Arendt rintraccia nel romanzo kafkiano la descrizione di una nuova forma di governo, sconosciuta - osserva - a Montesquieu; la forma che di lì a poco - Kafka scriveva negli anni '20 - il mondo avrebbe assunto. Anzi, aveva assunto. Agli orecchi di chi ascoltava l'appassionata conferenza si profilò un nuovo nesso tra passato e futuro; un vincolo agghiacciante in cui il futuro investiva d'impeto il presente non donava, semmai toglieva il passato, facendosi beffe di ogni umana, troppo umana arroganza. Ma se il futuro era alle spalle, e il presente intransitabile - che fare? La domanda non è irrilevante per Hannah, la quale si presenterà sempre non come una filosofa: 'Io non appartengo alla cerchia dei filosofi' ripeterà più volte. Ci tiene a dirlo, quasi annunciasse in tal modo la sua vocazione, che è quella di pensare: 'il mio mestiere, la mia disciplina è di pensare' afferma senza mezzi termini; e prosegue qualificando il suo proprio modo di pensare come Selbsydenken. E cioè, al modo di una che pensa da sé, che pensa da sola. Così amava dire Rahel Levin Varnhagen, la giovane donna ebrea a cui all'inizio degli anni Trenta aveva dedicato la sua attenzione. Quando nel suo salotto letterario di Berlino Rahel conversava con Schlegel, con Humboldt, con Schleiermacher, Rahel proclamava: 'tutto dipende dal riuscire a pensare da soli'. Appunto. Il fatto che si pensi da soli, però, non significa che i pensieri non si intreccino in una rete di simboli, impulsi, echi, rimandi. E' questa trama, al contario, che io invito a cogliere tra i pensieri di Hannah, di Rachel - questa Rachel che ora Hannah ha di fronte in ascolto - e Simone. [...]" (da Nadia Fusini, Il segreto di Hannah, "La Repubblica", 21/07/'08)

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