venerdì 29 aprile 2011

Quei fedelissimi che non rinunciano al ticchettio della macchina per scrivere


"Il salto, ormai, l'hanno fatto quasi tutti. La macchina per scrivere è un ricordo, qualche volta un cimelio o una suppellettile per nostalgici. Tant'è vero che l'ultima fabbrica ancora funzionante, in India, ha dichiarato la resa, e chiude. La sua epoca è finita e non sapremo mai se era più giusto dire macchina da scrivere o macchina per scrivere. Una storia durata centocinquant'anni, ma gloriosa: non si contano le fotografie dei maggiori scrittori del secolo scorso intenti a battere sui tasti neri o anneriti di una Olivetti, di una Remington o di una Underwood. Qualcuno il salto l'ha fatto senza rimpianti. Emilio Tadini, per esempio, ne vedeva soprattutto i vantaggi: «Il computer - diceva - è uno straordinario strumento artigianale, consente di ripartire sempre dal vuoto. È come la plastilina: basta schiacciarla e tutto si annulla. Rimane solo il ricordo di quel che c'era, senza lasciare la presenza fisica, ingombrante, della redazione precedente». C'è però una razza in via di estinzione che resiste.
È un'esile truppa di scrittori che rimane fedele alla meccanica. «Scrivo a macchina - dice Guido Ceronetti - con crescenti errori di battuta: è una macchina tedesca che si chiama Monika, l'ho comprata a Roma 35-40 anni fa. Mi piace, mi appartiene e sono contento così, anche se perde colpi e una nuova non si trova di certo». La prima macchina da scrivere di Ceronetti era una portatile della ditta paterna: «Avevo 17 anni, uscivo apposta di casa per andare a chiedere con tremore a mio padre e a mio zio se potevo usarla. Scrivevo con dieci dita, perché mi ero diplomato in stenografia e dattilografia in vista di chissà quale carriera di giornalista, in un istituto torinese di via Po. Ero l'unico maschio con una ventina di ragazze».
Altri esemplari rari di scrittori-macchinisti sono Alberto Arbasino, Raffaele La Capria, Gillo Dorfles. Il quale però, superati i cento, non esclude affatto una conversione futura: «Bisogna che mi decida, ma finisce che rimando sempre. Diciamo che ormai mi trovo male a scrivere con tutto, tranne che con la penna. Infatti prima scrivo a mano, poi ricopio a macchina, e lo stesso farei con il computer. Il fatto è che odio tutto ciò che è elettronico, telefonino compreso: dunque per il momento mi tengo le mie due o tre Olivetti, che più che vecchie sono decrepite, ma proverò a cambiare».
Sarebbe sbagliato limitare il tutto a una questione generazionale. Il pioniere italiano del Grande passaggio, come si sa, è stato Umberto Eco, classe 1932. Altri, decisamente più giovani, non cedono alle sirene del digitale. Sebastiano Vassalli, con le sue quattro Olivetti (una imponente linea 88 e tre portatili) e la pregiata (e gigantesca) Adler anni 40, ne fa una questione di stile: «I miei romanzi li ho sempre scritti a mano su quaderni e poi ricopiati a macchina: la ricopiatura mi dà il tempo di riflettere sulle piccole cose, che poi non sono affatto piccole. In realtà è una nuova stesura che quelli che lavorano al computer si perdono. Diversi amici molto fidati mi dicono: "Risparmieresti un sacco di tempo", ma per me non è così che si lavora. Abbreviare i tempi tecnici della scrittura è contro natura». In un'altra occasione Vassalli ha precisato che è come se arrivasse una nuova tecnologia capace di ridurre la gravidanza a sei mesi ... Ora semmai il suo problema è un altro. E molto serio: i pezzi di ricambio e il reperimento dei nastri: «Alla notizia della chiusura dell'ultima fabbrica, mancava poco che mi mettessi a piangere».
C'è poi chi sceglie una terza via: niente macchina e niente computer. Solo la penna. È il caso di Franco Cordelli, che nel novembre 2009 ha deciso («per motivi privati, un po' scaramantici, lo ammetto») di abbandonare la macchina e ha ripreso a scrivere a mano: «L'ultimo romanzo, La marea umana (Rizzoli), per fortuna l'ho finito prima, e non oso pensare a quello che sarà di me se dovessi scriverne un altro». Ma il computer mai: «Pone pochi ostacoli alla mano e questo incide sulla qualità profonda della scrittura»." (da Paolo Di Stefano, Quei fedelissimi che non rinunciano
al ticchettio della macchina per scrivere
, "Corriere della Sera", 28/04/'11)

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