sabato 2 aprile 2011

Diario di lettura: Pier Vincenzo Mengaldo


"Eleganza di scrittura e ricchezza di dottrina. Potrebbe essere sintetizzata così la figura di Pier Vincenzo Mengaldo, un critico letterario che è nato come filologo e storico della lingua (di cui da due anni ha lasciato l’insegnamento all’Università di Padova). Lontano da irenismi critici e fortemente propenso ai «giudizi di valore» (il titolo di una sua raccolta di saggi pubblicata nel 1999 da Einaudi), Mengaldo ha spaziato da Dante al Novecento: da Rustico Filippi, di cui ha curato i Sonetti, al Boiardo di cui ha pubblicato le Opere volgari; dal Nievo, al cui Epistolario ha dedicato un volume di strenua esegesi linguistica, alla «tradizione» del Novecento, di cui ha studiato ogni anfratto di poesia e prosa: da D’Annunzio a Montale, da Palazzeschi a Sereni, da Ungaretti a Fortini. Un itinerario rigoroso, costantemente aperto alla letteratura mondiale, di cui è ad esempio testimone l’interesse non peregrino per Kawabata oppure - or ora - il volume pubblicato per le Edizioni ETS, In terra di Francia, dove spiccano gli studi su Balzac, Apollinaire, Cendrars, Simenon.
Professor Mengaldo, quale frontiera a separare (o a congiungere) i due piani della storia della lingua e della critica letteraria? «La storia della lingua è disciplina soprattutto storico-sociale, mentre la critica letteraria è interpretazione di testi concreti. La differenza c’è ma in certi casi diventa sottile, consentendo di muoversi sia sull’uno sia sull’altro piano».
Lei è stato allievo di un grande maestro come Gianfranco Folena. Più affinità o più diversità? «Tutto sommato penso di assomigliargli molto. Folena aveva una competenza abissale in campo linguistico, ma aveva anche forti interessi letterari. Un esempio solo: i magnifici saggi sulla lingua del Goldoni sono storia della lingua e critica letteraria insieme».
Se penso alla sua Antologia personale, opera pubblicata da Bollati Boringhieri nel ‘95, in cui sono state raccolte le suggestioni delle letture più legate alla sua storia privata, o come lei dice, all’«innestarsi di valori in esperienze», continuerebbe a indicare in Hölderlin il «maggior lirico che sia mai esistito»? «Lavorando a Leopardi, su cui sto preparando un’antologia in due volumi (uno per le poesie e unoper le prose), ho un po’cambiato idea. Leopardi è un lirico assolutamente moderno e nello stesso tempo del tutto estraneo alla linea Romanticismo-Simbolismo. Infatti sto scrivendo un saggio che s’intitola Leopardi antiromantico. Leopardi non nasce contro l’Illuminismo ma come prosecutore e questo ne fa un personaggio isolato. La storia poetica dell’Ottocento italiano si è svolta del tutto indipendentemente da lui».
Questo per Hölderlin significa una retrocessione? «Hölderlin resta uno dei massimi lirici mai esistiti. A cui aggiungerei Ronsard, Baudelaire, il gruppo dei grandi Romantici come Coleridge e Keats. Confesso anche di amare molto la poesia di Hardy, mentre - e lo dico tra parentesi - ho qualche difficoltà con Petrarca, che non mi appassiona più di tanto».
E il già tanto amato Machado? «Per me strepitosissimo. I due poeti del Novecento che mi trascinano di più sono Apollinaire e Machado: in Apollinaire c'è un lato vitalistico, giocoso, irresponsabile, che lo rende molto simpatico. In Machado un’unione miracolosa di linguaggio lirico e sapienza».
Tra gli antichi? «Difficile sottovalutare Saffo e Pindaro. Ma amo molto anche Alceo, e naturalmente Catullo e Orazio».
Due poeti diversissimi, come è lei stesso a sottolineare: Catullo «lirica come ardore», Orazio «lirica come tepore». «Quando ero giovane più Catullo, poi ho cominciato ad apprezzare la discrezione, la finezza, il senso del limite di Orazio».
Un’oscillazione che - mi pare - ha anche riguardato libri diversi di un singolo autore. Penso a quanto lei ha scritto di Stendhal: «Preferisco Il rosso e il nero o La Certosa. Chi può dirlo?». «Il rosso e il nero l’ho riletto ancora di recente, La Certosa mi è rimasta molta voglia di rileggerlo e lo farò. Due romanzi balenanti e diversi, che è poi la maggior lode che si possa fare a un autore. Ma la meraviglia è lo stile di Stendhal, così asciutto, senza bolle».
Restando ancora un po’ tra i poeti, lei è autore di una discussa antologia sulla poesia italiana del Novecento. Da allora - 1978 - qualcosa è cambiato nel suo giudizio? «Da allora a oggi ho conosciuto solo due grandi poeti a cui riserverei
uno spazio adeguato, Raffaello Baldini e Franco Scataglini. Degni di attenzione anche Milo De Angelis o - quantunque un po’ troppo cerebrale - Valerio Magrelli, e stima ho anche per Edoardo Zuccato, ma oggi come oggi faccio molta fatica a leggere i poeti quaranta-cinquantenni. Da un lato ho la sensazione che non siano granché, dall’altro mi domando se non sia un legame del mio gusto con ciò che è venuto prima. E allora mi esimo dal dare un giudizio. A colpirmi ultimamente è stata l’antologia della poesia francese contemporanea curata da Fabio Pusterla (ecco un altro poeta che ammiro) per la sua politicità, il côté politico che non trova corrispettivi in Italia. Lì si ha l’impressione che sia ancora viva la figura dell’intellettuale engagé, che ha cose da dire su politica e società».
Vogliamo parlare di narratori? Dopo Stendhal, chi altri? «Mi limito a dire che tra i narratori per i quali ho una preferenza di pancia ci sono i russi e tra i russi
Puškin, Tolstoj e Cechov. Una volta vidi un documentario su Wilder che era stato aiuto di Lubitsch. Wilder teneva un cartello con su scritto: “Come l’avrebbe girato Lubitsch?”. Anch’io tengo da allora un cartello: “Come l’avrebbe scritto Cechov?”". Lui ha levato ha levato ha levato, non ha fatto che levare. Come nella famosa risposta di Mozart a Giuseppe II: troppe note? “Neanche una di più, Maestà”».
Ma il romanzo letteralmente divorato fu La montagna incantata. «Sì, ma anche Guerra e pace. Due romanzi che mi hanno preso in una sorta di fascinazione».
E la Recherche? «Un altro grande discrimine. Continuo a rileggerla, a pezzi si capisce. Dei grandi autori inaugurali del Novecento apprezzo anche Musil, ma soprattutto certi racconti perché nell’Uomo senza qualità si sente la difficoltà narrativa. Mentre - pur apprezzando molto Dublinesi - resto refrattario all’Ulisse di Joyce: a differenza di Guerra e pace, è un romanzo in cui si vede poco l’autore».
Un romanzo di questi anni che l’abbia colpita? «Le variazioni Reinach di Filippo Tuena».
Mi pare che siamo con questo nell’orizzonte della Shoah, a cui lei ha dedicato scritti e attenzione. Primo Levi? «Ancora oggi non posso leggere due righe di Primo Levi senza commuovermi umanamente e letterariamente».
Nella sua «antologia personale» non mancano le letture dei filosofi. «No, anche se ho sempre diffidato dei filosofi sistematici».
Perché, allora, la presenza di Hegel? «Perché con il filosofo sistematico convive il grande saggista».
E di Marx? «Da giovane ero comunista e le letture marxianesi spiegano da sé».
L’amore per Kraus? «Kraus l’ho scoperto molto tardi, dopo la traduzione di Adelphi.
Sono affascinato dalla forma aforistica, intanto perché può essere ambivalente. E poi perché c’è un sottile legame tra la forma aforistica e la forma lirica, tutt’e due governate dall’esigenza di dire ciò che s’ha da dire intensivamente, ossia utilizzando nel modo più denso le possibilità stesse della lingua».
Con grande compasso, non posso non notare la sua passione per i libretti d’opera.
«Ogni tanto ne rileggo. Una volta ho anche scritto su un libretto dell’Idomeneo di Mozart e ho imparato molto su come Mozart lavorava:
l’attenzione verso i cantanti, la precisione delle parole. Peccato che nulla si sappia dicome lavorò con Da Ponte. La mia passione per il libretto del Falstaff è soprattutto legata alla memoria di mio padre, ma un librettista più bravo di altri penso sia stato Felice Romani. Nei suoi libretti per Donizetti c'è qualcosa di più pulito, di più personale, di meno conforme alla retorica del tempo».
Sempre solo cose serie o anche qualche concessione a un meno visibile côté giocoso?
«A parte le tante attività sportive che ho accudito in gioventù, il tennis, il calcio, il mio côté ludico è soprattutto Rabelais, la sua risata colossale»." (da Giovanni Tesio, Il mio viaggio poetico a lume di Leopardi, "TuttoLibri", "La Stampa", 02/04/'11)

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