venerdì 8 aprile 2011

Anachronic Renaissance


"Quando si è giovani il rapporto con alcune opere d'arte può essere sconvolgente. Lo era ad esempio per il giovane Elias Canetti, che ricorda così il piacere e il dolore, la fascinazione e il tormento, che negli anni Venti gli procurava una grande tavola di Rembrandt: «A Francoforte, per arrivare allo Stadelsches Kunstinstitut, si deve attraversare il Meno. Contemplavo il fiume e la città, e poi respiravo profondamente, per trovare il coraggio di affrontare la cosa terribile che mi attendeva. Sansone accecato dai Filistei, il grande quadro di Rembrandt, mi spaventava, mi torturava e m'incatenava lì». (Il frutto del fuoco. Storia di una vita (1921-1931), Milano, Adelphi, 1994) In quella scena violenta e affascinante Canetti riconosceva qualcosa di cui sua madre l'accusava: di essere cioè volutamente cieco di fronte alla realtà, e alla dura legge economica su cui si fonda. Il quadro di Rembrandt gli permetteva di proiettare altrove il rimprovero della madre, di dargli una forma diversa e insieme familiare. Così del resto, egli ha scritto, vivono le immagini dei grandi artisti del passato: attraversano il tempo e gettano delle reti, che via via qualcuno raccoglie. A quel punto esse tornano vive e acquistano nuova forza e nuovi lineamenti. Raccontandoci dal vivo le sue esperienze Canetti ci mette di fronte a uno dei paradossi che caratterizzano le opere d'arte: esse conservano nel profondo le stigmate del proprio tempo ma sono anche capaci di viaggiare attraverso i confini delle diverse età, di ritrovare e in un certo senso di ricreare via via nuovi interlocutori.
Ma il gioco col tempo può essere quanto mai complesso anche dentro un'opera d'arte. Vi possono convivere tempi diversi, così da creare sul pubblico un effetto spiazzante. Come si verifica questo nelle opere del Rinascimento? Come affrontano i grandi cambiamenti introdotti dalla stampa, che rende riproducibili anche le immagini? Come accade che citazioni di tempi diversi entrino nel cuore di un'opera, fino a diventare quasi manifesti di poetica, espressioni di una intera concezione dell'opera d'arte, e della sua storia? E quali sono i confini fra copia, falso, citazione? Questi i temi centrali di un libro affascinante e difficile, di quelli che richiedono al lettore un impegno che però non delude. A cominciare dal titolo Anachronic Renaissance (The Mit Press), che vuole indicare non ciò che è anacronistico, ma appunto ciò che ha a che fare con i diversi modi di ricreare il tempo. Lo hanno scritto due giovani storici dell'arte che insegnano alla New York University e a Yale e che hanno al loro attivo libri e articoli importanti, che già hanno fatto discutere.
Gli esempi presi in esame sono davvero moltissimi e, prima di darne qualche idea, vorremo sottolineare anche il modo in cui il libro è costruito: le numerose immagini non sono accompagnate da una semplice didascalia, ma da un sintetico racconto, che le collega al saggio e insieme le rende autonome: una specie di teatro della memoria, che guida il lettore e lo aiuta a riconoscere le tappe di un percorso complesso.
Punto di partenza sono due casi che vogliono provocare il lettore, mettere in questione le sue idee tradizionali sull'arte. Nel 1957 Simone de Beauvoir visita la Città Proibita di Pechino e resta sconcertata davanti al Palazzo Imperiale: non le sembra né antico né restaurato, le appare come un'imitazione di se stesso e quindi le dà un senso di precarietà piuttosto che di eternità. L'altro caso è quello della nave di Teseo, una preziosa reliquia a lungo conservata nell'antica Atene: una reliquia continuamente restaurata, fino a che non vi resta nessun frammento dell'originale. Pur così diversi, e lontani nel tempo e nello spazio, questi due casi evidenziano un tema che poi, nei diversi capitoli, verrà inseguito nel cuore del Rinascimento: il manufatto artistico può esser visto come reliquia, come immagine che conserva in sé l'archetipo, la forma originaria, e che proprio per questo può essere copiata e sostituita. Per questa ragione gli autori si appassionano alle false cronologie, agli edifici che rivendicano una antichità che non hanno e che funzionano da copie del tempio di Salomone, del Sepolcro di Cristo e dei luoghi santi, della Casa di Nazareth, fino alle Stanze di Raffaello, in cui rintracciano «irrisolte tensioni concettuali» al di sotto della fluidità delle forme e della armonia della rappresentazione.
Nel cuore del libro sta una forte e polemica convinzione: per riprendere e riformulare i termini di Hans Belting, nel Rinascimento l'immagine di culto (Bild) non cede all'opera d'arte (Kunst), così come il vecchio modello della copia, della sostituzione continua e convive con il nuovo modello dell'opera d'arte autentica, originale, espressione dell'individualità dell'artista. Diamo due esempi di questo tipo di lettura. C'è, alla National Gallery di Washington, il ritratto di un giovane, dipinto da Botticelli verso il 1480, che tiene in mano una antica icona inserita in una moderna cornice. Questo significa per i nostri autori che il moderno ritratto sottolinea la propria continuità con l'antica immagine di culto, o meglio la reinventa inserendola in una specie di mito delle origini. E ancora ci sono pagine molto belle dedicate al monumento a Giotto che possiamo ammirare nel Duomo fiorentino, con un ritratto in rilievo di Benedetto da Maiano e uno splendido epitafio scritto da Poliziano. Qui, sottolineano i nostri autori, Giotto tiene in mano un mosaico che è un'icona di Cristo e la sta restaurando. Giotto appare così come il fondatore dell'arte moderna e insieme anche come colui che garantisce la trasmissione delle figura originaria di Cristo." (da Lina Bolzoni, Occhio e mente tra l'arte e il tempo, "Il Sole 24 Ore", 03/04/'11)

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