mercoledì 13 aprile 2011

The case for Books


"«Chi fa libri e giornali dovrebbe smettere di fasciarsi la testa. Viviamo una rivoluzione, è vero. La tecnologia modifica continuamente il paesaggio dell’informazione. È dura per tutti. Ma non mi pare il caso di celebrare il funerale della carta stampata. Come storico partecipo da quindici anni a convegni sulla morte del libro. Abbastanza per convincermi che il libro è più vivo che mai. Nel 2011, per la prima volta, nel mondo verrà pubblicato oltre un milione di opere. Quasi tutte stampate (solo o anche) su carta. Gutenberg non uscirà di scena tanto facilmente. Del resto quando lui inventò la stampa a caratteri mobili, il "business" dei volumi scritti a mano continuò ad andare a gonfie vele ancora per trecento anni: dal XV al XVIII secolo gli amanuensi rimasero la soluzione più conveniente per riprodurre testi di meno di cento pagine».

Robert Darnton, per molti anni docente dell’università di Princeton e da cinque direttore della Biblioteca di Harvard, è uno storico della lettura che ha nel sangue la parola stampata su carta. Ma non è un uomo con gli occhi rivolti solo al passato. Anzi, anche se non appartiene certo a una «generazione digitale» (ha 72 anni), Darnton è il motore del progetto Dpla (Digital Public Library of America): il tentativo di creare una grande biblioteca pubblica digitale d’America. Un’istituzione finanziata dalle grandi fondazioni private e accessibile a tutti i cittadini, alternativa alla «biblioteca universale» alla quale lavora da anni alacremente Google. Un progetto che ha subito una battuta d’arresto forse decisiva il 23 marzo, quando un giudice di New York ha dichiarato illegittima, annullandola, la sua base giuridica: l’accordo del 2008 tra l’azienda californiana e gli autori.

Un anno dopo, nel 2009, lo storico pubblicò in America un saggio, The Case for Books, nel quale scrutava il futuro dell’industria editoriale, raccontava la scommessa audace della società della Silicon Valley e il braccio di ferro con gli autori sul «copyright», fino alla sigla del cosiddetto «Google Settlement». Un accordo descritto dal bibliotecario di Harvard come il tentativo dell’azienda «di digitalizzare e commercializzare, spartendo poi i profitti proprio con la parte che gli aveva fatto causa».

Quel libro arriva ora in Italia (lo pubblicherà Adelphi ai primi di maggio col titolo Il futuro del libro) proprio mentre la sentenza del giudice Denny Chin rimescola tutte le carte e finisce indirettamente per rilanciare il progetto della Digital Public Library of America. «Noi», racconta Darnton, «ci eravamo mossi per tempo: le istituzioni culturali come la Biblioteca del Congresso, i National Archives, le grandi biblioteche pubbliche e tutte le maggiori fondazioni filantropiche si sono riunite a ottobre per impostare il progetto. Ci vedremo di nuovo a breve. Poi ci sarà il lancio, spero già in autunno. Il quartier generale della futura biblioteca digitale è da noi, ad Harvard».

Darnton adora la carta, si butta anima e corpo nel digitale e prevede un futuro roseo per tutti e due i settori: non si può negare che sia un ottimista. Eppure viviamo tempi in cui, in America, dopo i piccoli librai indipendenti, sono andate in crisi anche le grandi catene: Borders fallita, Barnes & Noble in vendita, che non trova compratori. Per non parlare di alcune città che non hanno più nemmeno un quotidiano. «Sì lo so», risponde lo storico di Harvard. «Mi obiettano anche che i giovani non sanno più scrivere in bella grafia. Tutto vero, il futuro sarà digitale. Ma prima c’è da gestire un periodo di transizione nel quale stampa e scrittura digitale coesistono. Non so cosa accadrà, non sono un buon profeta. Ma so che per scrutare nel futuro devi partire dallo studio del passato».

E allora, attenti a non pensare di risolvere tutto con quel «prima e dopo Gutenberg» oggi alla base di alcune visioni apocalittiche. «L’invenzione dei caratteri mobili è del 1450. Da allora sono successe molte cose. Prima della Repubblica digitale del sapere di cui parlano oggi i profeti dell’"information technology" c’è stata, ad esempio, la Repubblica delle lettere degli illuministi. Anche quell’era, con le sue enciclopedie, ha cambiato il libro, la sua funzione, il modo di usarlo».

La tecnologia non cambia solo i supporti per la lettura: dall’ebook ai giornali sull’i-Pad. Altera anche il rapporto col testo. Si legge in modo più frammentato, si salta da un link all’altro, si abusa del «copia e incolla».

«Il problema è reale, non lo minimizzo», risponde Darnton. «Quella cosa che chiamiamo lettura continua concentrata - divorare un libro da copertina a copertina - è certamente meno praticata. Ma non è scomparsa. Molti ragazzi prendono qua e là i pezzi d’informazione di cui hanno bisogno. Una cosa non esclude l’altra. E comunque la storia della lettura ci dice che sistemi diversi hanno sempre convissuto. Nel XVI secolo, l’era dell’umanesimo, i libri spesso non venivano letti per intero. Gli eruditi cercavano i passaggi più utili per i loro esercizi retorici. Samuel Johnson, che per molti è il paradigma della lettura profonda, disse che non leggeva quasi mai un libro per intero».

Ma perché le tecnologie informatiche lo affascinano tanto? Non teme che uccidano la biblioteca? Darnton riconosce che la public library - che negli Usa si sta già trasformando, in parte, in ufficio di collocamento, centro sociale per immigrati e anziani, doposcuola per i ragazzi - «cambierà sempre più, avrà un ruolo nuovo nella società. Le tecnologie digitali - spiega - mi affascinano perché democratizzano la cultura e anche perché ci aprono strade nuove. Ad Harvard abbiamo oltre 16 milioni di volumi. La digitalizzazione va avanti da tempo: abbiamo già messo online due milioni e 300 mila pagine, tutte accessibili liberamente e gratuitamente. Ma poi nei nostri archivi ci sono altri cento milioni di oggetti: lettere, mappe, disegni, documenti, dieci milioni di foto. Materiale che può essere fruito solo se diviso per collezioni gestite elettronicamente».
C’è un Darnton bibliotecario che è impegnato da anni in questa impresa, ma c’è anche un Darnton autore che racconta con entusiasmo una sua recente esperienza multimediale: «Ho appena pubblicato un nuovo libro con la Harvard University Press. O, meglio, un ibrido: un saggio sulla poesia e la comunicazione orale, soprattutto canti, nella Francia del Settecento. Il libro ha un complemento elettronico, disponibile online. Canzoni graffianti, che nel 1749 fecero cadere un governo. Conoscevamo la storia, ma nessuno le aveva mai ascoltate. Spartiti scomparsi da 250 anni. In una sezione della Biblioteca nazionale di Francia ho trovato le annotazioni scritte da chi adattava nuovi testi alle vecchie note. Così abbiamo potuto ricostruire la musica di quelle "chanson". Grazie alla tecnologia aggiungiamo una nuova dimensione alla narrazione»." (da Massimo Gaggi, Il digitale fa bene al libro, "Corriere della Sera", 13/04/'11)

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