venerdì 8 aprile 2011

Quando la scrittura diventa una terapia


"Il ruolo liberatorio della letteratura è stato sottolineato da Walter Benjamin che ha visto nelle fiabe una delle "prime precauzioni prese dall´uomo per dissipare l´incubo mitico" (Il Narratore. Riflessioni sull´opera di Nicola Leskov) facendo notare che i personaggi della fiaba, lo sciocco, il fratello minore, il viaggiatore, mettono in scacco le violenze della natura e ne fanno una loro complice.
È il movimento inverso a quello della risalita verso «l´incubo mitico», verso «l´orrore», ultima parola pronunciata da Kurtz prima di morire, di cui parla Joseph Conrad in Cuore di tenebra, inseparabile libro di Malinowski (celebre antropologo polacco, ndt) sul campo. Potremmo, quindi, affermare che è proprio "il loro destino narrativo" ad aver sovvertito le religioni dall´interno e che il compimento di questo destino libera l´uomo dal mito.
Questa frase è particolarmente provocante per l´etnologo e, in generale, per tutti coloro che si interrogano sulle ragioni che li spingono a scrivere. Perché colloca l´asse del cambiamento dalla parte del futuro. La letteratura sarebbe meno determinata dalle sue origini religiose o mitiche e più da qualcosa che sorge, un rischio, una lotta e un´invenzione: una fuga dal terreno del mito, se si vuole e, eventualmente, un dietrofront per tornarvi a combatterlo. Il contrario di una conseguenza, dunque, e la poesia di un inizio assoluto (...).
Ogni scrittura affronta il vuoto del futuro affrancandosi dal passato. Il tema dell´uscita dal mito concerne tanto la dimensione individuale quanto la dimensione collettiva. Bisogna indubbiamente considerare, da un punto di vista ontogenetico, che l´individuo, per crescere, deve liberarsi attraverso la parola del proprio fondo mitico, e non soltanto dei miti che condivide con altri. Non potremmo allora vedere nel tema dell´uscita dal mito una giustificazione della psicoanalisi?
Non proprio, o non soltanto. Qui dobbiamo piuttosto insistere sulla dimensione propriamente narrativa dell´esistenza individuale. La prima ambizione di Freud era, senza dubbio, quella di insegnare agli individui a liberarsi dai loro demoni interiori, ma prendere la via narrativa (e non semplicemente la parola e la rimemorazione) per arrivarci, è scegliere per sfidarli un terreno diverso dal loro, un terreno dove si trasformano in personaggi; è avere, in qualche modo, una concezione romanzesca della propria esistenza. Non si può chiedere a tutti di inventare dei racconti, si dirà. Ma a torto: passiamo il nostro tempo a raccontarci delle storie di cui siamo gli eroi o, più esattamente, passiamo tutto il nostro tempo a inventare il racconto della nostra vita per sottoporne, "in tempo reale", i diversi episodi all´apprezzamento e ai commenti di alcuni amici, o fedeli compagni o collaboratori occasionali. Paul Ricœur si è interessato alle "strutture prenarrative dell´esperienza temporale" e, in Tempo e racconto, ha fatto notare che la letteratura sarebbe incomprensibile se non configurasse ciò che, nell´azione umana "già figura". Narrare la propria vita, inoltre, non è sfuggire alla solitudine, ma all´isolamento; è una terapia spontanea, sensibile al passaggio del tempo che sdoppia e proietta verso il futuro nel raccontarlo. Non ci si salva da niente e da nessuno senza la presenza degli altri, sotto qualsiasi forma: presenza effettiva di interlocutori, presenza scontata di futuri lettori, ma che dà già tutto il suo senso all´attesa di colui che scrive. L´isolamento e il silenzio, quando sopraggiungono, sono ad un tempo, in quanto a loro, il segno e la causa della sconfitta e di un´invasione tanto lenta quanto inesorabile da parte delle forze oscure del passato.
Lo scrittore fa dunque un´esperienza particolare della solitudine, e l´etnologo ancora di più, perché esce da se stesso senza tuttavia raggiungere completamente gli altri. Solo, si sforza di uscire dalla sua cultura, dalla sua lingua, e dalle sue abitudini per mettersi a una certa distanza dagli altri. Rispetto agli altri, la sua situazione è ambigua: la difficoltà dell´etnologo comincia con il primo incontro, con il primo testimone. Conosciamo mai qualcuno? O, se non lo conosciamo, riusciamo mai a capirlo? Ciò che crediamo di poter scrivere di una collettività non perde la propria pertinenza dal momento in cui ci avviciniamo a uno degli individui che ne fanno parte? E la constatazione di questo limite non relativizza in anticipo tutto ciò che potrà scrivere l´etnologo? È così che va inteso il titolo di Leiris, L´Afrique fantôme, se è vero, come egli scrive, che ogni diario è "l´ombra di uno scritto fantasma". L´etnologo sarebbe addirittura sempre tormentato, scrive in Brisées, dal "fantasma dell´altro libro, quello che non ha scritto". Il doppio dell´etnologo è doppiamente fantomatico, perché viene dal passato e nasce da un´esperienza che non si potrà rifare. Il doppio dell´etnologo non è soltanto questo essere astratto che si distacca da sé per osservare o teorizzare meglio, è la figura concreta del tempo, dell´assenza e dell´alterità (...).
La scrittura non ha passato. Essa non esiste che per trasmettere ciò che crea. La scrittura è rituale: qualunque sia la sua materia prima, non ha senso se non tramite l´accoglienza degli altri. Con essa, comincia una storia.
Ma la scrittura antropologica non è una scrittura qualsiasi: essa tratta di altri ai quali l´etnologo non ha avuto accesso se non nei termini di un viaggio doppio a sua volta, un viaggio interiore e al tempo stesso uno spostamento nello spazio. Essa nasce da un´esperienza empirica nella quale l´antropologo è implicato e della quale deve rendere conto nella sua totalità per essere onesta, vale a dire il più vicina possibile al reale. Essa fa capire un paradosso, il paradosso dello specialista in scienze sociali, scienze della relazione e del simbolico: il percorso dell´etnologo, così come può renderne conto attraverso la scrittura, è anche, e forse prima di tutto, una variazione su delle forme diverse di solitudine: quella della partenza, quella dell´arrivo e, ancor più definitiva o più irreversibile, quella del ritorno." (da Marc Augé, Quando la scrittura diventa una terapia, "La Repubblica", 07/04/'11; trad. di Luis E. Moriones; brano tratto dall’intervento che Augé terrà domani al festival L’arte della felicità in programma a Napoli)

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