mercoledì 27 aprile 2011

Italia reloaded


"A ogni festa comandata l’Osservatorio nazionale per il turismo tiene il conto di quanti milioni di italiani si riversano nelle città d’arte, preferendo le vacanze in Italia a quelle in capitali o luoghi ameni fuori dal territorio nazionale. L’invito a consumare il proprio tempo libero, e dunque il proprio denaro, nelle piccole e medie città dell’Italia, a visitare monumenti, gallerie, musei, chiese, basiliche, santuari, è di anno in anno sempre più pressante, come se questa sorta d’autarchia potesse davvero diventare un tassello importante nella ripresa economica del Bel Paese, entrato pericolosamente in un periodo di stasi economica.
In modo analogo, si è diffusa una metafora per cui «la cultura è il petrolio dell’Italia», come se fosse possibile seduta stante traforare la crosta e far sgorgare per incanto il prezioso liquido della cultura; gli studiosi di beni culturali sostengono piuttosto che, dal punto di vista economico, la cultura è altra cosa dal petrolio: per ottenere dei risultati soddisfacenti occorrono investimenti di alto valore economico, a volte persino rischiosi. La cultura, ci ricordano Christian Caliandro e Pier Luigi Sacco in un utile volume - Italia reloaded. Ripartire dalla cultura (Il Mulino) -, ha bisogno di infrastrutture intangibili, ovvero «di una società che pensa e che ama pensare». Se è vero che l’Italia è piena di castelli, palazzi storici, chiese, musei, è altrettanto vero che questi vanno resi visitabili, agibili al pubblico, e per farlo occorrono investimenti economici, mentre vengono lasciati deteriorare luoghi e edifici per mancanza di fondi e investimenti, come nel caso di Pompei.
Ma il problema non è solo questo. Il fatto è che la cultura italiana, quella che dovrebbe rendere «utilizzabile» il proprio patrimonio artistico, fondato sul mito della «città d’arte», scrivono i due autori, possiede un’identità totalmente incentrata su un passato definito e cristallizzato. L’Italia coltiva da decenni un «disinteresse pressoché completo per le forme della produzione culturale innovative e legate alla contemporaneità», e allo stesso tempo propone un’offerta culturale prevedibile, totalmente modellata su tempi e interessi del turismo. Le famose città d’arte sono viste come luoghi fruibili prima di tutto dai «turisti», in cui i «residenti» sono diventati i complici compiacenti su cui si riversa parte della ricchezza portata dai visitatori, mentre il costo delle case nei centri storici, trasformati in piccole Disneyland, aumenta vertiginosamente, con l’effetto dello spopolamento.
Il paradosso con cui hanno a che fare questi paesi e città è infatti quello di sentire come una minaccia qualsiasi cambiamento architettonico, mentre si adeguano, spesso senza rendersene conto, alle forme stereotipate che il turismo di massa produce nel consumo delle città medesime. Attirano i turisti, come auspica la ministra Brambilla, ma diventano quello che i turisti vogliono che siano, secondo un modello tipico di ogni forma di consumo. A Venezia come a Roma, a Orvieto come ad Amalfi, i turisti restano nei luoghi solo il tempo di una rapida visita, trasformandoli in tanti McDonald’s dell’arte.
Il progetto di puntare solo sul turismo per rivitalizzare le città italiane non è più compatibile con loro rinascita culturale. Mentre un tempo, prima dell’ondata semibarbara del turismo di massa, le città italiane accoglievano stabilmente artisti e intellettuali, che vi amavano vivere e lavorare, oggi sono quasi tutte disertate da questi residenti, a vantaggio di città estere come Berlino, Barcellona, Cracovia, dove le idee circolano con più rapidità e in modo efficace, contribuendo a rendere questi luoghi un crogiuolo interessante e vitale.
Il problema che i due autori si pongono è come far ripartire il nostro Paese attraverso la cultura, una questione che in un momento come l’attuale è assolutamente prioritaria. La condizione che Caliandro e Sacco ritengono indispensabile è la creazione di un’identità collettiva. Oggi l’intero Paese pensa al proprio passato come a uno «scrigno», una tomba da custodire; e alimenta una nostalgia perniciosa che è l’esatto opposto della comprensione storica; la nostalgia, scrivono, è la pellicola della rimozione.
La parola chiave per comprendere lo stallo in cui si trova il Paese è appunto «rimozione». Gli italiani non sono in grado di riconciliarsi con la propria storia. Per usare la cultura come fattore di sviluppo bisogna fare prima di tutto i conti con se stessi, col proprio passato, e avere un’idea collettiva del futuro. Uno dei capisaldi di questo blocco psichico, che riguarda l’intera Italia, il Nord come il Centro e il Sud, è proprio dalla televisione, la neotelevisione, come l’ha definita Umberto Eco nel 1983, che ha alimentato negli ultimi vent’anni, sulla falsariga del modello americano dell’intrattenimento, questa mancata comprensione, oltre a fornire ai telespettatori massicce dosi di glamour e vintage, se non proprio di pornografia di massa a buon mercato. La cultura si è fissata su stereotipi per cui il popolo amerebbe il pop, mentre una minoranza d’intellettuali la cultura alta, altro luogo comune che finisce per avvalorare l’unica televisione dominante, quella commerciale, e il suo conformismo di fondo.
Uno scrittore, Giorgio Vasta, ha espresso in modo icastico questa situazione: «L’Italia è un Paese a somma zero». L’industria culturale nel nostro Paese non favorisce per nulla l’innovazione, ma vive su modelli precostituiti e già affermati. Come fare per ripartire? Innovando, introducendo quello che Robin Wood, saggista americano, ha definito disturbance, il disturbo culturale, che è proprio dell’arte e della letteratura, e che «permette di misurare la distanza creativa tra la nuova proposta e il gusto già affermato». La cultura dovrebbe diventare un contesto esperienziale, scrivono gli autori del libro, in cui le persone imparano a creare possibilità per se stessi e per gli altri investendo sul proprio potenziale di sviluppo umano. Un’impresa non da poco, ma indispensabile." (da Marco Belpoliti, Non basta il turista per farci risorgere, "La Stampa, 23/04/'11)

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