martedì 19 aprile 2011

L'estetica contemporanea


"Sull'estetica - disciplina nata nel Settecento, esplosa nell'Ottocento e infine data per morta, o quasi, col finire del Novecento - si sono scritti parecchi trattati, compendi, storie. Quasi che in quel fiorire di iniziative si sia tentato di elaborare un lutto che consentisse di legittimare la parola fine. E su questo aspetto "terminale" ha insistito Mario Perniola con il suo egregio lavoro di ricognizione dedicato all'estetica contemporanea (La società dei simulacri, numero speciale della rivista Agalma in uscita il 27 aprile): alle sue declinazioni, che sono molteplici e alle sue implicazioni con il tessuto sociale e storico che ne fanno un oggetto meno remoto e specialistico di quanto il lettore non immagini.

È possibile una definizione univoca dell'estetica?
«No. Il progetto estetico, nella sua complessità storica, pretendeva di tenere insieme cose disparate, come il bello, l'arte, la conoscenza sensibile e gli stili di vita che aspirano a qualche forma di eccellenza. Un po' troppo: perciò a un certo punto è implosa. Della bellezza oggi si occupa la cosmetica o l'ecologia. L'arte è un business di lusso che finisce col confondersi con la moda e la pubblicità. Quanto agli stili di vita eccellenti aspirano al divismo o al contrario all'antidivismo».

Lei individua sei momenti con i quali l'estetica si è, nel corso dei secoli, riconosciuta: "vita", "forma", "conoscenza", "azione", "sentire", "cultura". Che tipo di classificazione ha costruito?
«Si tratta di poste in gioco per le quali si sono svolte le battaglie all'interno della cultura occidentale: gli amici della vita (spontaneisti ed effimeri), contro gli amici della forma (che vogliono tramandare qualcosa di valido alle generazioni future); gli amici della conoscenza (che vogliono trovare nell'arte la verità) contro gli amici dell'azione (che pretendono che l'arte cambi l'esistenza). Quanto alle due ultime categorie sono già al di là dell'estetica propriamente detta: i pensatori del sentire sono gli esploratori di esperienze psichiche inusuali o addirittura patologiche. Quanto alla cultura, la questione di fondo è come opporsi all'imbarbarimento della società».

Lei descrive quattro grandi pensatori del sentire: Freud, Heidegger, Wittgenstein, Benjamin. Cosa li tiene assieme?
«Ciò che li accomuna è l'esperienza di un sentire senza soggetto. Per Freud la psiche è sempre pensata come un campo di battaglia in cui si fronteggiano istanze opposte; l'intero pensiero di Heidegger è una critica radicale alla nozione di soggetto; Wittgenstein ci introduce in una dimensione impersonale del sentire: infine le nozioni su cui si focalizza il pensiero di Benjamin sono la morte, la merce e il sesso».

Si può ancora lavorare a un progetto estetico?
«No, penso che gli ultimi che hanno scritto di estetica in grande stile siano stati Lukács e Adorno. Entrambi nemici del populismo e del naturalismo refrattario ad ogni principio selettivo».

Lei ha spesso sostenuto che la vera crisi culturale sopraggiunge con gli anni Sessanta. Perché proprio in quel periodo?
«Il mito del progresso ininterrotto raggiunge negli anni Sessanta il suo apice. Perciò le nuove generazioni che non hanno vissuto gli orrori della Seconda guerra mondiale, sentono di poter fare ancora un grande balzo in avanti e si illudono di poter fare a meno dell'eredità del passato. C'era insieme molta ingenuità e molta malafede in questa pretesa. Gli "eredi" sono profondamente diversi dai "maestri": essi non avranno più seguaci ma fan. Nasce il divismo culturale e si afferma l'inefficacia della cultura».

Eppure sono stati anni culturalmente stimolanti.
«Ma con quali effetti? Da un punto di vista generale, la critica dell'autoritarismo si trasforma nella negazione di ogni tipo di autorevolezza. Il ruolo di educatore prima esercitato dai genitori e dagli insegnanti viene assunto dai mass media e dall'industria culturale. Inizia un processo di delegittimazione della famiglia e della scuola che si protrae fino ad oggi».

È un problema che ha alla base la crescita della cultura di massa e della formazione di un nuovo pubblico.
«Il "pubblico" compare nel Settecento e garantisce ad alcuni autori di vivere dei proventi dei loro libri. Oggi c'è una frammentazione e disgregazione del sapere che rende impossibile una cultura comune condivisa, che non sia quella sportiva o del lotto. Paradossalmente perciò sono più importanti i piccoli circoli, i cui membri sono tenuti insieme da un legame più profondo di quello offerto da Facebook».

Non ritiene che proprio Internet possa giocare ancora un ruolo sia estetico che culturale?
«Penso che Internet consenta un'organizzazione di tutto il sapere completamente diversa da quella teorizzata e realizzata agli inizi dell'Ottocento con la nascita dell'università moderna. È ancora presto per misurarne gli effetti, ma quelle che possono essere anche le novità positive non è detto che abbiano buon esito a causa delle feroce concorrenza e della velocità del cambiamento. Il problema è anche di capire a quale modernità vogliamo riferirci».

A questo proposito lei sostiene che non c'è stata una sola modernità, che Giappone, Cina, Brasile, Islam ne hanno conosciute di diverse. Con quali effetti?
«Di ricchezza e diversità culturali sorprendenti. Penso che non esista una sola forma di modernità, quella euro-americana, ma molte modernità che, a differenza della nostra, come ad esempio il Giappone, non hanno tagliato il loro legame con la tradizione, pur trasformandola profondamente. Il nostro errore è dare per scontato che il nuovo sia per definizione meglio dell'antico».

Che modernità incarna il Giappone le cui tragedie - almeno quelle tecnologiche - sono del tutto simili a quelle occidentali?
«La modernità giapponese nasce da un'approfondita conoscenza dell'Occidente, ispirata dal principio di incorporare le cose buone e rigettare le cose cattive. Un altro aspetto importante è il rifiuto del melting-pot, vale a dire del confondere tutto con tutto. Il Giappone ha un'eccezionale capacità di assimilazione di ciò che è altro e differente: tutta la sua cultura infatti è per un millennio e mezzo importata dalla Cina e nell'ultimo secolo e mezzo dall'Occidente. Tuttavia il criterio fondamentale è la giustapposizione: nessuno deve invadere il campo altrui».

Quello che in loro è giustapposizione in noi è il principio delle autonomie. Non è questo uno dei tratti della nostra modernità?
«Effettivamente occorre ricordare che la modernità occidentale comincia con il metodo: ogni attività o disciplina deve essere eseguita affermando la propria autonomia. Solo così la scienza, la politica, l'economia e anche l'estetica si sono emancipate dalla religione aprendo nuovi orizzonti di conoscenza».

Questi nuovi orizzonti sono quelli che hanno permesso il progresso e la lotta contro la barbarie. Due momenti oggi profondamente in crisi, non trova?
«La caduta del mito del progresso è ormai un fatto. Se poi - cosa che mi pare stia accadendo - viene negata la separazione e l'autonomia dei tre poteri dello Stato: legislativo, esecutivo e giudiziario, cade uno dei principi fondamentali della modernità occidentale e noi finiremo col prendere dall'Oriente proprio l'aspetto peggiore del suo passato: il dispotismo. E l'estetica era nata e si era sviluppata proprio come un baluardo contro la tirannide».

In che senso?
«L'estetica è una medaglia a due facce. Da un lato essa è stata l'arma fondamentale usata dalla classe media per affermare la propria egemonia sociale e culturale nella forma della democrazia politica. I giudizi estetici nascono dalla discussione tra individui liberi: perciò essi sono il modello dei giudizi politici. Nello stesso tempo ha aperto una prospettiva antagonista rispetto all'assolutismo feudale, al capitalismo e al populismo. Nata nel Settecento è un prodotto complesso dell'Illuminismo»." (da Antonio Gnoli, Quel che resta dell'estetica, "La Repubblica", 18/04/'11)

1 commento:

felino ha detto...

Ho appena scoperto per caso questo sito e lo trovo una miniera di informazioni. Complimenti! Pur non vivendo a Garlasco vorrei ringraziare Silvana per il suo lavoro!