lunedì 11 aprile 2011

D'autres vies que la mienne


"C'è un modo tutto particolare, che hanno le persone di affidare agli altri un proprio dolore. È una postura che cerca lo sguardo dell'altro, e allunga le braccia, porge una cosa di cui chiede di avere cura. C'è dentro una delicatezza, una tenerezza e un fallimento, che è il fallimento di chi non è riuscito a sopravvivere al proprio dolore, di chi ci ha provato ma non è riuscito a salvarsi. Il fallimento di chi affida a un'altra persona un dolore che gli è proprio è quello di chi ha provato a risolverlo, e però non ce l'ha fatta. Perché era troppo per lui: troppo complicato o troppo grande, troppo ampia la campata dell'onda o troppo piccolo l'uomo che l'ha vista montare sopra di sé.
È per questo che la postura di chi affida il proprio dolore a un altro contiene sempre anche una supplica. È la preghiera di chi chiede a un altro uomo – o un'altra donna – di provarci lui, a sciogliere quel nodo, ad aggiustare quella cosa che la vita ha scassato. E poi sperare che l'altro uomo – o l'altra donna – ce lo restituiscano intero, risolto, e che ci salvino, con il loro ascoltare.
È quello che succede in Vite che non sono la mia (Einaudi), di Emmanuel Carrère: «Da sei mesi a questa parte, ogni giorno, di mia spontanea volontà, ho trascorso qualche ora davanti al computer a scrivere di ciò che mi fa più paura al mondo: la morte di un figlio per i suoi genitori, quella di una giovane donna per i suoi figli e suo marito. La vita mi ha reso testimone di queste due disgrazie, una dopo l'altra, e incaricato, o almeno così ho capito, di renderne conto». Il figlio morto è in realtà una bambina, si chiama Juliette, e l'onda dello tsunami, in Sri Lanka, se l'è portata via in un colpo solo, le è finita sopra e quando si è ritratta lei non c'era più. I suoi genitori si chiamano Delphine e Jérôme, ed erano in vacanza là, nel 2004, quando tutto è successo, e dopo che il mare ha attaccato il resto è stato cercare di recuperare il corpo della bambina, che l'acqua chissà dove aveva portato, e andarselo a riprendere, e capire che farne, se riportarlo in Francia o dargli sepoltura lì. E il resto è stato tentare di tirarsi fuori da quel buco di dolore in cui erano caduti: «credo che si preoccupino di sopravvivere alla morte di Juliette». Da qui il fallimento, lo smarrimento, e infine la supplica. Soprattutto, la volontà di affidare a Emmanuel Carrère stesso, che era lì con loro al momento dell'onda, il proprio dolore, perché glielo restituisse intero, con almeno dentro uno straccio di senso, là dove invece il senso si era ritratto non lasciando più nulla, solo sabbia e altri relitti, e tutt'intorno morte e distruzione. «A un certo punto del viaggio mi ha preso da parte e mi ha chiesto: tu che sei uno scrittore, scriverai un libro su tutto questo?».
La seconda "disgrazia" è la morte di un'altra Juliette, la sorella della compagna dello scrittore. Il cancro l'ha colpita a più riprese per poi lasciarla in terra, senza vita, alla fine. Il primo attacco era stato che era giovanissima, e le aveva lasciato una menomazione, una gamba che non funzionava più come l'altra, la coazione a vivere zoppiccando. Ma poi la vita le aveva dato un marito che amava – Patrice – e tre figlie, Diane, Amélie e Clara. E però il tumore è tornato a colpire e le ha mangiato tutto quello che poteva mangiare, con i familiari che le stavano accanto e non sapevano che dire, né soprattutto che fare. La vedevano combattere e soffrire, e anche non voler mai troppo sperare, perché la speranza è quello che corrode davvero, se non si è certi di potercela fare. Questo è il dolore che lo scrittore vede crescere sulla faccia di Hélène, la sua compagna, e dentro la loro famiglia. E però sarà poi Étienne a chiedere allo scrittore di scriverne. Lui che era collega di Juliette, suo complice di sventura, azzoppato anche lui da un tumore. «La prima notte che trascorri in ospedale, da solo, quando hai appena scoperto di essere gravemente malato, che di questo male forse morirai e che questa, ormai, è la realtà. Allora, diceva, accade qualcosa, qualcosa che rientra nell'ordine della guerra totale, della disfatta totale. Non aveva dato il benché minimo segno di conoscermi come scrittore ma lì, davanti a tutti, guardandomi negli occhi, mi ha detto: dovrebbe rifletterci, su questa storia della prima notte». Così dunque il progetto di scrivere: «La notte seguente, la prima dopo la morte di Juliette, ho ripensato a quello che Étienne ci aveva raccontato e mi è venuta l'idea di raccontarlo a mia volta. Su questo progetto ho avuto molti dubbi, l'ho abbandonato per tre anni credendo che non ci sarei più tornato, ma quella notte mi è sembrata un'evidenza. Mi avevano fatto una commessa, bastava rispondere sì».
Ecco: la letteratura che si carica sulle spalle il dolore degli altri, perché gli altri ne siano salvati, e insieme a loro anche chi scrive, e anche il lettore. C'è una postura tutta particolare, in chi accoglie il dolore di un altro, e quella postura contiene la paura di soffrire, quella di far soffrire, il terrore di non essere in grado di farci qualcosa, e anche l'impossibilità di non raccoglierlo, quel dolore, il non potersi permettere di rifiutarlo. Perché altrimenti poi cadrebbe in terra, e lo si guarderebbe in due, sul pavimento, ancora più rotto di prima, mortificati e impotenti. Carrère dice di raccontare delle «vite che non sono la sua», dice di avere ricevuto delle «commesse» da altri, degli scampoli dolorosi di esistenze altrui che hanno bussato alla sua porta e poi sono finite distese sul suo tavolo. Sono rimaste lì perché lui rendesse loro giustizia, ne sgarbugliasse le matasse, li mettesse in fila a farli sembrare se non un disegno, quanto meno un dolore con una qualche – qualsiasi – ragione. E però, dentro questo romanzo bellissimo, pieno di forza ed eleganza, dolore, dignità e compassione, c'è un solo modo per ricevere il dolore degli altri: farlo diventare il proprio dolore. Perché quelle vite che non sono la sua possano essere raccontate, lo scrittore non può far altro che farle diventare la propria vita. Il titolo del libro non è altro che una menzogna piena d'amore, perché ha dentro tutta la cura e la tenerezza per le persone che a lui hanno affidato il loro dolore perché ne facesse qualcosa. Le vite delle due Juliette, quelle di Patrice, di Diane, di Amélie, di Clara, di Étienne, di Delphine, di Jérôme, di Philippe, di Hélène stessa, per acquistare un senso non hanno altra scelta se non diventare le vite di chi scrive, della persona a cui con emozione e paura sono state consegnate. È l'idea – forse discutibile, anche, per qualcuno – di una letteratura che salva, e dello scrittore come colui che patisce i dolori per tutti. Carrère, lo scrittore che scrive di quelle vite, soffre il loro dolore, lo vive nella propria carne, lo mescola al proprio. Solo così lo può restituire agli altri aggiustato, quando farà leggere loro il romanzo, prima di darlo alle stampe con il titolo di D'autres vies que la mienne. Gli altri gliene saranno grati perché avrà un senso, finalmente, anche se forse nel profondo sapranno che non è più il loro dolore. Ma lo ringrazieranno e gli saranno grati per averli liberati, per averli tirati fuori dal buco. E dopo essersi caricato i dolori degli altri, dopo averli fatti diventare i propri. Perfino lo scrittore è salvato, attraverso il dolore altrui, se è vero che all'inizio del romanzo scrive «mi sono addormentato dal mio lato del letto, solo e triste, persuaso che la mia vita sarebbe andata sempre peggio», e poi verso la fine: «Lei piange, piange anche lui, c'è un che di tenero nel piangere insieme, così, il padre e la sua piccolina, ma lui non può e non potrà mai più dirle quello che i padri vorrebbero dire ai loro figli sempre: non è grave. E io che sono lontano da loro, e sapendo quanto sia fragile, sono felice»." (da Andrea bajani, Scrittore, restituiscici il dolore nostro, "Il Sole 24 Ore Domenica", 10/04/'11)

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