lunedì 4 aprile 2011

Finnegans Wake


"Il 13 novembre 1938, a Parigi, James Joyce, il più grande sperimentatore modernista, completò il suo ultimo libro, quel Finnegans Wake che, secondo una sua previsione destinata ad avverarsi, avrebbe dato lavoro a un esercito di critici per almeno cent'anni. Il libro "maledetto", come lo aveva definito in una lettera all'allievo zurighese Paul Ruggiero, gli era costato quindici anni di sudore e di apprensione, testimoniati dal titolo provvisorio che gli aveva dato per tutto quel tempo: Work in Progress. Tanta fatica era ben giustificata, per un'impresa immane come il suo Finnegans, che fu accolto con stupore e sconcerto, dividendo da subito la critica tra coloro che lo consideravano un capolavoro, una summa dell'umanità in una prospettiva vichiana, e coloro che, a partire dal fratello Stanislaus, ci vedevano un fallimento totale della comunicazione, un vicolo cieco in cui lo scrittore dublinese aveva fatto precipitare la tradizione del romanzo borghese, confinando la parola al puro suono senza significato. Con Finnegans Wake, Joyce ha dato corpo non solo a un trattato di metafisica, ma «a un trattato di logica formale che ci porge gli strumenti per definire, in un mondo che attende la nostra definizione, le infinite forme possibili dell'universo». In Finnegans assistiamo all'esplorazione d'un sogno notturno: tutto si compie nell'arco d'una notte, in cui la dimensione onirica si riaggancia alle prefigurazioni freudiane e junghiane del protagonista, il taverniere cinquantenne Humphrey Chimpden Earwicker.
Ma, come dice il titolo, argomento del libro è anche la veglia "per" il muratore Tim Finnegan, morto sbronzo cadendo da una scala, al centro d'una popolare ballata irlandese; veglia che, secondo la tradizione locale, comporta ampie libagioni e fiumi di whisky. Durante la nottata allegra la vedova, memore del "vizietto alcolico" del marito, deposita al suo capezzale un gallone di whisky che, in seguito a una rissa tra gli invitati, si rovescia sulla salma provocandone la "resurrezione". Dunque, a partire proprio dal titolo, Joyce ci presenta le varie anime di Finnegans Wake: la raffigurazione d'un sogno, che coinvolge la "storia ideale eterna" vichiana nella circolarità della vita, della morte e della rinascita dell'uomo. E, anche, quella d'un risveglio/ritorno, da cui viene il nome Finnegan, composto da Finn e again («di nuovo Finn, ecco Finn che ricompare»), che si riallaccia al mito irlandese di Finn MacCoole, fondatore del partito irredentista feniano (Fianna) e collocato nel mito ossianico: MacCoole è il padre di Ossian. In più Joyce sottintende anche che il taverniere Humphrey Chimpden Earwicker va identificato con l'uomo qualunque (H. C. E. sta per «Here Comes Everybody») e ciò per sottolineare che ci troviamo di fronte a un'epitome della storia umana.
Al di là della trama, Finnegans rappresenta un colossale esperimento linguistico. Di Joyce si è più volte detto che privilegia lo «stile che diviene il tema», e l'esperimento di Finnegans si fonda massicciamente sulle trasformazioni linguistiche. Una polisemia che rafforza nello scrittore irlandese la volontà di estremizzare le istanze interdisciplinari care alle avanguardie, da Picasso a Schönberg. Fino a creare uno straordinario gioco di innesti semantici – ovverosia un immenso mosaico di neologismi – secondo la tecnica del portemanteau: con un asse iberno-inglese (meglio di anglo-irlandese) su cui si innestano almeno trenta lingue diverse compreso il dialetto triestino. Secondo Beckett si trattava di un'opera non scritta in inglese («Non è scritta per niente. Bisogna guardarla, ascoltarla; non è un componimento su qualcosa, è quel qualcosa»). E questo perché Finnegans Wake è permeato dalla dimensione fonica della parola, che non è più una parola in una lingua bensì in «ogni possibile lingua».
Ma un libro del genere è traducibile? Se contiene tante diverse lingue, in che lingua può essere tradotto? Se è puro suono, che senso ha tradurlo? Si può tradurre o descrivere un testo musicale? Ecco un immediato grappolo di domande che scaturisce dalla versione italiana fatta da Luigi Schenoni votato sino alla morte – avvenuta nel 2008 – a questa sovrumana impresa che, iniziata nel 1974, ha fruttato nel 1982 parte del primo libro (I-IV cap.), seguita nel 2001 dai capitoli V-VIII e nel 2004 dai primi due capitoli del secondo libro. Ora escono postumi e conclusivi, sempre per Mondadori, i capitoli III e IV del secondo libro, e di nuovo si ripropone il problema della possibilità di tradurre questo monumento linguistico, incentrato su un idioma quasi del tutto inventato. Nonostante che in Italia ci abbiano provato, anche se solo in parte, traduttori come Mario Diacono, Gianni Celati e Rodolfo Wilcock, è indubbio che Schenoni, a differenza dei suoi predecessori, ci fornisca un prezioso esemplare di "ri-creazione" (non di traduzione) di Finnegans Wake. Ben consapevole della dimensione "incontenibile" della polisemia joyciana, ha infatti scelto la via di un originale doppio registro interpretativo, che è parte integrante di questa corposa edizione mondadoriana. In primo luogo, da «poeta originale» come amava definirsi, Schenoni tenta di compiere con l'italiano la stessa operazione che Joyce fece con l'iberno-inglese, mettendo alla base del portemanteau la nostra lingua (assai più duttile di come immaginiamo); in secondo luogo, per mantenere quanto più possibile un'adeguata referenzialità con l'originale, sceglie di "compensare" questo stravolgimento con l'aggiunta di un glossario vastissimo (quasi più lungo del testo). In questo modo ci fornisce tutte le possibili interpretazioni "linguistiche" atte ad affiancare la parte più inventiva: quella in cui traduce (questo sì) la struttura musicale del libro dandogli lo stesso suono, ma in italiano. Così facendo ci consegna un testo scritto in "schenonese" (non più in "finneganese").
Ed ecco la domanda finale: tutto ciò regge il principio della comunicazione, che sta alla base della traduzione? Difficile dirlo. Il risultato è solo "diverso". Per fare un esempio, certo azzardato, e rimandando alla fondamentale dimensione fonica del testo, se Joyce ha scritto un brano wagneriano Schenoni ci ha dato un brano verdiano. È sempre musica, però. Purissima musica." (da Renzo Crivelli, Enigmatica veglia notturna, "Il Sole 24 Ore", 03/04/'11)

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