sabato 9 aprile 2011

Diario di lettura: Massimo Carlotto


"Un’indiscussa fedeltà lo ha legato per anni a cinque grandi casse di odiosi faldoni, sentenze, scartafacci. Invece nei confronti di tutto quello che ha più amato, Massimo Carlotto è stato traditore e fedifrago: «Le ragazze e i libri: da loro mi sono spesso dovuto separare con un taglio netto», confessa il grande protagonista del noir italiano appoggiato al tavolaccio in rovere fatto costruire appositamente identico a quello di Pablo Neruda.
«La prima volta che, mentre mi si spezzava il cuore, ho dovuto abbandonare una gran borsa zeppa di volumi è stato nella toilette del Charles de Gaulle. Troppo pesante per un bagaglio a mano. Stavo per imbarcarmi per Città del Messico, spedirli costava una cifra», racconta il «latitante per caso», come si è autodefinito il cinquantacinquenne scrittore padovano, a soli 19 anni incriminato, quando era un militante di Lotta continua, per un assassinio mai commesso. E’ in uscita a maggio il nuovo attesissimo racconto, Alla fine di un giorno noioso (E/o editore), dove, dopo dieci anni, ritorna Giorgio Pellegrini, protagonista di Arrivederci amore, ciao. E intanto oggi pomeriggio Carlotto svelerà i segreti del genere letterario di cui è indiscusso maestro in una lectio magistralis per la manifestazione romana Libri come (presso l’Auditorium Parco della musica, a cura di Marino Sinibaldi).
Allora, Carlotto, cosa dirà ai suoi lettori? Cosa c’è di speciale nella fucina stregonesca di chi lavora a costruire un romanzo giallo? «Il mio metodo di scrittura affonda le radici nella mia vita da “fuggiasco” (è il titolo del primo racconto di Carlotto,ndr) e pure nei sofferti abbandoni dei libri che più mi confortavano nella solitudine. Oggi tra i polizieschi che leggo volentieri c’è la serie di Thomas Harris con lo psichiatra cannibale Hannibal Lecter e la trilogia di Millennium di Stieg Larsson. Un meraviglioso laboratorio d’invenzione. Che io chiamo gialli d’evasione. Invece il noir per me suona tutt’altra musica e, pur lavorando con l’immaginazione romanzesca, deve arrotare i denti, mordere una realtà».
Dunque, come procede? «Con l’inchiesta non solo sui documenti ma anche con l’indagine sul campo: per i Cristiani di Allah, per esempio, sono andato in Algeria, in Kosovo per L’amore del bandito. Poi - ed è questa la ripetizione del passato - sento il bisogno di abbandonare tutto, di liberarmi da carte, libri. Da latitante in realtà dovevo purtroppo separarmi anche dalle amiche a me più care. Oggi faccio un viaggio da solo, con un bagaglio essenziale, accompagnato esclusivamente dal pensiero del romanzo che sto per scrivere. Ma non butto giù nemmeno una riga e si ripete quello che accadeva quando ero in carcere, covavo dentro di me le storie che volevo raccontare e non potevo farlo dal momento che avevamo una penna ogni venti detenuti. Anche ora, in questi giorni itineranti, non prendo appunti, niente, rumino la materia che sento calda, bollente. Quando rientro, inizio la stesura».
Chi sono i giallisti per eccellenza, quelli che operano una denuncia sociale e colgono il punto nevralgico dell’attualità? «James Ellroy lo ha definito “il re incontrastato del giallo scozzese”: è Ian Rankin i cui “police procedural” riescono ad aprire squarci inediti e illuminanti sulla Scozia di oggi. Nicolas Jones Gorlin ambienta le sue storie nei commissariati delle periferie parigine, tra casermoni fatiscenti, strade presidiate da spacciatori, ladri, assassini. Oppure, ancora, c’è la coppia di culto, Roslund & Hellstrom, che descrive il sistema carcerario della Svezia, in Tre secondi, come nemmeno lo immaginiamo, arretrato, senza protezione per i pentiti, molto simile a quello di un Paese del terzo mondo».
Le prime letture che l’hanno avviata sulla strada del thriller? «Sono arrivate tardi. A casa, a Padova, c’era una grande biblioteca con la sezione proibita e naturalmente, per me, la più appetita: di L’amante di Lady Chatterley consumavo goloso gli avvinghiamenti erotici della lady con il guardiacaccia. Come facevo, del resto, anche con il Placido Don di Michail Aleksandrovic Solochov che conteneva scene che all’epoca giudicavo audaci. Poi mi cimentavo con Stevenson, Salgari, Fenoglio, Silone, Cassola, Pavese, Hemingway e Dos Passos che invece mi deluse. A indirizzarmi per una via simile a quella che poi io stesso avrei percorso c’era Sciascia con il bellissimo Giorno della civetta. A scuola ero un asino ma con le ragazze mi fingevo gran letterato. Spacciavo come mie le poesie di Neruda e testi di Bob Dylan. A tredici anni divento comunista e mi immergo in Stalin, Marx, Lenin e Mao con Le divergenze tra il compagno Togliatti e noi».
E i classici, da Dostoevskij a Flaubert a Stendhal? «Guerra e pace, I fratelli Karamàzov, Il castello di Kafka sono l’appuntamento rimandato per anni. Nel periodo delle mie peregrinazioni per il mondo mi seguivano il padre del noir francese, Léo Malet, Auguste Le Breton con Rififi e molti testi sulla Resistenza francese e la Shoah. Avevo fatto mia l’affermazione di Pavese che “la letteratura è in grado di rappresentare una difesa contro le offese della vita”.
Leggendo questi racconti ridimensionavo la disgrazia di essere stato ingiustamente accusato di aver inferto 59 coltellate a una studentessa venticinquenne. Mi commuoveva la ricostruzione della persecuzione meglio nota come “Affaire Manouchian”, tra il 1942 e il 1944, di un leggendario gruppo di partigiani immigrati, ungheresi, polacchi, italiani e spagnoli, quasi tutti ebrei abbandonati da altri resistenti francesi ai nazisti. Avere un libro in mano, toccarlo, per un esule è uno straordinario conforto. Ho conosciuto espatriati cileni, iraniani e tanti altri: tutti vedevano nella pagina una risorsa vitale. Mi ricordo una foto bellissima di Sandro Pertini, perseguitato dai fascisti a Parigi dove faceva il muratore: è in tram e legge».
In carcere riusciva a concentrarsi sui libri? «Sulla mia passione, sul thriller
che offriva quella soluzione consolatoria che mancava alla mia esistenza. Mi piaceva poi Lillian Hellman, che in Giulia raccontava l’amicizia tra due donne sullo sfondo della Seconda guerra mondiale, e Dashiell Hammett che con la Hellman ebbe una relazione trentennale e finì dietro le sbarre in epoca maccartista. Quando mi misero nella sezione dei politici mi adottarono e mi protessero dal momento che ero il più giovane. Con loro tutto era organizzato. Ginnastica, letture e discussioni andavano in un’unica direzione: assai seguito, per esempio, era Toni Negri con le Trentatré lezioni su Lenin. Mi aveva poi conquistato Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez che ho ripreso in mano di recente e ho trovato di una noia mortale. Quando vengo trasferito a Padova con i detenuti comuni eccomi stipato in una camerata con altri venti carcerati. Erano per la maggior parte anziani, immersi in vecchi numeri di Oggi e Gente: mi chiesero di raccontare delle storie. Io mi impegnai come affabulatore interpretando Agente 007 - Licenza di uccidere di Ian Fleming».
Il primo film e il primo libro dopo la reclusione? «The Blues Brothers di John Landis con John Belushi e Dan Aykroyd. E’ difficile far capire a chi non l’ha mai provata la differenza che esiste tra vedere una pellicola in bianco e nero da solo in una cella - le serate di cinema erano state abolite perché si verificavano
disordini e rivolte - e stare in una sala, in una visione collettiva a colori. I miei primi tomi, quelli che danno finalmente vita alla mia libreria stanziale, provengono da una piccola casa editrice, la Bertani di Verona: appena esco dalla prigione vado a trovare un amico e mi porto via un’intera cassa. Due anni dopo aver ottenuto la grazia, aiutato dalla critica e scrittrice Grazia Cerchi, ho esordito con il primo racconto. Forse proprio perché ho avuto la sensazione di galleggiare in un gran mare di ingiustizia ho individuato nel noir la navicella più adatta a portare alla luce un gran carico di verità nascoste e realtà tradite»." (da Mirella serri, Ho ascoltato la civetta di Sciascia, "TuttoLibri", "La Stampa", 09/04/'11)

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