sabato 18 aprile 2009

Un incontro di Milan Kundera


"Tra gli scrittori contemporanei, l'ottantenne Kundera può essere annoverato tra i pochi in grado di formulare rilevanti osservazioni sull'estetica sottesa all'arte romanzesca. E' una tradizione novecentesca che ha il suo prototipo in Henry James, poi nel Proust del Contro Sainte Beuve, in Musil con la sua utopia del saggismo, un'arte che eccelle in Hermann Broch e che si perpetua in Nabokov e Canetti, Gombrowicz e Calvino. Dapprima Kundera ha pubblicato un libro dal titolo programmatico: L'arte del romanzo, poi ne ha approfondito le tesi con I testamenti traditi, ne ha sviluppato ulteriori aspetti ne Il sipario e infine ha perfezionato il quadro complessivo in questa raccolta, Un incontro: in realtà, molti incontri in cui l'estetica dello scrittore praghese interagisce con singole, predilette espressioni artistiche. Tutti questi, spesso brevi ma folgoranti, ritratti di artisti (da Céline a Hrabal, da Fuentes a García Márquez, da Kis a Chamoiseau, da Schönberg a Janácek, fino alla sorprendente rivalutazione di Curzio Malaparte) sono pervasi dalla nostalgia per quella sapienza che si manifestava gioiosamente nella libertà compositiva dei primi romanzieri, da Rabelais a Cervantes fino a Fielding e Sterne, unita alla preoccupazione che si perda lo humour specifico del romanzo (qui definito «l'ultimo rifugio dell'uomo»), che abita quel territorio in cui è sospeso ogni giudizio morale: una mirabile e tenace professione di fede nella letteratura, in quanto il romanzo è l'ultimo osservatorio dal quale si possa abbracciare nel suo insieme la nostra esistenza, dando voce all'intollerabile «banalità della vita quotidiana», campo di esplorazione che la filosofia ha colpevolmente abbandonato.
Kundera esprime compiutamente la propria prospettiva teorica in termini di compensazione tra filosofia e romanzo: «se la filosofia non ha saputo pensare la vita dell'uomo, penetrarne la “metafisica concreta”, tocca al romanzo occupare questo terreno vuoto sul quale nulla potrebbe sostituirlo». Pertanto si può affermare che «allo stesso modo in cui Nietzsche ha riavvicinato la filosofia al romanzo, Musil ha riavvicinato il romanzo alla filosofia». Mantenendo la stessa libertà compositiva che caratterizzava il lavoro dei romanzieri antichi, il moderno romanzo pensato (persino quello di Anatole France vituperato per la sua proverbiale leggerezza) eredita dalla lezione nietzscheana il pensiero della prossimità, la fedeltà alla terra. L'epoca del romanzo è quella in cui diventano inoppugnabili i diritti dell'individuo, inteso come singolarità irripetibile e tetragona allo spirito di sistema che aleggia in ogni prospettiva filosofica. La storia del romanzo reclama la propria indipendenza dalla Storia dell'Umanità, rivendica la libertà della creazione personale che contrasta e sfida un anonimo sistema di regole preesistenti. In radicale opposizione alla mentalità metafisica e teocratica, il romanzo sembra «un universo alieno fondato su un'altra ontologia, un'inferno nel quale la verità unica non ha potere e la satanica ambiguità trasforma ogni certezza in enigma». Lo humour è la consapevolezza del finito priva dell'anelito all'infinito, l'euforia generata da quel grande «carnevale della relatività» che è il romanzo e forse la vita stessa, la benevola incompetenza a giudicare il mondo, l'inebriante certezza di aver edificato qualcosa su fondamenti invisibili, consapevolezza che accomuna lo scrittore al pensiero postmoderno. Mentre il filosofo esercita il suo gusto per la teoria, l'astrazione e l'essenza, il romanziere predilige la contingenza, l'ironia e la solidarietà (termini cari a Richard Rorty), sopporta che un enigma rimanga tale, che uno sguardo appaia imperscrutabile, riassorbito dall'immane futilità dell'esistenza, disponibile a cogliere come un dono inatteso «la bellezza di una repentina densità della vita». Alla distinzione concettuale tra realtà e apparenza, Rabelais, Tolstoj o Musil preferiscono la descrizione della molteplicità degli eventi e dei punti di vista, senza decretarne il valore di verità. I romanzieri intendono il mondo come avventura, ambiguità, complessità irresolubile, dilemma indecidibile e possiedono una preziosa e irriducibile saggezza dell'incertezza. Introducendo un toccante esercizio di ammirazione rivolto a Fellini, lo scrittore boemo esprime la desolante sensazione di vivere «in un mondo dove l'arte scompare perché scompaiono il bisogno dell'arte, la sensibilità, l'amore per l'arte». Di questa invincibile philìa appare come preziosa testimonianza lo splendido saggio consacrato all'opera di Francis Bacon, nel quale viene rievocato l'incontro con una ragazza praghese, intelligente, piena di spirito, la quale suscita nello scrittore non il comprensibile desiderio di fare l'amore con lei ma quello assurdo e ingiustificabile di possederla brutalmente, di profanarne impudicamente l'inaccessibile essenza. Di fronte agli occhi colmi d'angoscia della fanciulla, Kundera si identifica con lo sguardo di Bacon che si posa sul volto dell'altro come una mano brutale che vuole impossessarsi con la forza del nucleo intangibile di un essere vivente. Da remota e inquietante traccia mnestica, il ricordo dello scrittore praghese viene elaborato come problema filosofico: «i ritratti di Bacon sono un'interrogazione sui limiti dell'io. Fino a quale grado di distorsione un individuo resta ancora se stesso? Fino a quale grado di distorsione un essere amato resta ancora un essere amato? Per quanto tempo un volto caro che sprofonda nella malattia, nella follia, nell'odio, nella morte, resta riconoscibile? Dov'è la frontiera al di là della quale un “io” cessa di essere “io”'?». Destituita di fondamento ogni credenza metafisica e religiosa, resta un'identità infinitamente fragile, un soggetto vulnerabile, esposto alla persistente minaccia del mondo esterno e turbato dalle contraddittorie pulsioni che sintomatologicamente il corpo fa valere, affermando il proprio carattere accidentale, sofferente e insensato. Così come accade nei personaggi di Samuel Beckett, nella cui opera peraltro il pittore inglese diceva di non riconoscersi. La verità del corpo, l'orrore che ne scaturisce, è la sua accidentalità, colta e svelata in «quell'accidente privo di senso» che è la vita. Sarà ancora possibile tessere il panegirico del romanzo a condizione che esso sappia dar forma a tale lucido, fisiologico, disincantato se non brutale empirismo." (da Marco Vozza, Kundera, L'ultimo rifugio dell'uomo, "TuttoLibri", "La Stampa", 18/04/'09)

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