martedì 14 aprile 2009

Nessun maggior dolore. Le fonti poetiche nei libretti d'opera di Franca Olivo


"Le traduzioni di Ippolito Pindemonte e Vincenzo Monti sono ancora lontane, ma non per questo i poemi omerici scompaiono dall'orizzonte di un'Italia anche lei tutta ancora da fare. L'Odissea vive nell'intreccio che, nel primo Seicento, il letterato veneto Giacomo Badoaro scrive per Il ritorno di Ulisse in patria di Claudio Monteverdi. Il passaggio dalla fonte originale a quel nuovo testo è diretto, limpido ed è l'opera in musica a far esistere ancora come oggetto culturale di fronte a un pubblico quel racconto, e infiniti altri testi poetici. Concepita come un semplice elenco delle fonti, precisa nei riferimenti, la «piccola enciclopedia» Nessun maggior dolore curata da Franca Olivo (Bastogi)dimostra una volta di più che, sin dal suo battesimo come forma di spettacolo, il legame tra poesia e melodramma rimane saldo e fertile. Se, nel 1641, l'Eneide «nutre» il libretto della Didone di Francesco Cavalli, nel 1963 è il De rerum natura di Lucrezio a fornire a Edoardo Sanguineti più di uno spunto per il libretto di Passaggio di Luciano Berio. E i due vasi non hanno certo smesso di comunicare, se Adriano Guarnieri per la sua Pietra di diaspro (2007) si ispira all'Apocalisse e a Paul Celan. Ma non c'è operista di rango, da Rossini a Verdi, da Puccini a Strauss, fino alle creazioni di Luigi Nono e Salvatore Sciarrino, che non abbia compiuto questo percorso. Il testo diventa un materiale affidato all'autonoma creatività del compositore, secondo modalità che variano con i codici espressivi del tempo e l'estro personale: la «città dolente» di Dante è citata, con contenuto patetismo, dalla Speranza che accompagna Orfeo nel viaggio verso l'Ade raccontato da Monteverdi, mentre è genialmente buffa la metamorfosi che il personaggio di Gianni Schicchi (Inferno, XXX) subisce nell'opera di Puccini. Soltanto due generazioni fa, il contributo della Fusco sarebbe apparso non tanto un manuale utile e spesso sorprendente per la quantità di relazioni raccontate, quanto piuttosto un tentativo di riabilitare un genere di scrittura, il libretto d'opera, troppo a lungo considerato minore. Ormai, Quei più modesti romanzi, come li chiamò Mario Lavagetto in un bel saggio sui libretti di Verdi pubblicato nel 1979, sono stati restituiti alla loro dignità di strumenti linguistici e teatrali funzionali alla riuscita del complesso sistema drammaturgico che è l'opera in musica. Dal Seicento ad oggi - e ne hanno scritto con competenza e passione, tra gli altri, Luigi Baldacci, Daniela Goldin, Folco Portinari - i libretti (si chiamano così perché si potevano comodamente infilare in una tasca della giacca, in una borsetta) costituiscono un genere che disegna una traiettoria riconoscibile, prefigurando tra l'altro un tipo di scrittura funzionale alla rappresentazione visiva che ritroveremo nelle sceneggiature cinematografiche. Quando nel 1985 il Teatro italiano di Einaudi, curato da Guido Davico Bonino, dedica tre volumi ai «libretti», l'uscita da quel sofferto stato di minor dignità culturale è compiuta. Se la Fusco - che prosegue il percorso iniziato con Va' pensiero (Bastogi, 2007), dedicato all'influsso dei libretti d'opera sulla creazione poetica - si rivolge alla scena lirica, alla rappresentazione visibile, nel volume Gioia e dolor diventano canto, dedicato esclusivamente alle intonazioni delle poesie di Goethe, Erik Battaglia guarda invece a quella scena invisibile schiusa dalla musica e dal canto di un Lied, una forma musicale che trae dal testo poetico la sua ispirazione irrinunciabile. Il libro prende in esame (e traduce in italiano) mille Lieder scritti dal Settecento ad oggi, si avvale di un apparato critico e di un catalogo ragionato di primissimo ordine, ribadisce l'importanza non solo musicale, ma sociale, di uno strumento come il pianoforte. I versi di Goethe sono un formidabile spunto di riflessione sul rapporto sempre mobile tra poesia e musica. «Il miglior criterio per un buon testo è una buona musica», dice il compositore Hugo Wolf. Come avrebbe risposto Goethe, che rimproverava a Schubert di aver trasformato «in una tragedia una canzone da lavandaia»? Si riferiva a Gretchen am Spinnrade (Margherita all'arcolaio); un capolavoro, che però secondo l'autore tradiva le intenzioni poetiche. Meglio non scegliere, e goderseli tutti e due, l'originale e l'altro, così diverso." (da Sandro Cappelletto, Omero non dorme nel palco dell'Opera, "TuttoLibri", "La Stampa", 11/04/'09)

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