lunedì 27 aprile 2009

I nostri occhi sporchi di terra di Dario Buzzolan


"Nel giugno del 1945 un torturatore fascista viene ammazzato nel cimitero di Lanzo. Da quell'uccisione prende le mosse un racconto che, con qualche sfondamento a ritroso (la guerra d'Etiopia, la Spagna del 1936), si snoda attraverso alcuni degli eventi più significativi della storia dell'Italia repubblicana fino ad arrivare agli Anni Novanta e al fragoroso debutto della Seconda Repubblica nel segno dell'
egemonia berlusconiana e dello straripante successo delle tesi revisioniste sulla Resistenza. Nel romanzo di Dario Buzzolan I nostri occhi sporchi di terra, in uscita per Baldini Castoldi Dalai, il rapporto con la storia è esplicito, dichiarato, rigoroso. In casi come questo c'è il rischio che i personaggi siano solo esangui fantasmi usati come puro pretesto narrativo. E' stato così per i troppi romanzi che hanno cavalcato in questi anni l'ondata revisionista, troppi e tutti noiosi, ripetitivi, con un unico schema in cui i buoni diventano cattivi e viceversa. Qui non c'è niente di simile. I personaggi sono veri e Buzzolan li accompagna tutti, con uno sguardo partecipe, solidale, senza lasciarne cadere nessuno, i «buoni» come i «cattivi», ognuno con le sue ragioni, i suoi dolori, i suoi rimpianti. Il protagonista - l'uccisore del fascista - è un giovane partigiano di Giustizia e Libertà; dopo la guerra riprende gli studi, insegna all'Università con successo, fino al 1968 quando la rivolta degli studenti impietosamente gli mostra
l'insulsa realtà del suo ruolo accademico, spingendolo alle dimissioni. Sopravvive aprendo un'enoteca, vendendo vino e liquori ma inseguendo il sogno di un libro definitivo in cui raccogliere la sua visione del mondo. Ha una figlia che lo contesta, un'amante che divide con il suo peggior nemico; trascina la sua esistenza nel disincanto, in una sorta di mestizia esistenziale che serpeggia in tutti quelli come lui che hanno bruciato la propria giovinezza in un esaltante appuntamento con la Storia. A sottrarlo all'anonimato di una vita spesa nella solitudine interviene di colpo la valanga revisionista; è il momento in cui vecchi conti possono essere regolati sfruttando la disponibilità dei media a trasformare i partigiani in assassini. E' così anche per lui, grazie a una clamorosa intervista rilasciata dal vendicatore del fascista ucciso «dopo» il 25 aprile. Fango, vendette, bugie: l'onda lunga degli Anni 50 dell'egemonia democristiana e del processo alla Resistenza lo trova questa volta vecchio, fragile, indifeso; è il momento in cui ha voglia solo di sparire, dimenticare, finirla. Ed è quello che farà, lasciandosi alle spalle un paese in cui non si riconosce più. E' una storia amara, raccontata benissimo, che ruota intorno a un «giallo» ben costruito, affollata di dialoghi che con la loro efficacia ci restituiscono i rovelli interiori, le inquietudini, la complessità dei personaggi che la animano. Ne viene fuori un romanzo che aspettavamo da anni. Dopo Fenoglio, sui «venti mesi» partigiani c'era poco da dire. Nessuno avrebbe potuto più dello scrittore piemontese cogliere con tanta profondità quell'incontro con la morte che è l'essenza letteraria della Resistenza. Quello che mancava era un romanzo che ci restituisse il «dopo», e non quello immediatamente successivo ma quello legato all'oggi, quando la memoria partigiana si è come ripiegata nell'amarezza della sconfitta e della delusione. E' stato così per il cinema dei giovani registi che - dopo un film definitivo come La notte di San Lorenzo - hanno lavorato sulla memoria di chi si credeva vincitore e si scopriva drammaticamente vinto, dandoci film come Il caso Martello (Guido Chiesa, 1989) o I nostri anni (Daniele Gaglianone, 2000). E ora è così anche per la letteratura, grazie al romanzo di Dario Buzzolan. In una cronologia fitta di andirivieni tra allora e oggi, la memoria dei protagonisti incrocia la storia, ma soprattutto viene scandita dalle diverse stagioni della loro avventura esistenziale; ed è una memoria che ci restituisce oggi le differenze delle scelte di allora. Da un lato quella dei fascisti, pietrificata nella sete di vendetta e di rivincita; dall'altro quella dei partigiani, inquieta, come sospesa a una domanda che aleggia in tutto il romanzo: valeva la pena bruciare la propria giovinezza? Se i venti mesi raccontati da Fenoglio ruotano intorno alla morte, i lunghi anni attraversati da I nostri occhi sporchi di terra ci restituiscono tutta l'enorme difficoltà del mestiere di vivere per chi quel mestiere aveva imparato combattendo contro i fascisti e i nazisti e sognando un'Italia migliore." (da Giovanni De Luna, Al partigiano resta solo la via dell'esilio, "TuttoLibri", "La Stampa", 25/04/'09)

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