lunedì 6 aprile 2009

Tutti i racconti di Anita Desai


"Anita Desai è come ce la si aspetta: il viso dolce, affabile di indiana, dal tenue color caffelatte, però, — non per niente la mamma era una pallida te­desca di Berlino — le mani morbide, la voce giovane, da ragazza, nonostante sia ampiamente nonna, il sari naturalmente e le ciabatte infradito ai piedi malgrado questa fresca primavera parigina. Soprat­tutto, però, è quieta, sorridente e sapien­te come lasciavano immaginare i suoi ro­manzi (Un percorso a zigzag, il più recen­te; Notte e nebbia a Bombay, il più famo­so) e i suoi racconti, pubblicati in questi giorni da Einaudi in un volume che ne raccoglie una ventina, Tutti i racconti. Forse la maggiore scrittrice indiana vi­vente, che divide l’anno tra New Delhi, dove sono rimasti due dei suoi quattro figli, e gli Stati Uniti, dove si sono trasfe­riti gli altri due — di cui una a sua volta scrittrice — e dove ha insegnato per die­ci anni scrittura creativa al Massachuset­ts Institute of Technology («Sì — sorride quasi ancora incredula — i fisici, i chimi­ci, i matematici, i biologi, gli astronomi del Mit sentivano il bisogno di un po’ di materie umanistiche»), è a Parigi per una lezione alla Sorbona e, perfettamen­te in linea con l’immagine che se ne ave­va, è scesa in un piccolo, modesto «due stelle» a un passo dall’Università. Nonostante la doppia vita che condu­ce da ben quindici anni, a parte poche eccezioni, le sue storie sono sempre am­bientate in India: parlano di case e di fa­miglie, di oggetti e di ricordi, di usi anti­chi, di tradizioni ancora vive e di quelle avviate a morire che, morendo, a volte la­sciano gli uomini smarriti e insicuri. «Non per questo — dice pensierosa — voglio a tutti i costi conservare il passa­to, non rimpiango ciò che è finito né cre­do a perdute stagioni dell’oro. Il tempo non si può fermare, è un mulino che ma­cina, le tradizioni antiche devono pian piano svanire e gli uomini non possono che adattarsi continuamente a quelle nuove. In questo senso, forse, trova ra­gione d’essere la mia scrittura: può aiuta­re il lettore a non dimenticare il passato, a comprenderlo anche, per meglio com­prendere il presente. E in India, così tan­to del passato è ancora presente! Ma scri­vo dell’India anche per un motivo molto più banale: perché lì capisco tutto, tutto mi è chiaro, non devo sempre chiedere come mi succede in America». Nei sobborghi di New York dove tra­scorre molti mesi dell’anno, continua, in­fatti, a sentirsi straniera. Per come vive, per come pensa, per come mangia, per come, a volte, si veste (con il sari appun­to, di tanto in tanto) e, naturalmente, per il colore della pelle. Ma il motivo ve­ro è forse diverso e più profondo: «Pro­babilmente sta nel fatto — spiega Anita — che l’America ha poche tradizioni e quelle poche sono così 'brevi' rispetto al­le nostre». Per la ragione opposta si tro­va tanto bene in Messico, dove da tempo affitta una casa in mezzo alle montagne per scrivere in pace: come l’India è, infat­ti, un paese di antichissima storia tutto­ra presente e visibile. «C’è da dire però — aggiunge — che lì mi sento meno estranea anche perché di solito mi pren­dono per messicana». Per un verso o per l’altro i libri e i rac­conti di Anita Desai hanno tutti una for­te impronta autobiografica: personaggi, luoghi, situazioni sono in gran parte trat­ti dalla sua realtà. E anche quei rari testi ambientati piuttosto in America riporta­no quasi sempre vicende di immigrazio­ne e di spaesamento che s’indovinano fa­cilmente viste o vissute in prima perso­na. Del resto, lo rivendica con passione: «La scrittura deve narrare prima di tutto la verità, solo la verità, deve raccontare il mondo come è. L’invenzione, la fantasia hanno ovviamente il loro ruolo, ma per me possono essere soltanto marginali».
In questo modo la scrittrice ha narra­to, romanzo dopo romanzo, la sua vita, la sua storia e quella della sua famiglia, i parenti, gli amici, i luoghi, le case e i pae­saggi, le innumerevoli partenze e gli al­trettanti ritorni. Come i personaggi di molti suoi libri Anita Desai ha uno sguar­do doppio, nel senso che è in grado di guardare due continenti con occhi di chi ci vive e di chi invece li osserva dall’ester­no. Giudica l’India e giudica l’America, entrambe tuttavia con l’indulgenza e la saggezza che le sono proprie. «Il vero problema dell’India — spiega — è il numero sterminato dei suoi abi­tanti per cui ogni cambiamento, ogni progresso, anche sostanziale, riguarda sempre soltanto una sparutissima mino­ranza. C’è troppo poca acqua e troppo poco cibo per tutti quanti. La ricca bor­ghesia di Delhi e di Mumbai, la nuova classe di professionisti intraprendenti che fanno innalzare il Pil delle metropo­li? Cosa vuole che contino nell’immensi­tà di un paese povero e arretrato dove si combattono guerre con il pretesto della religione, della razza e dell’appartenen­za a un clan o a una classe sociale, che in realtà sono soltanto guerre di chi non ha niente contro chi ha un poco più di nien­te? ».
Ciò non toglie che la scrittrice conti­nui a confidare in un cambiamento di cui avverte alcuni segnali: il tradizionale fatalismo e la rassegnazione degli india­ni, per esempio, non sono, secondo lei, più quelli di un tempo e un po’ alla volta lasciano posto ad atteggiamenti diversi, più determinati e volitivi. E la natalità co­mincia, sia pure lentamente, a decresce­re perché le famiglie, anche le più pove­re, non più necessariamente impiegate nel lavoro dei campi, si rendono conto che otto, dieci figli non costituiscono una ricchezza bensì un peso. E stanno cambiando le donne, anche in India. «È il lavoro femminile il lievito del cambiamento» afferma Anita pur non di­menticando che spesso rende la vita del­le donne ancora più faticosa: «Per un ver­so mette loro in mano dei soldi, il che le rende automaticamente più autonome, anche in famiglia; per l’altro, fa compren­dere loro che, per ottenere posti miglio­ri, hanno bisogno di istruzione. È questa la grande sfida che l’India deve affronta­re e, se c’è richiesta, se c’è pressione, il governo prima o poi dovrà fare qualcosa per migliorare lo standard dell’istruzio­ne femminile, tuttora assai modesto». Personalmente, Desai è stata un’apri­pista visto che già cinquant’anni fa lei e le sue sorelle non solo sono state inco­raggiate a studiare ma anche a lavorare. Merito della mamma berlinese? «No — sorride —, merito del papà il cui chiodo fisso era che le femmine dovessero esse­re indipendenti. Nostra madre, a dire la verità, era la più tradizionalista tra i due, voleva che pensassimo a famiglia e figli. Io e le mie sorelle abbiamo accontentato entrambi i genitori».
Sulle difficoltà dell’America, sulla cri­si economica che vi infuria, sulle miglia­ia di disoccupati ridotti in miseria, sui tanti che hanno perso la casa non spen­de, per contro, molte parole: «Avevano così tanto prima — sussurra con un filo di voce, quasi si vergognasse del suo scarso spirito di solidarietà — e per il momento non hanno un’idea di cosa vo­glia dire essere davvero poveri, senza nulla da mangiare, cioè. In India, invece, tutto questo lo si conosce anche troppo bene».
Due mondi contrapposti, dunque, Oriente contro Occidente? «Non direi. Piuttosto l’Oriente che guarda all’Occi­dente nel tentativo di imitarne lo svilup­po, risultato delle sue caratteristiche for­ti come l’intraprendenza, la speranza, l’ambizione. E, dall’altra parte, l’Occiden­te che si volge indietro all’Oriente veden­do, non senza rimpianto, quel che lungo i secoli ha perduto: la spiritualità, la resi­stenza alle spietatezze della vita, la custo­dia delle tradizioni. Due culture diverse, certo, però ricordiamoci che le culture non sono un marchio di fabbrica con il quale si nasce bensì il risultato delle con­dizioni nelle quali ci si trova a vivere»." (da Isabella Bossi Fedrigotti, Anita Desai. Il femminismo con il sari. Le donne salveranno l’India, "Corriere della Sera", 06/04/'09)

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