martedì 14 aprile 2009

Rita Levi Montalcini: "Ho vissuto un secolo senza padroni"


"Visto di persona, il volto notissimo di Rita Levi-Montalcini colpisce per il colore verde ac­qua degli occhi — «La vista è calata, ma uso uno speciale visore che ingrandisce le parole di libri e giornali e mi consente di leggere da sola» —, e per la bellezza dei gioielli. «Li ho disegnati io. Questo bracciale l’ho fatto per mia sorella Paola. Questo in­vece è l’anello di fidanzamento di mia madre. La fe­dina me l’hanno regalata a Uppsala: è il simbolo del mio matrimonio con la scienza. La prima volta che andai in America, mi chiesero chi fosse mio marito. Non erano abituati a una donna che conducesse la sua vita di studiosa da sola. 'I’m my own husband', sono il marito di me stessa, risposi. Non capirono. Pensarono non sapessi l’inglese».
Professoressa Levi-Montalcini, tra dieci giorni, il 22 aprile, il paese intero si stringerà a lei per il suo compleanno. Com’è la vita a cento anni? «Ottima. Anche l’udito è calato. Ma il cervello per fortuna funziona». È vero che mangia e dorme pochissimo? «Sì. Mangio una sola volta al giorno, dormo due o tre ore per notte».
Legge? «Sì. I quotidiani: Repubblica e Corriere della Se­ra. E pubblicazioni scientifiche. Ma non la notte. La notte penso alle ricerche e agli esperimenti per il giorno dopo. Il mattino vado all’Ebri: European Brain Research Institute. C’è un gruppo di giovani ricercatrici molto affiatato, che lavorano in laborato­rio. Il pomeriggio mi sposto alla Fondazione che porta il mio nome. La coordina Giuseppina Tripodi, al mio fianco da molti anni, consigliere delegato del­la Fondazione che ha come scopo il sostegno al­l’istruzione, a tutti i livelli, delle donne africane».
Le piacciono i giovani d’oggi? «Questa è una domanda generica. Ci sono giova­ni eccellenti, ma sono una minoranza. Ce ne sono molti che non sono diversi da quelli del passato. Purtroppo, sono riapparsi i fascisti». Ho letto che ai fascisti lei non porta rancore. È così? «Non è così! Rancore ne ho per quello che hanno fatto: lo sterminio degli ebrei, la Germania distrut­ta, l’Italia a pezzi. Non ho rancori personali, quelli no. Senza le leggi razziali, quando lo Stato stabilì che la mia famiglia e io appartenevamo a una razza inferiore, non sarei stata costretta a lavorare chiusa nella mia camera da letto, dove avevo allestito un piccolo laboratorio, sia a Torino che ad Asti. Ricer­che che nel 1986 mi hanno portato a Stoccolma». Quali sono stati i libri della sua vita? «Kafka. Calvino. E Primo Levi. Se questo è un uo­mo me lo regalò sua sorella. L’editore Einaudi l’ave­va rifiutato, su indicazione di Natalia Ginzburg, e l’aveva pubblicato Antonicelli con la sua piccola ca­sa editrice. Fu una folgorazione. Con Primo diven­tammo molto amici. Ho sofferto per la sua tragica fine; anche se credo che non sia andata come è stato raccontato». Cioè crede che Primo Levi non si sia suicidato? «Una persona della sua altezza morale non deci­de di buttarsi giù dalle scale: non era nello stile di Primo Levi. Sono convinta sia andata diversamente: penso che abbia perso l’equilibrio». Lei è stata allieva del padre di Natalia Ginz­burg, Giuseppe Levi, il protagonista di Lessico fa­migliare. «Una persona di valore. Non una mente origina­le, ma un bravo maestro. Eravamo in tre, Dulbecco, Luria e io: tutti suoi allievi, tutti arrivati a Stoccol­ma. Ricordo quando Giuseppe Levi venne a Firenze, nella pensione dov’eravamo nascosti, e non sapeva che nome dire. Per non sbagliare, chiese solo: dov’è la Rita?». Eravate fuggiti da Torino? «Dopo l’8 settembre lasciammo Torino per rag­giungere il Sud, ma scendemmo di soppiatto a Fi­renze perché sul treno avevo notato un ufficiale fa­scista. Arrivammo alla pensione dando un falso no­me, il primo che mi era venuto in mente: Lupani. I proprietari avevano intuito qualcosa, ma tacquero».
Lei ha conosciuto bene altri due grandi del No­vecento: Bobbio e Montanelli.
«Con Bobbio eravamo amici di famiglia: suo pa­dre e suo fratello Antonio erano chirurghi. Vecchie frequentazioni torinesi. Siamo rimasti amici per tut­ta la vita. Con Montanelli eravamo coetanei: nati lo stesso giorno mese e anno, il 22 aprile 1909. A lun­go ho fatto fatica a stimarlo: era un uomo di destra. Poi l’ho conosciuto di persona. E l’ho stimato». Lei nel biennio del governo Prodi è stata molto lodata e molto criticata per la sua scelta di soste­nere sempre il governo. «Stimo molto Prodi, e anche la Finocchiaro. Non ho mai mancato una votazione perché il mio voto era decisivo; ora che è ininfluente non serve la mia presenza. Ma non ho mai inteso la mia funzione di senatore a vita come una funzione di parte. Sento di rappresentare l’intero mio Paese, tutti gli italiani». Ci sono donne e uomini di destra che stima? «Innanzitutto, Gianni Letta. L’ho visto di recente: uomo di valore, al servizio dello Stato italiano. Cono­sco da tempo la Moratti, una persona seria. Ora ho incontrato anche Alemanno e con mia sorpresa l’ho trovato simpatico, mi piace quando parla. Mi pare stia facendo bene il sindaco di Roma». Lei ha incontrato anche la Gelmini. Che impres­sione le ha fatto? «Buona. Una persona gentile, con cui è facile co­municare. Abbiamo instaurato un eccellente rappor­to. La stimo anche per le cose che ha fatto: il ripristi­no del voto di condotta è giusto. Pur essendo così giovane e pur non avendo conoscenze scientifiche, visto che è avvocato, sta svolgendo il suo lavoro con coerenza». È vero che l’ha emozionata più la notizia della nomina a senatore a vita di quella del Nobel? «Sono state due emozioni diverse. Da Stoccolma chiamarono mentre stavo leggendo un giallo di Aga­tha Christie, Dieci piccoli indiani. Mentre ricordo a memoria la telefonata dal Quirinale: 'Sono Ciampi. La nomino senatore a vita per la sua attività scientifi­ca e sociale, e la abbraccio'. La mia ammirazione e gratitudine per Ciampi è stata ed è enorme. Anche per Napolitano, che incontro spesso, ho viva simpa­tia e ammirazione». Non le sono mancati un marito e i figli?
«Ero ancora adolescente quando decisi che non mi sarei sposata. Dissi a me stessa che non avrei mai obbedito a un uomo come mia madre obbediva a mio padre. Eravamo una famiglia vittoriana. Mam­ma dipendeva dalle decisioni che venivano da mio padre. Era questo il motivo per il quale gli serbavo rancore. L’ho stimato solo dopo la sua morte preco­ce». Com’è il suo rapporto con Israele? Teme per il futuro?
«Sono molto amica del presidente, Shimon Pe­res. Spero che l’apertura di Obama all’Iran dia buoni risultati. Se si dovessero usare armi distruttive non scomparirebbe solo Israele. Per questo la sua distru­zione non è accettabile, non è concepibile, e non la penso possibile». Ricorda l’altra grande crisi, quella del 1929? «Certo. Ero ragazza, e rammento un’epoca dura, difficile. Oggi ritrovo un’atmosfera analoga, ma an­che con motivi di speranza. Ricorderò sempre il pri­mo viaggio in America: in particolare mi aveva colpi­to il fatto che i neri, quando salivo sull’autobus, era­no tenuti ad alzarsi per cedermi il posto in quanto bianca, e io non riuscivo a comprenderne la ragio­ne. Oggi però un nero è presidente degli Stati Uniti. E può rappresentare per l’America un nuovo Roose­velt». Vivremo davvero molto più a lungo? «No. Non c’è posto. Se tutti vivessimo sino a cen­to o più anni, non lasceremmo il giusto spazio ai nuovi nati». Lei è stata la prima donna ammessa all’Ac­cademia Pontificia. Che ricordo ha di Wojtyla? «Meraviglioso. Una personalità carismatica, spesso incompresa dai laici. Non tutti capirono che era uomo illumina­to, progressista. Certo più di Roncalli, che pri­ma di diventare Papa in­tratteneva rapporti ami­chevoli con Mussolini». E Ratzinger? «Ho avuto modo di incontrarlo varie volte: è per­sona estremamente colta, con una forte preparazio­ne filosofica. Come Pontefice, non posso e non deb­bo giudicarlo». Non ha paura della morte?
«Non me ne importa. È solo il corpo che muore. Credo che qualcosa di noi sopravviva».
L’anima? «No. Il messaggio. Le azioni, i pensieri è quanto rimane di ognuno di noi. Io credo di lasciare buone azioni, buoni pensieri. Per questo, anche se alla mia età può succedere in ogni momento, non ho paura di morire»." (da Aldo Cazzullo, Ho vissuto un secolo senza padroni, "Corriere della Sera", 12/04/'09)

Nessun commento: