Biblioteca civica "MINO MILANI" bibliogarlasco@yahoo.it tel. 0382/801009 "Le paradis, à n'en pas douter, n'est qu'une immense bibliothèque" (Gaston Bachelard) SELEZIONE DI ARTICOLI SULL'UNIVERSO-LIBRO
martedì 14 aprile 2009
Rita Levi Montalcini: "Ho vissuto un secolo senza padroni"
"Visto di persona, il volto notissimo di Rita Levi-Montalcini colpisce per il colore verde acqua degli occhi — «La vista è calata, ma uso uno speciale visore che ingrandisce le parole di libri e giornali e mi consente di leggere da sola» —, e per la bellezza dei gioielli. «Li ho disegnati io. Questo bracciale l’ho fatto per mia sorella Paola. Questo invece è l’anello di fidanzamento di mia madre. La fedina me l’hanno regalata a Uppsala: è il simbolo del mio matrimonio con la scienza. La prima volta che andai in America, mi chiesero chi fosse mio marito. Non erano abituati a una donna che conducesse la sua vita di studiosa da sola. 'I’m my own husband', sono il marito di me stessa, risposi. Non capirono. Pensarono non sapessi l’inglese».
Professoressa Levi-Montalcini, tra dieci giorni, il 22 aprile, il paese intero si stringerà a lei per il suo compleanno. Com’è la vita a cento anni? «Ottima. Anche l’udito è calato. Ma il cervello per fortuna funziona». È vero che mangia e dorme pochissimo? «Sì. Mangio una sola volta al giorno, dormo due o tre ore per notte».
Legge? «Sì. I quotidiani: Repubblica e Corriere della Sera. E pubblicazioni scientifiche. Ma non la notte. La notte penso alle ricerche e agli esperimenti per il giorno dopo. Il mattino vado all’Ebri: European Brain Research Institute. C’è un gruppo di giovani ricercatrici molto affiatato, che lavorano in laboratorio. Il pomeriggio mi sposto alla Fondazione che porta il mio nome. La coordina Giuseppina Tripodi, al mio fianco da molti anni, consigliere delegato della Fondazione che ha come scopo il sostegno all’istruzione, a tutti i livelli, delle donne africane».
Le piacciono i giovani d’oggi? «Questa è una domanda generica. Ci sono giovani eccellenti, ma sono una minoranza. Ce ne sono molti che non sono diversi da quelli del passato. Purtroppo, sono riapparsi i fascisti». Ho letto che ai fascisti lei non porta rancore. È così? «Non è così! Rancore ne ho per quello che hanno fatto: lo sterminio degli ebrei, la Germania distrutta, l’Italia a pezzi. Non ho rancori personali, quelli no. Senza le leggi razziali, quando lo Stato stabilì che la mia famiglia e io appartenevamo a una razza inferiore, non sarei stata costretta a lavorare chiusa nella mia camera da letto, dove avevo allestito un piccolo laboratorio, sia a Torino che ad Asti. Ricerche che nel 1986 mi hanno portato a Stoccolma». Quali sono stati i libri della sua vita? «Kafka. Calvino. E Primo Levi. Se questo è un uomo me lo regalò sua sorella. L’editore Einaudi l’aveva rifiutato, su indicazione di Natalia Ginzburg, e l’aveva pubblicato Antonicelli con la sua piccola casa editrice. Fu una folgorazione. Con Primo diventammo molto amici. Ho sofferto per la sua tragica fine; anche se credo che non sia andata come è stato raccontato». Cioè crede che Primo Levi non si sia suicidato? «Una persona della sua altezza morale non decide di buttarsi giù dalle scale: non era nello stile di Primo Levi. Sono convinta sia andata diversamente: penso che abbia perso l’equilibrio». Lei è stata allieva del padre di Natalia Ginzburg, Giuseppe Levi, il protagonista di Lessico famigliare. «Una persona di valore. Non una mente originale, ma un bravo maestro. Eravamo in tre, Dulbecco, Luria e io: tutti suoi allievi, tutti arrivati a Stoccolma. Ricordo quando Giuseppe Levi venne a Firenze, nella pensione dov’eravamo nascosti, e non sapeva che nome dire. Per non sbagliare, chiese solo: dov’è la Rita?». Eravate fuggiti da Torino? «Dopo l’8 settembre lasciammo Torino per raggiungere il Sud, ma scendemmo di soppiatto a Firenze perché sul treno avevo notato un ufficiale fascista. Arrivammo alla pensione dando un falso nome, il primo che mi era venuto in mente: Lupani. I proprietari avevano intuito qualcosa, ma tacquero».
Lei ha conosciuto bene altri due grandi del Novecento: Bobbio e Montanelli.
«Con Bobbio eravamo amici di famiglia: suo padre e suo fratello Antonio erano chirurghi. Vecchie frequentazioni torinesi. Siamo rimasti amici per tutta la vita. Con Montanelli eravamo coetanei: nati lo stesso giorno mese e anno, il 22 aprile 1909. A lungo ho fatto fatica a stimarlo: era un uomo di destra. Poi l’ho conosciuto di persona. E l’ho stimato». Lei nel biennio del governo Prodi è stata molto lodata e molto criticata per la sua scelta di sostenere sempre il governo. «Stimo molto Prodi, e anche la Finocchiaro. Non ho mai mancato una votazione perché il mio voto era decisivo; ora che è ininfluente non serve la mia presenza. Ma non ho mai inteso la mia funzione di senatore a vita come una funzione di parte. Sento di rappresentare l’intero mio Paese, tutti gli italiani». Ci sono donne e uomini di destra che stima? «Innanzitutto, Gianni Letta. L’ho visto di recente: uomo di valore, al servizio dello Stato italiano. Conosco da tempo la Moratti, una persona seria. Ora ho incontrato anche Alemanno e con mia sorpresa l’ho trovato simpatico, mi piace quando parla. Mi pare stia facendo bene il sindaco di Roma». Lei ha incontrato anche la Gelmini. Che impressione le ha fatto? «Buona. Una persona gentile, con cui è facile comunicare. Abbiamo instaurato un eccellente rapporto. La stimo anche per le cose che ha fatto: il ripristino del voto di condotta è giusto. Pur essendo così giovane e pur non avendo conoscenze scientifiche, visto che è avvocato, sta svolgendo il suo lavoro con coerenza». È vero che l’ha emozionata più la notizia della nomina a senatore a vita di quella del Nobel? «Sono state due emozioni diverse. Da Stoccolma chiamarono mentre stavo leggendo un giallo di Agatha Christie, Dieci piccoli indiani. Mentre ricordo a memoria la telefonata dal Quirinale: 'Sono Ciampi. La nomino senatore a vita per la sua attività scientifica e sociale, e la abbraccio'. La mia ammirazione e gratitudine per Ciampi è stata ed è enorme. Anche per Napolitano, che incontro spesso, ho viva simpatia e ammirazione». Non le sono mancati un marito e i figli?
«Ero ancora adolescente quando decisi che non mi sarei sposata. Dissi a me stessa che non avrei mai obbedito a un uomo come mia madre obbediva a mio padre. Eravamo una famiglia vittoriana. Mamma dipendeva dalle decisioni che venivano da mio padre. Era questo il motivo per il quale gli serbavo rancore. L’ho stimato solo dopo la sua morte precoce». Com’è il suo rapporto con Israele? Teme per il futuro?
«Sono molto amica del presidente, Shimon Peres. Spero che l’apertura di Obama all’Iran dia buoni risultati. Se si dovessero usare armi distruttive non scomparirebbe solo Israele. Per questo la sua distruzione non è accettabile, non è concepibile, e non la penso possibile». Ricorda l’altra grande crisi, quella del 1929? «Certo. Ero ragazza, e rammento un’epoca dura, difficile. Oggi ritrovo un’atmosfera analoga, ma anche con motivi di speranza. Ricorderò sempre il primo viaggio in America: in particolare mi aveva colpito il fatto che i neri, quando salivo sull’autobus, erano tenuti ad alzarsi per cedermi il posto in quanto bianca, e io non riuscivo a comprenderne la ragione. Oggi però un nero è presidente degli Stati Uniti. E può rappresentare per l’America un nuovo Roosevelt». Vivremo davvero molto più a lungo? «No. Non c’è posto. Se tutti vivessimo sino a cento o più anni, non lasceremmo il giusto spazio ai nuovi nati». Lei è stata la prima donna ammessa all’Accademia Pontificia. Che ricordo ha di Wojtyla? «Meraviglioso. Una personalità carismatica, spesso incompresa dai laici. Non tutti capirono che era uomo illuminato, progressista. Certo più di Roncalli, che prima di diventare Papa intratteneva rapporti amichevoli con Mussolini». E Ratzinger? «Ho avuto modo di incontrarlo varie volte: è persona estremamente colta, con una forte preparazione filosofica. Come Pontefice, non posso e non debbo giudicarlo». Non ha paura della morte?
«Non me ne importa. È solo il corpo che muore. Credo che qualcosa di noi sopravviva».
L’anima? «No. Il messaggio. Le azioni, i pensieri è quanto rimane di ognuno di noi. Io credo di lasciare buone azioni, buoni pensieri. Per questo, anche se alla mia età può succedere in ogni momento, non ho paura di morire»." (da Aldo Cazzullo, Ho vissuto un secolo senza padroni, "Corriere della Sera", 12/04/'09)
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