lunedì 9 agosto 2010

Il mio amico Cesare Pavese


"Era una sera di primavera del 1949. Da poco nominato direttore didattico a Santo Stefano Belbo, Nicola Enrichens entrò all'Albergo della Posta, sulla piazza grande del paese delle Langhe, e vide un ragazzino che stava buttando nella stufa alcune pagine di un libro. Ne prese una e si accorse che apparteneva a Paesi tuoi, il primo romanzo pubblicato da Cesare Pavese. Lo guardò. Poi gli disse: «Lo sai che quel libro lo ha scritto un tuo compaesano?». Aveva da poco letto Prima che il gallo canti, ammirava Pavese e sapeva che era nato proprio lì, dove però veniva di rado. Quanto era accaduto alla Posta lo indusse allora a cercare sue notizie presso i parenti e gli amici come Pinolo Scaglione, e soprattutto a riconciliare lo scrittore con la sua terra. Invitato attraverso la cugina Federica, a giugno Pavese ritornò a Santo Stefano. Al maestro regalò una copia di Prima che il gallo canti, con questa dedica: «A Nicola Enrichens con l'augurio che trovi nella mia terra qualcosa». Cominciò così l'amicizia, arricchita da un notevole scambio epistolare.
A sessant'anni dal suicidio di Pavese, Francesco e Vincenzo Enrichens, i figli, e la vedova Paola Rubba, hanno deciso di rendere pubbliche quelle carte (sei lettere inedite, cartoline e altri scritti brevi), insieme a una lunga testimonianza (che pubblichiamo senza interventi editoriali in queste pagine) del maestro sullo scrittore piemontesee sul rapporto che intrattenne con lui. Il testo e la corrispondenza fra i due verranno presto raccolti in un volume curato da Mariarosa Masoero, che dirige il Centro studi "Gozzano-Pavese" dell'Università di Torino, in collaborazione con la famiglia Enrichens e con Paolo Borgna. Originario di Contursi Terme, in provincia di Salerno, Nicola Enrichens arrivò in Piemonte da militare. Dopo l'8 settembre '43 si unì alle bande partigiane e, al termine della guerra, si sposò e vinse il concorso per le scuole di Santo Stefano. Ricorda Franco Vaccaneo, presidente del comitato scientifico della Fondazione Pavese: «L'ex direttore didattico, un uomo che aveva dedicato la sua vita all'educazione e a un'idea di progresso sociale, mi parlava privatamente delle lettere di Pavese che conservava. Soltanto due, d'altronde, furono pubblicate nell'epistolario Einaudi». Era stato Italo Calvino, in una lettera del 16 giugno 1965, a dire allo stesso Enrichens che «le lettere a Lei sono molto importanti, perché con Lei Pavese s'era messo a discutere delle cose che gli stavano più a cuore, fatto che non gli succedeva quasi con nessuno». Il ritorno a Santo Stefano, del resto, culminò nella stesura di La luna e i falò, l'ultimo suo libro. Iniziarono a scriversi nel giugno del '49. Ancora il 6 luglio del 1950, poco prima di uccidersi, Pavese gli inviò un biglietto in cui ironizzava sulla sua vittoria al Premio Strega: «Caro Enrichens, la ringrazio del suo telegramma. Troppa degnazione per una faccenda pettegola e mondana come lo Strega. Come ho già scritto agli amici di S. Stefano, verrò presto a trovarvi, entro il mese». Furono principalmente la letteratura e i problemi della cultura di quegli anni, tra tradizione e arte moderna, provincialismo italiano e apertura al mondo, ermetismo e realismo, gli argomenti trattati dai due. Come quando, il 6 ottobre del '49, Pavese affermò che «soltanto attraverso la responsabilità, l'impegno rischioso, l'azione insomma, ci si fa un punto di vista. Per esempio, non si risolve il dubbio sull'arte - razionale o irrazionale, ottocentesca o novecentesca ecc. - se non ci si impegna a farne, cercando di essere sinceri. A poco a poco si scopre se stessi, e il punto di congiunzione col proprio tempo. Quanto a Longanesi è un buffone, e un letterato - lo lasci ai suoi trasformismi».
Non parlavano soltanto di letteratura. Lo scrittore affrontava in certi passi il suo legame con il comunismo, così come analizzava il suo sentirsi un comunista. Il 24 novembre del '49 lo aveva definito in questa maniera: «... io stesso lo sono molto sui generis». Il 15 gennaio del 1950 scriveva a Enrichens: «Il polso della vita batte ora non più in una corte o in una piccola classe ma nei grandi organismi collettivi (le fabbriche, i campi sportivi, gli organismi democratici ecc. - fra parentesi, anche per questo sono comunista) e si tratta di trovare il linguaggio tendenzialmente acconcio a toccare questi molti lettori - questo tipico lettore "uomo e basta"». Ma «ciò dev'essere fatto senza rinunziare a nessuno dei valori acquisiti in passato, senza abbassarsi al popolo: ma sollevando il popolo». Pavese aveva già dentro, nella tarda primavera del 1950, il «vizio assurdo» che lo avrebbe portato a togliersi la vita. Il Pavese che Nicola Enrichens ritrasse nel suo testo mai pubblicato, datando quella passeggiata sulla collina di Santa Libera agli inizi del giugno '50, era tuttavia un uomo che, pur in quei «giorni terribili del suo burrascoso amore con Costance Dowling», sapeva incantarsi davanti a un albero: «Si fermò davanti a un pesco fiorito ad ammirarlo: vidi, dietro i vetri tersi delle sue lenti, i suoi occhi brillare, come incantati per un miracolo». Il 27 agosto si sarebbe ucciso." (da Massimo Novelli, Il mio amico Cesare Pavese, "La Repubblica", 08/08/'10)

1 commento:

Anonimo ha detto...

imparato molto