sabato 13 dicembre 2008

Oltre la belleza di Federico Vercellone


"'L'impulso dell'arte moderna consisteva in questo desiderio di distruggere il bello' (1948). La frase di Barnett Newman, un astrattista americano che si opponeva all'action painting di Pollock, apre un saggio di Federico Vercellone, Oltre la bellezza (il Mulino), il cui assunto è: la bellezza nel Novecento non c'è più o, se c'è, è un fantasma che aleggia senza mai prendere definitivamente corpo. La scomparsa della bellezza è anche il tema di un altro libro: La bellezza difficile (Le Lettere), opera di un critico e storico dell'arte, Stefano Chiodi, il quale pone come propria frase guida un motto di Ezra Pound tratto dai Pisan Cantos, risposta data da Aubery Beardsley al poeta Yeats: 'Beauty is difficult'. La bellezza è difficile da fabbricare, da decifrare, soprattutto da intendere. Perché? Perché le opere d'arte moderne e contemporanee sono «brutte»? No, risponde Vercellone, il problema riguarda piuttosto lo statuto della bellezza che a partire dal mondo greco ha assunto un preciso significato morale. A partire da Platone arte e bellezza appaiono contrapposte, fino a quando, nel Novecento, il legame tra i due si recide. Nel XX secolo l'arte appare consapevole di tutta la sua insufficienza a dar voce alla bellezza, quella classica: l'idea perenne del Bello. In quel secolo l'arte stessa si oppone alla filosofia e alla sua ricerca della verità: ogni opera d'arte incarna la verità. E con questo, conclude Vercellone, l'idea di bellezza è definitivamente liquidata. Il percorso che da Platone attraverso il medioevo arriva sino a Kant, e da questo ad Adorno e Heidegger, è tratteggiato da Vercellone in modo efficace con lo sguardo rivolto alle teorie estetiche, mentre l'attenzione alle singole opere appare il punto di partenza, maanche d'arrivo, di Chiodi, che dedica parecchie pagine all'arte contemporanea italiana e internazionale, inserendo gli artisti e le loro opere nel dibattito in corso in America e in Europa. Per districarsi in questo labirinto di sentieri che si biforcano, si sovrappongono, e spesso divergono, è utile portare l'attenzione all'artista che sembra interessare entrambi gli autori: Andy Warhol. Il fondatore della Factory appare infatti il punto di svolta, e probabilmente di chiarimento, d'ogni discorso sulla bellezza nell'arte, tema che è diventato di rilevanza politica da quando il ministro dei Beni culturali si è appellato alla bellezza italiana per stabilire un discrimine tra ciò che è arte e ciò che non lo è. Se nelle avanguardie storiche, Dadaismo e Surrealismo, la spinta era ancora quella di creare un ponte tra arte e vita, con le opere di Rauschenberg, loro erede diretto, con i suoi assemblaggi, i combine paiting, la distinzione tra bello e brutto appare superata. Tuttavia è Warhol a compiere il passo in più: le forme della realtà - la bottiglia di Coca-Cola, le scatole Brillo - sono in sé artistiche. L'immagine di Marilyn, moltiplicata in fucsia, giallo, rosso, verde, blu, non raffigura Marilyn, ovvero non rinvia all'attrice, ma è davvero Marilyn: vive una vita autonoma (Vercellone). Warhol è l'artista epico della merce come arte, e dell'arte come merce. Con lui la bellezza scende dal suo piedistallo e cammina tra gli uomini, li accompagna 'passo passo nella vita di tutti i giorni'. Si tratta di una bellezza 'normale'. Le nuove divinità - bottiglie, scatole, oggetti, divi e divine dello schermo, della politica o della mondanità, 'ornano il mondo con il loro iterativo riproporsi'. Chiodi, dal canto suo, ci ricorda la famosa frase pronunciata in un'intervista da Warhol: 'La ragione per cui dipingo in questo modo è che voglio essere una macchina' (1963). Il critico cita Arthur Danto e il suo L'abuso della bellezza (Postmedia) per ricordarci che con Warhol la bellezza non appartiene più né all'essenza né alla definizione dell'arte, e tuttavia Chiodi fa uno scarto in più introducendo la nozione di 'realismo traumatico', nozione che viene da Hal Foster (Il ritorno del reale. L'avanguardia alla fine del Novecento, Postmedia, 2006, pp. 255, e 21), critico americano, secondo cui Warhol manifesta un incontro traumatico con la realtà stessa: le opere dell'artista, le sue ripetizioni ossessive di soggetti e temi, sono comeuna sorta di rivelazione, di lapsus, dell'incontro stesso con la realtà. Si pensi ai quadri che raffigurano la sedia elettrica, oppure incidenti stradali. Queste opere funzionano, dice Hal, come una schermatura del reale: trasformano un evento terribile in qualcosa di rappresentabile figurativamente. E tuttavia attraverso questa raffigurazione ciò che è schermato irrompe di colpo davanti a noi: la morte, la distruzione, l'annichilimento. Warhol non è solo, ci ricorda Chiodi, colui che scopre un'altra bellezza nel quotidiano, ma anche l'artista che ci ricorda la natura traumatica dell'esistenza medesima. Lo fa in modo gradevole e decisamente geniale, proprio per via della sua fondamentale ambiguità. Tutto è arte, tutto è bello, ma dietro alla bellezza stessa si cela il pungiglione della morte. Del resto, ci ricorda Vercellone, non è forse vero che Afrodite, la dea della Bellezza, scaturisce dalle gocce del seme di Urano, evirato da Crono, cadute in mare? La bellezza è difficile proprio per questo suo legame con il trauma, con la morte. Il libro di Chiodi persegue un cammino attraverso l'arte contemporanea - da Cindy Sherman a Maurizio Cattelan passando per autori meno noti, ma altrettanto interessanti (Vedovamazzei, Lorenzo Scotto di Luzio, Francesco Arena, Elisabetta Benassi, ecc.) descrivendo il loro rapporto con il problema del contemporaneo che va oltre il problema della bellezza stessa. Trent'anni fa Pier Paolo Pasolini, in Scritti corsari, con la sua immancabile enfasi estetica, e insieme con l'ansia di verità che lo attanagliava, poneva riguardo al paesaggio italiano devastato dal neocapitalismo edonista e omologante lo stesso problema: Come era bella l'Italia durante il fascismo e anche dopo. Aveva ragione? Sì e no. Aveva ragione, scrive Chiodi, se il suo punto di riferimento restava la tradizione dell'arte italiana da Giotto a Burri, da Piero a De Chirico, ma aveva anche torto se si pensa a come sarebbe apparso di lì a poco ilmedesimo paesaggio nelle fotografie di Luigi Ghirri e Gabriele Basilico: l'Italia postindustriale fatta di capannoni, snodi autostradali, distributori di benzina, casolari abbandonati, cancellate e reti metalliche delle periferie. Il banale irrompeva con il loro Viaggio in Italia (1984) nell'arte italiana per fornire una nuova idea di bellezza, o meglio, per liquidarla definitivamente, poiché non c'è solo Warhol col suo cinismo programmatico ma anche l'incanto degli scatti di Ghirri o l'assolutezza austera delle città di Basilico, dove il 'consueto' e il 'quotidiano' si trasfigurano in una visione differente dello spazio che ci circonda, dove la bellezza non è scomparsa per sempre, ma ha assunto altri nomi e altre fattezze." (da Marco Belpoliti, Tra bello e brutto non c'è più differenza, "La Stampa", 12/12/'08)

1 commento:

rbarazza ha detto...

Negli ultimi decenni si è cercato a tutti i costi di dare dignità al piccolo, al banale, al quotidiano, al meschino, rinunciando a cercare cose più grandi. 'Tra bello e brutto non c'è più differenza' perchè, in una sorta di mal intesa valorizzazione democratica o populista, si pensa sia un insulto definire 'brutto' (quasi fosse un giudizio morale) ciò che è brutto. Anzi si pensa che i giudizi morali non dovrebbero più esistere.
La bellezza ha un sapore di morte se è vuota, se è solo apparenza. E tanta modernità si bea di rappresentare proprio il vuoto.
Roberta Barazza
www.rbarazza.blogspot.com