lunedì 21 marzo 2011

Le mille e una Italia



Le mille e una Italia (Lindau)

"L’Italia è lunga, troppo lunga per essere conosciuta a fondo, troppo lunga anche per essere immaginata. Benedict Anderson ha definito la nazione come una «comunità politica immaginata», perché «nemmeno i membri della più piccola nazione conosceranno mai la maggior parte degli altri membri, non li incontreranno, né probabilmente sentiranno nemmeno parlare di loro, e ciò nonostante nella mente di ciascuno è viva l'immagine della loro comunione».
La nazione sarebbe quindi una sorta di mappa concettuale che aiuta a dare senso al mondo. A immaginarla concorrono racconti, simboli, spazi geografici. Proprio a causa della sua lunghezza, gli italiani hanno spesso scelto il «viaggio» come modello narrativo per avvicinarsi il più possibile alla realtà della penisola. Lo hanno fatto con il cinema da Paisà a Il ladro di bambini; lo hanno fatto con la televisione «pedagogica» degli Anni '50 da Viaggio nella Valle del Po di Mario Soldati a Viaggio nel Sud di Virgilio Sabel [...].
E un «viaggio» è anche quello raccontato da questo libro di Giovanni Arpino, pubblicato nel 1960, a ridosso delle celebrazioni del «centenario» dell’Unità d’Italia. Dalla Sicilia alle Alpi, l'itinerario è quello classico dal Sud al Nord: a percorrerlo si sono avvicendati, tra gli altri, gli esuli napoletani del 1848 che trovarono rifugio nella Torino sabauda, l'esercito alleato che risalì la penisola guerreggiando con i tedeschi e i fascisti, il popolo contadino forzato a un esodo pieno di speranze verso le grandi città industriali del boom economico, e così via. In questo caso è un ragazzo, Riccio Tumarrano, a farci da guida, invitandoci a seguirlo nel faticoso e avventuroso peregrinare che dalle falde dell’Etna lo spinge su, verso il Nord, alla ricerca del padre minatore, impegnato nei lavori per il traforo del Monte Bianco. Attraverso lo sguardo di Riccio, Arpino ci conduce lungo un percorso in cui gli spazi geografici si intrecciano con i tempi della storia, mescolando eventi e figure che hanno scandito i secoli del nostro passato, secondo le linee di un progetto («Va’ avanti - dice a Riccio Giovanni Verga, il primo dei personaggi incontrati dal ragazzo e dal lettore -. Il nostro è un paese che si comincia a conoscere solo da vecchi: tu sei fortunato a attraversarlo tutto mentre sei un ragazzo. Hai un bell’occhio coraggioso, Riccio: usalo. L'occhio sincero che sa vedere è un patrimonio, e più il mondo intorno si fa difficile, più quel patrimonio ti serve») che è essenzialmente un progetto di conoscenza.
Riccio si congeda dalla Sicilia (dopo un colloquio con Pirandello) e passa sul continente. Attraversa il Sud, incontrando le occupazioni delle terre [...] e le lotte contadine, ma anche il fatalismo tragico di una maschera come quella di Pulcinella e la gloria militare di un condottiero - Annibale - che aveva osato sfidare il potere di Roma.
Roma, appunto. Qui Riccio si imbatte in un’altra «marcia»: questa volta non più gli elefanti di Annibale ma gli squadristi di Mussolini, non più romani contro cartaginesi ma i fascisti vittoriosi del 28 ottobre del 1922. Riccio arriva nella capitale proprio insieme a Mussolini che incontra così («Ehi, tu - disse una voce. Si voltò. Un ragazzo della sua età balzò dalle erbe al lato della strada. Si mise in posa con i piedi nella polvere, i pugni sui fianchi. Aveva grandi occhi neri che roteavano con prepotenza, aveva grosse mascelle e sporgeva il petto come fosse il padrone della via ... Come ti chiami. Mussolini Benito - rispose il ragazzo, e qui di nuovo trattenne aria, strabuzzò gli occhi, spinse il petto in fuori -. La strada è di tutti, andiamo pure - disse allora Riccio facendo uno sforzo per non ridere») e dal quale viene canagliescamente derubato di tutte le sue povere provviste.
L'incontro è destinato a ripetersi, in un altro contesto, l'Italia del Nord, e in un altro tempo, la Resistenza e il biennio 1943-1945. Quando Riccio arriva nella pianura padana (dopo aver attraversato le città e le epoche dell’Italia centrale, spaziando da San Francesco a Savonarola) Mussolini non è più il Duce, ma «il Tiranno Nero», «rimesso sul trono sbrindellato da certi suoi alleati, i tedeschi [...].
Il Tiranno rialzò la cresta, ma questa volta furono milioni gli onesti che non vollero più obbedirgli e sopportarlo in silenzio». Riccio incontra così i fratelli Cervi («I sette fratelli, in questa battaglia, erano sempre tra i primi. Finché un giorno vennero assediati, la casa fu circondata da sbirri e soldati del Tiranno. I sette fratelli spararono fino all'ultima cartuccia, poi, per salvare la vita alle donne e ai loro undici bambini, si arresero. E con loro si arrese anche il vecchio padre. Tutti insieme furono portati in prigione mentre la casa e il fienile e la stalla bruciavano, incendiati dagli uomini del Tiranno, pieni di odio»), poi i partigiani delle Langhe («Non parlavano, andavano su piano, con fucili e mitra che risplendevano nel sole. Alla cima della collina si fermarono un momento a guardare le torri di Alba, affumicate sulla sponda del Tanaro. - Darei il mitra per poter fare una scappata di due ore a casa, - disse uno. - Solo il mitra? Io darei anche la barba, - rise il secondo. - Avanti, non perdiamo tempo, - comandò il terzo e riprese la marcia. ... Noi siamo Partigiani, - gli rispose poi uno dei tre: - E da un anno combattiamo contro tedeschi e fascisti. Combatteremo finché ne resterà uno, finché non se ne andranno»), il comandante «Tuono» e il capo della Resistenza, Ferruccio Parri. [...]
A quel punto il viaggio sta per finire. Riccio ha percorso quasi tutta la penisola e ha maturato una conoscenza approfondita degli spazi della nostra geografia e dei tempi della nostra storia. Intorno a un bivacco, insieme ai partigiani, si stagliano due figure, la prima che insegna agli uomini della Resistenza come combattere, la seconda che spiega loro i segreti della politica e della diplomazia (...). Garibaldi e Cavour; il Risorgimento si salda con la Resistenza.
E il cerchio della conoscenza si chiude. Riccio è pronto a usare quello che ha imparato per poter «immaginare» l'Italia e «immaginarla» attraverso gli uomini che con le loro gesta gli appaiono degni di figurare in un ideale pantheon, in un tempio in cui celebrare i riti di una religione civile in grado di costruire una cittadinanza e un’appartenenza condivisa. In questo senso, la meta finale di Riccio è simbolicamente rappresentata dall’incontro, decisivo, con Piero Gobetti.
A indirizzarlo verso quell’ultimo appuntamento è stato Antonio Gramsci, che Riccio ha incontrato a Torino. Gobetti si trova in Val d'Aosta. Insieme ad altri grandi italiani (Cristoforo Colombo, Giacomo Leopardi, Cattaneo, Giuseppe Mazzini, Gaetano Salvemini) è rinchiuso nella Torre della Verità: tutti infatti sono stati «contagiati» dalla Verità («E che malattia hai? - domandò Riccio. - Sono stato contagiato dalla Verità, la più grande delle malattie, quella che fa scappare tutti gli uomini, - raccontò Gobetti: - Chi ha questo morbo in corpo desta milioni di sospetti nella gente»). [...]
Riccio è curioso di sapere cosa sia questa Verità che la maggioranza degli italiani considera una sorta di pericolosa malattia. E Gobetti gliela racconta così: «È lungo da spiegare. Ti basti questo: quando, tanti anni fa, scrissi che l'industria, per progredire, per diventare moderna, doveva considerare non solo i problemi tecnici del lavoro, ma anche quelli del lavoratore, dell’operaio, e aggiunsi che solo con un operaio più moderno, più libero, più cosciente dei suoi diritti, il mondo della produzione avrebbe potuto svilupparsi veramente, be’, allora fui subito giudicato. Mi dichiararono affetto dal morbo della Verità e finii di corsa nella Torre. La società è pigra, ma quando deve difendersi da noi, malati di Verità, si sbriga in quattro e quattr’otto, caro mio».
Per Riccio il viaggio ora è veramente finito. E’ arrivato alle pendici del Monte Bianco e può finalmente riabbracciare il padre. [...]
Nonostante tutte le sue scorribande nel tempo e l'affollarsi di personaggi del passato, Riccio/Arpino immagina e conosce solo ed esclusivamente l'Italia del presente, l'Italia del 1960, l'Italia del «centenario». Ed è un'Italia gonfia di ottimismo, di vitalità, di consapevolezza. Un'Italia che vive le parole di Gobetti non più come profezia inascoltata ma come una «miracolosa» realtà. Un’Italia che in dieci anni, dal 1951 al 1961, ha smesso i panni del paese contadino per diventare la quinta potenza industriale del mondo. La Torino di Gramsci e Gobetti si specchia nell’orgoglio del titolo di metropoli che spetta alla città che raggiunge un milione di abitanti. E' un'Italia che, dopo i moti del luglio ’60 contro il governo Tambroni, riscopre i valori dell’antifascismo e della Resistenza, uscendo dalle nebbie clericali e sanfediste degli anni del centrismo democristiano. E' un’Italia che sogna un albero genealogico costruito non sulle maggioranze che hanno applaudito Mussolini nelle piazze, ma su quelle minoranze eroiche che, nel Risorgimento come nella Resistenza, hanno riscattato con la loro abnegazione e il loro slancio l'ignavia delle «folle oceaniche».
Un'Italia che sembra oggi irrimediabilmente perduta, un'Italia che rende amaramente anacronistici gli slanci e gli entusiasmi che guidarono Riccio attraverso il suo viaggio nella storia." (da Giovanni De Luna, Italia, la tua bandiera è la verità, "TuttoLibri", "La Stampa", 19/03/'11)

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