martedì 1 marzo 2011

Il terrazzino dei gerani timidi


"C'è una bambina che legge accucciata fra i gerani assetati del suo terrazzino, legge con furia incantata e con metodo, vuole arrivare a diecimila libri e si fidanza via via con ogni autore, divora tutto di lui, anche la biografia, e piange di nostalgia quando deve lasciarlo. Comincia con Pirandello e arriverà, più tardi, fino a Proust. Da quella insolita stanza tutta per sé, dove siede sul suo gradino bianco - ed è come se fosse seduta sul mondo mentre il suo sguardo corre oltre le sbarre e la siepe - la ragazzina fa apprendistato scrutando la vita di provincia degli anni Cinquanta che le scorre intorno. Da quel terrazzino, luogo di elezione e di osservazione, con un occhio che anticipa quello della donna che diventerà, fissa nella memoria le mani delle suore, divise in due tipologie: «quelle con le dita a bacchetta, e quelle simili ad artigli di aquila»; lo struscio all'imbrunire delle coppiette lungo il viale, i capelli «diabolicamente cotonati e poi riportati uno per uno sulla nuca con la precisione di una merlettaia» di una signora incontrata con la mamma.
Sorprende la prima opera narrativa di Anna Marchesini, Il terrazzino dei gerani timidi (Rizzoli): sì, proprio la impareggiabile e caustica donna del trio formato con Solenghi e Lopez, eppure spiega bene come tutto - lo sguardo comico e la cognizione del dolore - era già in testa di quella bambina con l'ossessione della lettura e che ripromette a se stessa che un giorno lo scriverà lei, un libro. Intanto decide di curare le sue paure («bisogna prestare attenzione allo spavento che può fare ai bambini la vita, trattarlo con cura, si dice che la paura può far crescere rachitico il cuore» scrive Anna nel libro) facendosele lenire dall'osservazione e dalla lettura. In questa immersione nelle vite degli altri è aiutata dalla madre crocerossina del dolore che la porta a visitare malati e vecchi soli e perlopiù sconosciuti.
Fatale l'incontro nel giorno della Prima comunione con la perpetua, figura bizzarra, dal volto che suggerisce future caricature: «Era come se ago e filo tenessero cuciti insieme tutti gli elementi del viso, il filo fosse stato troppo tirato e avesse arricciato quel muso, come un rammendo troppo stretto, così si era come accartocciata al centro, in una specie di smorfia contratta fino al comico». Ma anche l'apparizione di Ghita, sorella del prete, centenaria quasi cieca che parla solo in dialetto, accende tutti i suoi sensi. Perché per un ghiribizzo del destino nel dialetto parlato in quel di Orvieto tutte le parole che finivano con la «i», venivano pronunciate come se terminassero con la «e», e la vecchia Ghita non faceva eccezione e non era disposta a farne; così tutto veniva da lei indifferentemente coniugato al femminile: le vicole, le maschie, le fratelle, le soldate, in un effetto straniante e oscuramente comico rilevato con destrezza dalla bambina. Che poi, una volta diventata autrice, piegherà quelle memorie agrodolci in un magma linguistico molto sorvegliato, lavorato, quasi non contemporaneo: Marchesini, si capisce, ha una fascinazione per le parole di cui sembra voler rivoltare l'anima per vedere cosa c'è dentro e scrutarne fino in fondo le possibilità espressive. Perché per la bambina salvata dai libri la vita è sogno, letterario prima di tutto." (da Maria Luisa Agnese, Anna Marchesini, la bambina che voleva leggere diecimila libri, "Corriere della Sera", 27/02/'11)

Anna Marchesini (da "La Repubblica", 26/06/'11)

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