sabato 5 marzo 2011

Diario di lettura: Enrico Tallone


"L’approdo - via Parigi - è Alpignano. Dal Marais alla
villa di via Diaz 9, dove i torchi severi continuano la tradizione di Aldo Manuzio e di Bodoni. Dai Filosofi greci presocratici al libro appena uscito di Eugenio De Signoribus, Nessun luogo è elementare, in un bell’armadio in noce primo Ottocento tutte le edizioni attualmente a catalogo di un’impresa d’eccezione, nata nel nome del padre, l’Alberto Tallone Editore: Cicerone, Orazio, Catullo, Cino da Pistoia, Boccaccio, Bembo, Tasso, Manzoni, Perrault, Lamartine, Ungaretti, Sinisgalli, Bertolucci, Zolla, Luzi, Alda Merini e così via. Erede di un lascito così prezioso, il figlio Enrico - cinquantasette anni maturati al perseguimento di mirabili utopie tipografiche - dal padre ha preso molto, ma più di tutto il sentimento dei caratteri a stampa, la competenza forgiata al fuoco di una passione dominante: la ricerca di una bellezza senza fronzoli, il nitore di una pagina sempre limpidamente unica ed essenziale.
Lei alla Fiera di Rimini ha partecipato ieri a una tavola rotonda sulla «bellezza estetica» degli e-book. Che ci fa un uomo dei torchi nel mondo degli ultimi ritrovati elettronici? «Ci fa il provocatore, cercando dimostrare come certe arditezze tipografiche abbiano anticipato e non siano in contrasto con le conquiste del virtuale, nonostante lo smaterializzarsi del carattere - che è poi scultura del pensiero - possa indurre a pensarlo. Si tratta di comprendere che lo scopo di qualsiasi comunicazione scritta è la sua leggibilità e che la ricerca della chiarezza diventa essenziale».
Lei vuole dire che - oggi come ieri - la bellezza è il sale della comunicazione? «Proprio così. Se forma e contenuto fossero slegati, leggeremmo da secoli libri fitti di segni stenografici, già usati dal liberto Tirone al foro romano per trascrivere le arringhe di Cicerone.
Guardando dentro l’armadio dei gioielli viene da stare al gioco della domanda
stupidina: letti tutti? «In verità per anni ho avuto timore di avvicinarmi ai libri di mio padre. Molti li ho letti tanti anni dopo e alcuni li devo leggere ancora.
Soprattutto in principio ero preda di un assoluto senso di inferiorità e non pensavo di potercela fare».
Dunque il lascito di suo padre, oltre che un lascito di competenza tecnica, è stato anche un lascito di letture? «Certo, mio padre era sempre circondato di libri, proprio perché un editore è un catalizzatore di libri. E questo ormai capita anche a me. Ma ho ben presente che il mio esordio - mio e di mio fratello Aldo, scomparso vent’anni fa - fu piuttosto l’esordio di due distruttori. A Parigi avevamo in casa un magnifico album ricco di figure, di costumi e piangevamo finché qualcuno non ci metteva tra le mani il bibelot che noi abbiamo finito per sfasciare con molta dedizione, con molto scrupolo».
E poi? «E poi sono ben venuti i libri letti. Per me indimenticabili i
Canti Orfici di Dino Campana e le traduzioni di Ceronetti: l’Ecclesiaste, Il Cantico dei cantici. Ceronetti ha il dono tutto suo nelle introduzioni e nei saggi di non annoiare. In Campana - nel suo libro che è unico - trovo invece un formidabile contrasto tra energia muscolare e intelletto poetico. Ma una passione speciale nutro anche per una lettura curiosissima, il Sator
Arepo, il quadrato magico palindromo che nelle lettere raccoglie il carattere, l’astrazione, il gioco e la magia universali. "Il grande seminatore che tiene con perizia le sfere dell’universo", il cui lubrificante pare essere il dolore».
Segreta ambizione di unità? «Può darsi. Non a caso su di me hanno esercitato un grande fascino i filosofi presocratici, che nel nodo della poesia tengono insieme scienza, morale e poesia. Parmenide, Anassagora, Melisso, Pitagora, Zenone, ma Empedocle su tutti, per la sua leggenda, la fama di mago e le facoltà profetiche, oltre alla divinità presunta. Ma anche gli utopisti, un testo straordinario come La città del sole di Campanella, che ho letto dietro le indicazioni di Luigi Firpo. Un testo di prodigiosa chiaroveggenza, che tutti dovrebbero conoscere».
C’è un libro modello che vorrebbe eguagliare? «Sì, amerei fare un libro bello come
quello che fece mio padre con I promessi sposi a cura di Marino Parenti. Non so se riuscirò mai a raggiungere la qualità di un libro come quello. Magari poterlo fare con un inedito ...».
Mi sembra che lei alla fine lei torni sempre al suo mestiere di editore-stampatore.
«Non riesco ad avvicinarmi a una qualsiasi pagina senza farne un’analisi estetica, perché ogni volta vengo attratto dai caratteri, dalla ricchezza del loro antropomorfismo. Nei caratteri vedo nasi occhi pose atteggiamenti, indovino il piede di un ballerino di tango.Questo è ilmio imprinting. Niente da fare, casco sempre lì».
Venendo però alla sostanza, qual è stato il libro della sua infanzia «distruttiva»?
«Sicuramente Le avventure di Pinocchio, perché fu sempre un libro di casa. E in questo c’entra mia madre, toscana di Vinci. Pinocchio, insomma, lo abbiamo praticato parecchio, tanto che uno dei miei più cari amici è il pittore Paolo Tesi, che si dichiara "Pinocchio vivente"».
Il livre de chevet? «Più che un libro, direi pile, veri e propri pericoli incombenti. Ma molti sono libri che parlano di caratteri, di storia della tipografia, dove le vicende di ciascun stampatore sono per me un romanzo. Il grande fascino viene dal fatto che i caratteri si rifondono, e questo significa che nei caratteri di oggi continuano a vivere come lievito, per quanto in misura infinitesimale, i caratteri di Gutenberg. Ma a domanda precisa rispondo senza derogare: il mio livre de chevet è l’Arneudo, un dizionario per le arti grafiche, pubblicato a Torino nel 1927 che contiene con proprietà emisura tutto lo scibile tipografico. Se dovessi ritirarmi in un monastero, quello mi porterei».
Oltre a suo padre, maestri di lettura? «Mio padre scomparve quando io avevo quattordici anni e il suo lascito fu l’atmosfera, furono gli amici che continuarono a frequentare casa nostra: Piero Pellizzari, Jacques Naville, ma più di tutti Roger Lautray, un anziano operaio di mio padre che partiva da Digione per insegnarci l’arte del libro,una capacità di lavoro assoluta, nessun movimento sprecato, un incredibile conoscitore. Lui ha sempre incarnato per me l’uomo del libro».
Più prosa o più poesia nelle sue letture? «Più poesia, forse, ma anche qui per un fatto pratico. La pagina poetica è sempre cangiante. Ogni pagina di poesia è diversa dall’altra».
Nomi? «Non posso non ricordare Dante e Petrarca. Dante letto a più riprese. Come manufatto uno dei libri più complessi che sia uscito dai nostri torchi è il "Dantino" del Giubileo. A settecento anni di distanza dal Giubileo di Bonifacio VIII una Comedìa che richiese due anni di lavoro».
Petrarca per l’Editore Tallone vuole dire soprattutto Gianfranco Contini. «Certo. Vuole dire una consuetudine che è durata nel tempo. Vuole dire il saggio fondamentale
sulla lingua del Petrarca, vuole dire lettere, incontri, gite, libri che hanno segnato la mia giovinezza evocando l’intero percorso della letteratura italiana».
Quali altri poeti? «Di certo Mario Luzi. Ma la rivelazione è stata per me la poetessa amazzonica Márcia Theóphilo, che vive a Roma e che scrive sia in portoghese sia in italiano. Di lei nel 2000 abbiamo pubblicato il Canto della foresta amazzonica Kupahúba, l’Albero dello Spirito Santo, in cui vengono cantati i miti della foresta, le voci del fiume, del vento, degli animali, dei fiori, degli alberi, una polifonia arcaica e modernissima».
Una prospettiva sempre aperta, di ampio respiro. «Non c’è dubbio. Dai presocratici ai moderni, dall’antico a oggi, un caleidoscopio molto vasto. I grandi del Medioevo e del Rinascimento, Erasmo, gli utopisti. E poi Foscolo, Leopardi, per arrivare a De Signoribus. Testi tradotti e testi in lingua originale, molti bilingui (ma mai la traduzione a fronte, troppo scolastica). I sonetti di Shakespeare, l’Amleto, Neruda, Asturias, Venezia nei Cantos di Pound tradotto dalla figlia Mary de Rachewiltz».
Perché Pound? «Pound è sfrenato, mescola pittogrammi, greco, dialetto veneto, i più diversi linguaggi. Litania notturna a Venezia è il più bell’inno alla città del leone di San Marco. È poesia che ti porta»." (da Giovanni Tesio, 'Che bellezza comporre La città del sole', "TuttoLibri", "La Stampa", 05/03/'11)

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