martedì 22 marzo 2011

Disumane lettere


"Nel suo nuovo libro Disumane lettere, Carla Benedetti, critica letteraria e saggista, fa sua una domanda di Richard Powers: può la razza umana avere un lieto fine? E cioè, in un'epoca apocalittica come la nostra in cui la fine, per la prima volta, si delinea concreta all'orizzonte, possiamo agire - anche letterariamente - affinché la realtà cambi? Questa domanda ne porta con sé un'altra: che connessione c'è, oggi, tra due concetti sinora così distinti come razza umana (dunque storia oggettiva, scienza quasi) e lieto fine (dunque fiction, finzione, struttura narrativa)? Argomento attuale come non mai, la differenza tra reale, realismo, fiction, narrazione, modelli narrativi non è il centro solo dell'ultima fatica di Carla Benedetti, ma anche di tanti articoli, libri, trasmissioni radio e tv dell'ultimo periodo. Rispetto agli altri però, Disumane lettere (Laterza) - che indaga le humanities oggi - compie uno scarto. È vero, si chiede, che la letteratura è sul viale del tramonto, appannaggio di una ristretta cerchia intellettuale rinchiusa in una torre di lamiera? Che dei libri non c'è più bisogno? Che la letteratura è ormai schiacciata in un realismo fittizio figlio della fiction? Se in Italia l'inizio della fame di reality - cioè di mescolanza tra realtà dei fatti e modelli narrativi - sta nella tragedia di Vermicino e passa per Cogne, il tele-racconto dell'omicidio Scazzi rivela la dittatura della fiction sulla realtà. Una realtà senza fatti, mai nuda, sempre più spinta a forza nelle caselle della narrazione fittizia (trama, colpi di scena, fruizione a puntate). Cambia il modo di fare cronaca, rendere pubblico il fatto. Per Benedetti questo è il risultato del sorpasso della fiction sulla realtà, mentre per il filosofo Maurizio Ferraris - che ne ha parlato in un articolo su queste pagine - la nuova tendenza ha un nome: si chiama realitysmo ed è la sostituzione della realtà con la finzione. Ma i canoni della fiction, oggi, contagiano anche la letteratura. Di più. Il mercato mondiale della narrazione televisiva - scrive Benedetti - , con le sue strutture lineari e confortanti spacciate per calco del reale, ha fagocitato come per opera di una selezione naturale i modelli narrativi altri: la fiction applicata alla letteratura sembra l' unico modo per raggiungere il pubblico/i lettori. Ma non è solo questo: la letteratura ha smesso di credere nella propria potenza sovversiva e, incapace di riconoscersi un ruolo, si è soffocata in un onnipresente realismo spicciolo, indiscreto e accattivante, che astrae e semplifica il reale. Il realismo letterario odierno, cioè, non è verista né neorealista, ma consolatorio: inventa un mondo manicheo in cui tutto è riconoscibile. Surrogato della realtà, si impone di rendere il vero più elementare, pacificato. La letteratura rinuncia all'invenzione. Il primo effetto di tutto ciò è che il racconto del reale smette di esistere, o meglio è manipolato e tramutato immediatamente in favola patetica, farsa, thriller. Paradossalmente la denuncia sembra essere compito esclusivo di noire fantascienza, come la gabbia dei generi preservasse il lettore dalla paura del caos vitale e dall' impegno. Ma se cronaca e vita sono diventate «narrazioni», alla letteratura cosa resta? Qual è la funzione dello scrittore, deputato da sempre a raccontare? Che differenza c'è tra uno scrittore, un cronista e un presentatore? Per Benedetti esiste già una letteratura - ancora - viva in grado di raccontare il reale con mezzi non realisti. La cognizione del dolore (Garzanti) di Gadda, per esempio, in cui il reale è oltre, non fatto tangibile e passivo ma gomitolo irredimibile di materia e im-materia. O, pensando a oggi, Gomorra. La risposta sta dunque nel sottrarsi, da parte della letteratura, dalla funzione ancillare che le è stata (o che si è) conferita. Al contrario di quanto si dice, le lettere sono potenti e necessarie oggi più che mai, ancora in grado di ribaltare, agire sul reale; di restituire la complessità del «vero» sottraendosi al gioco del realismo a tutti i costi. La funzione nuova dello scrittore sta in una letteratura un poco dis-umana, cioè meno circoscritta al fatto umano materiale, libera di riprodurre la realtà in tutta la sua misteriosità, irrazionalità, irriducibilità. Una letteratura audacee "scorretta": la tolleranza, scrive Benedetti, è un valore irrinunciabile, ma perché dovrebbe avere come prezzo l'abdicazione dalla verità, dalla radicalità? Nichilismo, catastrofismo, politically correct, voyeurismo, paura della responsabilità in tutte le sue forme, mania del gossip, trasformazione del rispetto in timore di prendere posizione, percezione del mondo come sommatoria di soap: questi, io credo, sono i veri nuovi mostri. La dittatura della fiction non è che un effetto collaterale. E non definitivo, se esistono ancora libri capaci di irrompere dai generi e dalla frenesia da realitysmo, e di farsi specchio della realtà insubordinato. Fuori dal format. La disumanizzazione di cui parla Benedetti non è, dunque, rinuncia all'umanità, ma attestazione di potenza: disumanizzandosi (rifiutando un semplicistico antropocentrismo) le lettere inventano un nuovo realismo più-che-reale, oltre-il-reale, l'unico oggi davvero in grado di restituire gli infiniti piani della realtà, e di modificarla. Le lettere "disumane" sono lettere polimorfe, sovversive, capaci di ritrovare l'antico senso della "finzione": plasmare, creare. Romanzi non solo sull'uomo, piuttosto su tutto ciò che dell'uomo non è corollario ma materia viva. Tornando alla domanda iniziale: può la razza umana avere un lieto fine? Sì. È la letteratura stessa a poterne cambiare il destino." (da Antonella Lattanzi, Come salvare il romanzo dall'egemonia della fiction, "La Repubblica", 18/03/'11)

Staniamo i lettori dei geni ("Il Sole 24 Ore Domenica")

Nessun commento: