lunedì 4 febbraio 2008

Necropoli di Boris Pahor


"[...] Con questo grande libro Boris Pahor affronta il tortuoso incubo della colpa (quantomeno sentita come tale) del sopravvissuto, di chi è tornato; incubo che tanto sembra aver pesato sul grandissimo Primo Levi, quando diceva che chi è tornato non ha visto veramente a fondo la Gorgone e chi l'ha vista non è tornato. Necropoli è un ritratto a pieno campo e allo stesso tempo stringato - mai patetico - della vita (della non-vita, della morte) nel lager. Un possente afflato umano coesiste con una nitida e fredda precisione, in una perfetta struttura narrativa che interseca il racconto del passato - della prigionia, rivissuta nel perenne presente dell'orrore - e il resoconto del presente, della rivisitazione molti anni dopo di quegli inferni bonificati e divenuti museo e memento di se stessi, non senza le ambiguità implicite in questo sempre incerto superamento ufficiale del passato. Necropoli è un'opera magistrale (se è lecito usare giudizi estetici per una testimonianza del male assoluto) anche per la sua limpida sapienza strutturale, per l'intrecciarsi di tempi - verbali ed esistenziali - che intessono il racconto. In un libro in cui non c'è la minima sbavatura vi sono momenti particolarmente indimenticabili: le sequenze cinematografiche della collettiva ('multicefala') massa dei detenuti sotto il getto dell'acqua delle docce, la rasatura del pube che assimila i prigionieri a cani che si annusino a vicenda, le tenaglie che trascinano gli scheletri su cumuli di scheletri, i dettagli del lavoro o delle cure prestate dai detenuti-infermieri come lo stesso autore, le forche per le impiccagioni, gli stratagemmi per salvarsi applicando un cartellino con un altro nome all'alluce di un cadavere, i deliri dei morenti; la bocca sempre urlante dei tedeschi assurta a caratteristica antropologica, il ciarpame di fetida biancheria dei morti purtuttavia preziosa per i vivi, il silenzio del fumo che esce dai camini; l'esigenza di ordine che paradossalmente permane pur nell'esecuzione dell'infame lavoro forzato, il segreto egoismo nell'aiuto prestato a un condannato con il sollievo di non essere al suo posto, i miserabili e benvenuti baratti di cicche e croste di pane fra prigionieri; l'abiezione storica divenuta squallore cosmico, vuoto assoluto.

Momenti sbalzati davanti all'eternità con possente poesia, come quelle due ragazze che incrociano casualmente per strada la fila dei dannati e nemmeno se ne accorgono, li eliminano dal loro sguardo, come se su quella strada ci fossero soltanto la neve e la bella giornata di sole. Oppure il sorriso di una bambino che si affaccia alla finestra mentre in strada passa quella fila di vittime e sorride; un sorriso innocente ma 'anacronistico' al pari del sole che splende alto nel cielo. O, ancora quel condannato che prima di essere impiccato sputa in faccia ai carnefici - talora basta uno sputo sul viso di qualcuno per lavare lo sporco dal volto del mondo. Boris Pahor è sopravvissuto. Non posso penetrare nel suo cuore, ma sembra essere uscito da quella necropoli veramente vivo, nel pieno senso del termine; irrimediabilmente segnato ma non umanamente mutilato né spento; integro, a differenza di altri grandi scrittori - passati attraverso quell'inferno. Forse deve in parte quest'integrità alla sua vitalità, alla sua confidenza - che egli fa risalire alle sue origini popolari - con la fisicità elementare della vita, che gli permette di non sentirsi a disagio 'a contatto con il marciume, con le feci e con il sangue'. Questa forza, questa armonia con lo scorrere lutulento dell'esistenza e con la materia - fragile, talora repellente ma talora anche cristianamente gloriosa - di cui siamo fatti diventano fraterna assistenza a quei poveri sudici corpi accanto a lui, da lavare, pulire e seppellire. Boris Pahor lo fa e lo narra con asciutta precisione fattuale, senz'altro pathos umanitario. Perfino in quella necropoli tale resistenza umana è una speranza. Per sé e per gli altri. Chissà se, come dice la Scrittura, le ossa umiliate - tutte le ossa umiliate - un giorno esulteranno." (da Claudio Magris, Pahor, la colpa di essere sopravvissuto, "Corriere della Sera", 03/02/'08)

1 commento:

Anonimo ha detto...

è stupendo