giovedì 8 ottobre 2009

Riportando tutto a casa di Nicola Lagioia


"Altro che Cina. Altro che Mao Tse-Dong. Secondo il regista del film Videocracy, l'unica, vera Rivoluzione Culturale dei nostri tempi sarebbe nata verso gli anni Ottanta, negli studi televisivi di Cologno Monzese. Poco importa che i Campi di Rieducazione siano stati semplici programmi di intrattenimento come Drive-in o La ruota della fortuna; l'essenziale è che la sua vittoria abbia coinciso con una totale riformulazione dei valori sociali. Nata come strumento commerciale, la televisione ha finito per imporsi quale modello pedagogico dominante. Solo così si spiegano i solenni Funerali di Stato decretati per un presentatore televisivo. Il Paese che un tempo avrebbe eletto a suoi rappresentanti intellettuali e morali Giacomo Puccini, Guglielmo Marconi o Salvo D'Acquisto (un musicista, uno scienziato, un martire) oggi si stringe trepido intorno a un conduttore. Di tale metamorfosi ha ampiamente parlato la letteratura italiana, con Tondelli, Busi, Aldo Nove. Fin qui però il suo sguardo si era soffermato soprattutto su Milano e dintorni. Con l'ultimo libro di Nicola Lagioia assistiamo invece a un interessante cambiamento di prospettiva. Riportando tutto a casa descrive infatti la grande mutazione antropologica attraverso gli amori e le amicizie di un liceale nella Bari degli anni Ottanta. Rispetto alla sua precedente prova narrativa Occidente per principianti, è come se Lagioia avesse cambiato punto cardinale, suggerendo una specie di Meridione per maturandi. E certo, siamo di fronte a un romanzo di formazione, ricco di echi generazionali (non per niente il titolo proviene da una canzone di Bob Dylan). Eppure quel che più colpisce è lo sfondo su cui si svolge la crescita del protagonista: una Bari da un lato travolta dall'ebbrezza economica degli adulti, dall'altro segnata dall'inquietudine dei loro figli, prigionieri di una 'luminosa gabbia di fatturato e anaffettività'. Per una bella coincidenza, Riportando tutto a casa si allinea a due libri editi da Laterza e basati sul medesimo tema: l'incontro fra il personaggio principale e i suoi antichi compagni di classe, anche a costo di sofferenze e delusioni (Lagioia: 'C'è sempre qualcosa di sbagliato nel rintracciare vecchi amici'). Si tratta di Né qui né altrove. Una notte a Bari di Gianrico Carofiglio, e del recente Foto di classe di Mario Desiati. Mentre il secondo si svolge a Martina Franca, il primo ha per teatro Bari stessa. Ma a cosa si deve questa curiosa insistenza sulla riscoperta dell'adolescenza nell'universo urbano del nostro Sud? Verrebbe da rispondere con le parole di un giovane critico, Simone Giusti, che in un intervento di qualche tempo fa aveva avanzato l'ipotesi di una 'linea meridiana', da contrapporre alla fortunata 'linea lombarda' lanciata da Luciano Anceschi. Limitata alla sola poesia, la proposta di Giusti riprendeva la nozione di ermetismo meridionale, per riconoscere diritto di cittadinanza a una letteratura troppo a lungo giudicata marginale, secondaria, minoritaria. Difficile esportare la stessa formula nella narrativa attuale, e tuttavia resta forte l'impressione di una nuova corrente espressiva legata al Mezzogiorno. Cosa accadeva dunque a uno studente nella Bari da bere dei rutilanti anni Ottanta, quel decennio breve 'assassinato a pochi istanti dalla nascita' e chiuso nel 1989 dalla caduta del Muro di Berlino? Lagioia lo racconta con acume, strazio e ironia. Ecco come si presenta la poco orwelliana Bari nel 1984: 'Mio padre veniva da generazioni di senzaniente [...] Ma adesso era successo che si era spalancato un varco. C'era dell'ottimismo nell'aria. Il vento dell'autunno alimentava nella calotta artica dei nostri cuori uno sfrenato desiderio di beni voluttuari [...] Anche per noi era arrivato il tempo di fare un po' di soldi'. E' questo lo stato d'animo espresso dal 'segno zodiacale di un Paese che proprio in quell'anno brillava sulla cuspide della quinta potenza industrializzata del pianeta'. Sembrerebbe una trama di Balzac, se non fosse che quell'Italia meridionale è solo una 'borghesia settimina', costretta a sopravvivere seguendo 'uno strano corso di recupero, tipo due secoli in dieci anni'. Ebbene, nelle sere del 1984, su tutti gli abitanti della città scende un bagliore azzurro: 'Non si chiamava ancora televisione commerciale. Era, semplicemente, "la Cosa Nuova". Eccola infine la grande Rivoluzione. Seguendo un beffardo percorso evolutivo, Drive in corona il sogno del Maggio Francese: 'La risata che ci avrebbe dovuto seppellire tutti quanti era arrivata'. Così mentre si fa sempre più forte l'assenza della politica e la presenza delle droghe pesanti, l'autore annota: 'Qualcosa di morto arroventava i tramonti delle nostre città, e più era morto più pretendeva il contrario e si riempiva di lustrini'. Siamo al centro del libro, e qui Lagioia traccia i lineamenti di un'epoca segnata dal dissesto: 'Quell'aperta vastità cittadina che è Bari negli anni Ottanta' si rivela sorella di una terra segnata dal veleno, tanto che i personaggi del racconto non hanno più dubbi: 'Detestavamo i nostri genitori [...] Odiavamo la tv, di cui apprezzammo in quel periodo solo i filmati delle città fantasma intorno a Kiev, persuadendoci che il devastante scenario di Cernobyl fosse un termometro forgiato a millecinquecento chilometri di distanza per misurare il livelllo d'intossicazione spirituale delle nostre città'. Forse parlare di una linea meridiana nella narrativa italiana sarà eccessivo, ma alla fine di questo romanzo si ritrovano le stimmate dell'opera in cui Raffaele La Capria parlava del nostro Sud come di un luogo 'ferito a morte'." (da Valerio Magrelli, Perché gli anni Ottanta non si sono fermati a Eboli, "La Repubblica", 07/10/'09)

2 commenti:

Anonimo ha detto...

molto intiresno, grazie

Anonimo ha detto...

imparato molto