lunedì 5 ottobre 2009

Vengeance du traducteur di Brice Matthieussent


"Ci sono libri che si amano, libri che si odiano. E libri che si invidiano a chi li ha scritti. L’invidia è un sentimento temibile, corrosivo e inossidabile: ti scava dentro come uno stillicidio, goccia a goccia a goccia… E così, sono ancora qui che mi chiedo chi me l’ha fatto fare, ormai giorni fa, di metter piede in quella grande, anzi immensa libreria multipiano al centro di Parigi. Chi me l’ha fatto fare di entrare a buttare l’occhio sulle pole position della rentrée, per vedere che aria tirava da queste parti - a noi così vicine e lontane? Già, perché mentre in Italia stiamo ancora sbadigliando intorpiditi dalla pausa estiva, in Francia si vive, sul fronte editoriale, la stagione più frizzante dell’anno. Accompagna il ritorno a scuola, e lancia sugli scaffali delle librerie tutti i cavalli di razza, i pezzi forti. Già, eccolo qui, protagonista indiscusso insieme a mostri sacri in lingua originale e traduzione: il mio oggetto d’irraggiungibile desiderio campeggia a centro sala in pile di volumi, fa bella mostra di sé a fronte parete. Ma perché non l’ho scritto io, un libro così? Perché?
Invece, l’ha scritto un signore dal nome quasi più complicato del mio (ben gli sta!): si chiama Brice Matthieussent. Questo signore ha tradotto in francese, dal 1975 in poi, molti grandi nomi della letteratura di lingua inglese. Da Paul Bowles a Bukowski, da Kerouac a Joyce e tanti altri. Continuo a domandarmi chi gliel’abbia fatto fare, di mettersi a scrivere, visto che fa già un mestiere così bello (si dà il caso che sia anche il mio): poteva lasciar perdere, così il suo libro l’avrei scritto io. Ma, sia chiaro, non lo invidio per la ribalta della rentrée parigina (sono sincera, mi sto esponendo senza ritegno, l’invidia è un sentimento deprecabile e qui la dichiaro. Può bastare?), né per le migliaia di copie vendute che tutto ciò gli frutterà. Lo invidierei anche se ne vendesse tre in tutto, di copie. Anche se quelle tre copie se ne andassero così, in omaggio per recensione, senza un centesimo di diritti d’autore.
Vengeance du traducteur è pubblicato da Pol e ha una sobria copertina aniconica (pure quella, gli invidio). È un romanzo, ma anche e soprattutto un atto di sfida al mestiere che io, lui e tanti altri come noi fanno da secoli. Con passione e devozione, o meglio con un alchemico insieme delle due cose, che è l’unico vero segreto di cui un traduttore letterario disponga. Questo signore, che ha fatto? Ha tradotto un libro e l’ha cancellato, lasciando «soltanto» (si far per dire) centinaia di pagine di note a margine, commenti caustici, dotti sfoggi di erudizione, appunti sintattici, remoti riferimenti letterari a pié di pagina del libro che stava traducendo. Che ha, per vendetta, fagocitato. Espunto. Anche graficamente: il romanzo ha tutta la parte superiore della pagina bianca, e un lungo tratto che separa il testo (soppresso) del fantomatico romanzo tradotto, dalle note dell’autore/traduttore. Naturalmente nel libro di Matthieussent succede molto altro, con buona dose di fantasia. Ma non è questo che invidio al suo autore. No. È il gesto rivoluzionario di fare quel che nel profondo di noi stessi, nei momenti più cupi e in quelli più esaltati del nostro meraviglioso mestiere, noi traduttori prima o poi vagheggiamo. Perché?
Perché il nostro è il mestiere più invasivo eppure discreto al mondo: entri dentro un libro e il suo autore, gli sfondi l’intimità (perché è impossibile spiegare quale intrusione chirurgica sia il guardare una frase, un personaggio, un verso, per portarlo in un’altra lingua). E poi però devi sparire, farti trasparente. Perché la traduzione più efficace è quella che non c’è, di cui non ci si accorge. Una buona traduzione è l’originale che quell’autore avrebbe scritto, se avesse scritto nella lingua in cui ce lo porti tu con il tuo mestiere. Quindi, il bello di questo mestiere è una complice clandestinità, con la lingua da cui parti e quella cui arrivi. In fondo, i dibattiti e gli incontri fra traduttori (si sono da poco concluse a Urbino le sempre fertili Giornate della traduzione letteraria, ad esempio), sono utili per lo scambio di esperienze, ma girano ogni volta intorno alla questione: quanto è spesso e largo e profondo il cono d’ombra dentro il quale lavoriamo?
Brice Matthieussent - accidenti a lui e alla mia inguaribile invidia - ha capovolto quello spazio, è uscito allo scoperto, facendo sparire il libro originale e mettendo al suo posto - anzi, sotto la linea a metà pagina - l’avventura del suo (e mio) mestiere. Che sarà trasparente e discreto, ma muto certo no. Noi traduttori siamo molto logorroici, come dimostra il romanzo di Brice (ormai ho preso confidenza, lo chiamo per nome, anche se continuo a invidiarlo).
A proposito: mi viene in mente che forse un modo per esorcizzare l’invidia, anzi cacciarla via, ci sarebbe. Potrei tradurre dal francese all’italiano la Vengeance du traducteur. Ride bene chi ride ultimo." (da Elena Loewenthal, La vendetta del traduttore, "La Stampa", 05/10/'09)

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