sabato 10 ottobre 2009

Edward Hopper, il pittore che narrò le nostre solitudini


"«Nel novantanove per cento dei casi - disse Edward Hopper poco prima di morire - gli artisti vengono dimenticati dieci minuti dopo la morte». Affermazione che risponde senza dubbio al vero, ma non per lui. Ora, alla vigilia della grande mostra a lui dedicata a Milano dal 14 ottobre, ne è la conferma l'uscita in Italia per l’editore Johan & Levi della «biografia intima», va da sé monumentale, Edward Hopper (trad. di Irene Inserra e Marcella Mancini) scritta da Gail Levin, curatrice dell'opera di Hopper presso il Whitney Museum di New York, insegnante al Baruch College e autrice in passato di altri libri sul medesimo argomento.
La Levin, che ha avuto accesso alle lettere della moglie di Hopper, Josephine Nivison, e ai diari da questa tenuti tra gli Anni '20 e i '60, racconta la vita e i quadri del Maestro alla luce dell'antagonismo anche violento che caratterizzava le dinamiche di una coppia a dir poco simbiotica, che ricorda almeno in parte quella formata da Francis e Zelda Scott Fitzgerald: anche Jo infatti era un'artista, e oltre a fare da modella per il marito e a riciclare abiti usati dipingeva a sua volta. Frustrata dal successo del marito, con cui peraltro collaborava per trovare sempre nuovi soggetti, veniva da questi immancabilmente ostacolata. Non solo: Hopper di tanto in tanto la picchiava, e nella sua misoginia arrivava al punto da proibire alla consorte di mettersi al volante dell'auto di famiglia. Scrive per esempio Jo: «manifesta una ferma opposizione ogni volta che respiro ... vivo nell'ansia costante di un suo divieto».
Nel racconto della Levin tuttavia il privato diventa pubblico, perché queste scene di vita da un matrimonio si intrecciano con la genesi di quadri ormai celeberrimi, a cominciare da quel Nighthawks che dipinto nel 1942 è ben presto diventato non solo una delle metafore più pregnanti della condizione umana e dell'alienazione metropolitana, ma anche l'oggetto di un processo di banalizzazione ad alzo zero. «Ormai siamo abituati a vedere il triste bar aperto tutta la notte popolato da Babbo Natale con le sue renne, dai personaggi dei Peanuts, da anatre e persino da un gruppo di conigli chiamati gli hopper», nota la Levin. C'è chi si è spinto fino alla parodia, come l'artista austriaco Gottfried Helnwein nel suo Boulevard of Broken Dreams (1987), in cui ha sostituito le anonime figure di Hopper con Humphrey Bogart, James Dean, Elvis Presley e Marilyn Monroe. Per tacere delle copertine, delle copie in legno o ceramica, smalto o cartone, e delle ovvie riproduzioni su T-shirt, tazze e poster (toccate in sorte ai capolavori di tanti altri grandi, da Van Gogh a Picasso).
Quel che colpisce, però, al di là della sorte dell'opera d'arte all'epoca della sua riproducibilità tecnica, è l'enorme influenza esercitata da Hopper sui colleghi. Il suo uso della cultura popolare americana ha segnato un gran numero di artisti figurativi: oltre ad Andy Warhol, si pensi a Tom Wesselmann o George Segal, che alla Levin confessa: «Ciò che mi piace di Hopper è il modo poetico in cui riusciva ad allontanarsi dalla realtà». E l'inglese David Hockney, famoso per le sue piscine californiane? Per lui Hopper è «il più grande artista americano del '900». Anche gli iperrealisti, da Roger Brown a Richard Estes a Ralph Goings a Idelle Weber, vengono stregati dalla sua attrazione per le immagini «secondarie»: facciate, vetrate, stazioni di servizio (non a caso il giovane Hopper a Parigi si avvicinò alla fotografia, stupendosi per la «personalità che un buon fotografo può mettere in un'immagine»). Dopodiché, ecco i concettualisti, tra cui l'inglese Victor Burgin, con la sua rivisitazione di Office at Night.
L'onda lunga sprigionata dalle tele di Hopper ha tuttavia toccato anche altri ambiti artistici, compresa la letteratura. Pare perfino scontato avvicinare l'opera del pittore americano a quella di Raymond Carver, e dunque a quella dei tanti nipotini di quest'ultimo, più o meno a loro agio dopo essere stati iscritti d'ufficio alla voce «minimalisti», come ad esempio Bret Ellis e McInerney fino al nostro Aldo Nove che proprio ora racconta un «incontro immaginario» tra l’artista e lo scrittore in Si parla troppo di silenzio. Quante volte del resto nel corso degli ultimi decenni siamo incappati nell'aggettivo «hopperiano», nelle quarte di copertina di romanzi non solo americani?
Quanto al cinema, che catturò l'immaginazione del piccolo Hopper al tempo in cui bambino frequentava con la famiglia la sala della natia Nyack, e che gli dette da mangiare quando agli inizi della carriera disegnava locandine cinematografiche, prima divenne uno dei soggetti dei suoi quadri, e poi attinse a piene mani dal suo lavoro. «Dal momento che i noir e le opere di Hopper erano frutto della stessa cultura americana, non è facile stabilire chi sia venuto prima», scrive la Levin a proposito delle affinità tra il pittore e il regista Fritz Lang. Nel 1965, per il suo Two Comedians, Hopper s'ispirò esplicitamente al film Amanti Perduti di Marcel Carné. Ma quante sono le pellicole che devono almeno un'inquadratura ai quadri di Edward Hopper? La casa solitaria dipinta in House by the Railroad torna in film come Psycho di Alfred Hitchcock o Il Gigante di George Stevens. Nighthawks ha ispirato tra gli altri George Roy Hill per La Stangata e Aki Kaurismäki per Nuvole in viaggio. E poi ancora Lynch e Fassbinder e Wenders, che quand'è a New York torna sempre a vedere Hopper al Whitney, e che omaggiò la tela Sun in an Empty Room in L'amico americano, tratto dal romanzo di Handke: a sua volta grande ammiratore del pittore. Inutile aggiungere che dalla morte di Hopper, avvenuta a New York nel 1967, sono passati ben più di dieci minuti." (da Giuseppe Culicchia, Edward Hopper, il pittore che narrò le nostre solitudini, "TuttoLibri", "La Stampa", 10/10/'09)

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