giovedì 15 ottobre 2009

Galileo, processo con il trucco


"L’Osservatorio astronomico di Parigi è un edificio imponente, con biblioteca mozzafiato e strumenti che scrutano il cielo con confidenza. La gloria di Luigi XIV si mostra in ogni angolo e mura larghe due me­tri proteggono infinite storie, anche l’ultima qui na­ta: la nuova e più interessante edizione del processo a Galileo Galilei. Vi attende lo storico italo-svizzero Francesco Beretta, del Centre national de la recher­che scientifique (Cnrs) di Lione; la traduzione, la fat­tura e il commento dettagliato dei due volumi saran­no realizzati da Michel-Pierre Lerner e Alain Segon­ds, direttori di ricerche al Cnrs e conoscitori formi­dabili di storia dell’astronomia, per le Belles Lettres di Parigi. Uscirà anche, per la parte dei documenti originali, nell’aggiornamento all’edizione nazionale di Galileo curata da Paolo Galluzzi, direttore dell’Isti­tuto e Museo di storia della scienza di Firenze. Beretta confida: «Capire il processo di Galileo si­gnifica innanzitutto comprendere il funzionamento del tribunale dell’inquisizione in quel periodo del ’600. Osservarne i meccanismi attraverso il parago­ne con altri casi meno importanti, verificare i punti anomali, i margini utilizzati dai giudici per procede­re». E ancora: «Lo 'stile del tribunale' consisteva in una serie di dispositivi che non erano codificati co­me oggi. Il giudice poteva orientare il processo in un senso o nell’altro. Conoscerlo è indispensabile per interpretare correttamente i documenti». È il caso di pubblicarli ancora? Non disponiamo di tutto il materiale? A tali domande si può rispondere con un po’ di storia (la scriviamo con l’aiuto dei tre studiosi incontrati a Parigi). Sergio Pagano, prefetto dell’Archivio segreto vati­cano, ha pubblicato nel giugno 2009 una nuova edi­zione del processo, che riprende la sua del 1984 con altri documenti ritrovati. Nel 1998, grazie all’iniziati­va di Giovanni Paolo II per la «purificazione della memoria», fu aperto ufficialmente l’archivio della Congregazione per la dottrina della fede che conser­va le carte del tribunale romano del Sant’Uffizio (da non confondersi con l’Archivio segreto vaticano, quello del Papa, disponibile dal 1881). Il fascicolo degli atti galileiani, noti come «il volu­me del processo», faceva un tempo parte della colle­zione delle materie criminali dell’Archivio del San­t’Uffizio, che comprendeva alla fine dell’Antico Regi­me circa 4 mila tomi. Quando Napoleone decise nel 1809 di creare a Parigi l’Archivio centrale dell’Impe­ro, dove sarebbero confluiti quelli dei Paesi sotto­messi, iniziarono le operazioni di trasporto: al San­t’Uffizio toccò nella primavera del 1810. Il volume di Galileo fu spedito a parte, giacché Napoleone chiese personalmente alcuni documenti cruciali, quali il processo ai Templari, la bolla che lo scomunicava e, appunto, le carte sullo scienziato. Secondo l’inventa­rio di Parigi del 1813, oltre i 4 mila volumi di materie criminali, gli archivisti ne ricevettero altri 2 mila di incartamenti dottrinali o di giurisdizione dell’Inqui­sizione. Ve n’era poi un altro migliaio con decreti e lettere. Totale, circa 7 mila volumi. Caduto Napoleone, si cercò di riportare il tutto a Roma. Spuntano i nomi di Marino Marini e di Giulio Ginnasi, i quali, sentiti i superiori e visti i costi, deci­sero di buttar via i 4 mila volumi dei processi crimi­nali. Tra essi c’erano Bruno, Campanella e tutti i filo­sofi italiani che riprenderanno statura nell’Ottocen­to (di Bruno, infatti, conosciamo solo il sommario del processo — una cinquantina di carte delle origi­nali, probabilmente la copia appartenuta a un con­sultore — giacché l’insieme andò perduto e restano i soli documenti veneziani). Galileo, arrivando a par­te, finì tra le carte di uno dei ministri napoleonici, il conte Louis C. Blacas che, esiliato a Vienna, si porte­rà con sé il faldone. La vedova lo restituirà nel 1843 a Gregorio XVI; Pio IX lo consegnerà all’Archivio segre­to vaticano nel 1850, anno nel quale Marino Marini, nel frattempo giunto a quell’Archivio, pubblicò i pri­mi documenti del processo. Ma la sua fu opera par­ziale e apologetica. A questo punto cominciano le edizioni, anche se a rigor di termini le carte non sarebbero state visibili senza permesso fino al 1881. Nel 1867-69 escono quelle contrapposte di liberali e cattolici, poi arriva nel 1877 la «diplomatica» di Gebler; infine c’è Anto­nio Favaro, docente a Padova, che nell’ambito della «nazionale» galileiana (XIX volume) pubblica le car­te nel 1907 (la prima è del 1902, in fascicolo a parte). Offre il testo del processo e i decreti del Sant’Uffizio che gli furono trascritti dall’archivista. Nel 1984 ecco l’edizione Pagano: oltre le carte processuali (ripren­de Favaro) ripubblica il famoso G3, il documento re­so noto da Redondi nel 1983 in Galileo eretico (Ei­naudi) su cui si costruì la tesi non accolta dalla sto­riografia della condanna per ato­mismo. Pagano formulò l’ipotesi che il volume del processo non fosse l’incartamento originale, ma un sunto, un estratto realizza­to per l’Indice, al fine di giustifica­re l’inserimento del Dialogo tra i libri proibiti. Tutte le precedenti ricostruzioni del processo sareb­bero così state relativizzate, data l’incompletezza della documenta­zione. E qui arriva Beretta. Egli ha mo­s­trato, in una serie di studi, che questi documenti sono proprio quelli utilizzati da Urbano VIII il 16 giugno del 1633 per condannare Ga­lileo. Magari ce ne saranno stati altri, ma il Papa si pronunciò sulla base della documentazione a noi no­ta. Tre cardinali inquisitori erano assenti alla seduta di abiura, il 22 giugno, ma il fatto non ha l’importan­za che alcuni studiosi gli attribuiscono, perché il ver­detto l’aveva già pronunciato il Papa in persona, il 16 giugno, e il 22 non restava ai porporati che firmare la sentenza già stesa. Nel 1998, con l’apertura dell’Ar­chivio del Sant’Uffizio sono stati scoperti una trenti­na di nuovi documenti (per Beretta «non cambiano sostanzialmente il quadro del processo»). Pagano nella sua recente edizione li riprende insieme a quel­li del 1984, offrendo una nuova collazione degli origi­nali in cui, fra l’altro, convalida la tesi di Beretta sul­la natura dell’incartamento processuale. Dov’è la novità? Lo studioso italo-svizzero cerche­rà di dare l’insieme completo della documentazio­ne, e questo significa ripubblicare anche il dossier fiorentino che contiene un’altra parte del processo (Pagano offre solo la romana). A Firenze, per esem­pio, c’è la copia autentica della sentenza, perché l’ori­ginale era nel volume — delle sentenze, appunto— del 1633 disperso a Parigi. Beretta, Lerner e Segonds sottolineano che tali documenti sono noti, ma pub­blicandoli insieme cambiano l’immagine complessi­va, giacché non verranno dati per gruppi distinti, ma nell’ordine cronologico e in tal modo si potrà se­guire passo dopo passo lo sviluppo del processo. Ri­salteranno così anche le anomalie rispetto allo stile. Per esempio, si sa che il processo a Galileo scatta per la pubblicazione del Dialogo sopra i due massi­mi sistemi, ma questo libro — ricordano — «vide la luce con due imprimatur, ovvero con doppia appro­vazione ecclesiastica». Ora, seguendo lo svolgimen­to del processo appare chiaramente che manca nel­l’incartamento il manoscritto del Dialogo recante il doppio imprimatur, che nel 1630 fu consegnato da Galileo a Urbano VIII: sembra proprio che il pontefi­ce in persona su quell’originale, di suo pugno, abbia corretto il titolo. Nel 1632 il volume era a Firenze, lo stampatore non poteva azionare il torchio senza pla­cet , pena la prigione. Durante il processo, Galileo in­vocò per difendersi la concessione dell’imprimatur da parte del Maestro del Sacro Palazzo, Niccolò Ric­cardi, facendo anche allusione all’intervento del Pa­pa. Per proteggersi, Riccardi si era fatto mandare dal­l’inquisitore di Firenze il manoscritto incriminato nell’estate del 1632. In altri processi coevi, il testo ori­ginale è conservato nell’incartamento giudiziario per decidere se fosse colpevole delle cattive dottrine del libro l’autore o chi concesse l’approvazione. Ma il manoscritto del Dialogo sparì: si voleva celare che il permesso di stampa lo aveva dato il Maestro del Sacro Palazzo, consenziente il Papa. Galileo, che non fu torturato, il 22 giugno 1633 giurò in ginocchio — mano sui Vangeli — che il mo­vimento della Terra è contrario alla fede cristiana. Fece l’abiura davanti ai cardinali inquisitori. Riccar­di era presente fra i consultori, e il testo della senten­za è costruito per far cadere tutta la colpa sullo scien­ziato e liberare l’alto prelato dall’incubo di aver con­cesso quell’imprimatur." (da Armando Torno, Galileo, processo con il trucco, "Corriere della Sera", 13/10/'09)

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