lunedì 18 maggio 2009

Rosetta Loy: "Sa di polvere il mio lessico famigliare"


"«Attrazione e fastidio. Desiderio di stracciarlo, di buttarlo nel cestino, quel racconto. Dopo un po’ l’ho chiuso, non volevo proseguire con quelle pagine che mi facevano star male, che parlavano di fucili a canne mozze, mafia, clan, Sacra Corona Unita e “ciclo del cemento”. Poi l'ho ripreso, meraviglioso, straordinario, e ne ho apprezzato il finale per nulla enfatico ma capace di darti fiducia. E’ stato per me il libro più importante degli ultimi trent'anni. Mi ha tenuto sveglia per più di una notte». E così Rosetta Loy ha trovato la sua stele, il suo testo di riferimento. L’autore? Mister Gomorra, ovvero Roberto Saviano. Anche se non c’è niente di più lontano delle smitragliate di Casal di Principe dal Monferrato della Loy, scrittrice che con i romanzi - La bicicletta, Le strade di polvere, All'insaputa della notte - ha edificato un Eden un po' speciale, il «suo» Piemonte. [...] Il lessico famigliare dei Provera (cognome da signorina della Loy) è il protagonista di questa autobiografia tra il Concordato e l’attentato di via Rasella con cui la scrittrice prosegue sulla strada dell’intreccio tra storia intima e vicende con la maiuscola, già tracciata da Natalia Levi-Ginzburg che raccontava di fascisti e antifascisti visti dal salotto di casa sua, dove approdavano Eugenio Montale, Cesare Pavese, Vittorio Foa. Il suo rapporto con Natalia? «Lessico famigliare senza dubbio aveva una luce speciale. Appena uscito, nel 1963, è stato una rivelazione. Ma non mi identificavo con i Levi. Anzi li ho sempre un po' invidiati. Padre, madre, fratelli appartenevano a un contesto più intellettuale di quello in cui io sono vissuta. Di Natalia ammiravo l’estremo pudore, l’ironia, il riserbo con cui scriveva e affrontava la tragedia dell’uccisione di suo marito, Leone, per mano dei nazifascisti a via Tasso. E la scrittura semplice, quasi elementare». L’amicizia? «Successiva. Ero andata appositamente a Milano per incontrarla alla presentazione del Lessico. Una sorpresa l’aspetto severo e volutamente dimesso, con cappottino grigio e scarpotte tonde e basse, la disattenzione verso qualsiasi tipo di ricercatezza femminile. Le portai La bicicletta, non le piacque in un primo momento, poi cambiò idea». Bombe, biondi tedeschi sanguinanti, pareti crollate in questa Prima mano: sotto le incursioni della Raf nel rifugio di Viale di Villa Grazioli c’era qualche libro a farle compagnia? «No, solo la paura. In generale fin da piccola sono sempre stata una grande lettrice. Colpita dalla perdita dell’udito a un orecchio in seguito a una parotite, ero solitaria e piuttosto appartata. Era difficile, anzi impossibile dire a un ragazzino “scusa, parla più forte, non ci sento”. Per consolarmi mi rifugiavo tra i volumi che leggevo una decina di volte, come la favola di Perrault dedicata a Barbablù. Non per mia volontà ma perché negli scaffali non c’era molto altro. C’era, per esempio, Paul Bourget, amato da mia madre ma non adatto a noi ragazzi, o le interpretazioni della Rivoluzione francese e le biografie di Napoleone predilette da mio padre. Così, dopo la collana Scala d'oro che annoverava racconti di tutti i tipi, da Victor Hugo a Charles Dickens, è stato il momento di Delly e delle novelle per giovinette». A Mirabello, la mitica campagna? «Macché, la mia vita girava al contrario. A Roma io e i miei fratelli seguivamo un tabellino di marcia con orari molto rigidi. A Mirabello si potevano compiere lunghi tragitti in bici, stare all'aria aperta, correre nei campi. Qualcosa di molto diverso è accaduto dopo l’incontro con Giuseppe Loy, fratello del regista Nanni, e mio futuro marito». Cosa? «Giuseppe era laureato in legge e, per mantenersi, faceva il venditore rateale einaudiano. Il mio partner, destinato a scomparire assai giovane (a soli 53 anni), portò a casa mia una ventata di modernità: mi consigliava La casa dei doganieri oppure Ungaretti e Quasimodo. Su suggestione di mio padre, oltre Pascoli e Carducci non si andava. Era un uomo dell’800 con un grande senso dello Stato e anche del Piemonte. Tutto ciò che era piemontese era eccelso, tutto il resto un po’ meno. Sempre in competizione anche con Milano. Nessuno poi poteva tentare l’avventura della narrativa se non esibiva il talento di Alessandro Manzoni. E se eri di sesso femminile ... beh, le donne dovevano stare in casa a gestire il ménage. Tra una culla e un biberon, essendo una madre un po’ insofferente ..., con una mano facevo dondolare il passeggino di Benedetta e con l’altra tenevo in bilico il Dottor Zivago, Guerra e pace, Menzogna e sortilegio di Elsa Morante, Gli occhiali d'oro di Giorgio Bassani e così via. Scrivevo per me e facevo lavoro di traduzione. Ero molto interessata alla storia. Mi ero imbattuta nel Sergente nella neve di Mario Rigoni Stern, sulle sue orme ero pronta a ripercorrere l’odissea militare in Russia durante la Seconda guerra mondiale. Impresa ardua. E’ uno dei due inediti che ho nel cassetto. Successivamente mi si è spalancato il tunnel di una terribile depressione da cui mi hanno aiutato a uscire le cure mediche». Momenti di full immersion nella lettura? «Tanti. In particolare quelli trascorsi nella mia vita in comune con Cesare Garboli. Discussioni intellettuali in cui però non me la sentivo di fronteggiarlo. Era una personalità sorprendente, capace di furie spaventose che mi annichilivano, di grandi litigate - ne ricordo una con il critico Alfonso Berardinelli - e di riappacificazioni. Anche se Cesare non era proprio il tipo che andava facilmente a Canossa. Aveva un lato infantile, giocoso, che non nascondeva. Dipingendo per esempio la casa di Vado, vicino a Camaiore, diceva che ricreava gli stessi colori della cattedrale di Chartres e poco mancava che lui stesso ci credesse ...». Libri condivisi? «Da Alain Fournier a François-René Chateaubriand di cui si parlava a Parigi, camminando sotto il sole o la pioggia, sempre e comunque rigorosamente a piedi; a Nietzsche riscoperto in Engadina, a Sils Marie, sui sentieri già calpestati a suo tempo dal filosofo. Garboli era un grande comunicatore diretto e senza filtri. Un critico che, per esempio, poteva presentare un libro per farne una stroncatura in pubblico (è capitato con la Letteratura italiana in tre volumi diretta da Enzo Siciliano). Sandro d’Urso, commentandone l’immediatezza, diceva: “Non ha avuto un’educazione”. E si riferiva alla singolare formazione di Cesare tra le grandi disponibilità economiche del padre, facoltoso industriale, e le abitudini materne, una ragazza di un piccolo paese abruzzese che nella sua semplicità e spontaneità non gli aveva trasmesso il senso della mediazione». Altri personaggi che con lei hanno condiviso un mondo di libri? «Giulio Einaudi. L’immagine più forte che ho di lui è il nostro primo incontro. Stavo entrando in casa editrice in procinto di pubblicare La bicicletta e lo trovai seduto nella portineria. Era un uomo piuttosto attraente, fascinoso, e se ne stava lì, aspettando la macchina che doveva venirlo a prendere. Non so. Mi ha colpito. Dal primo momento all’ultimo: ci siamo visti poco prima della sua morte nell’appartamento romano dietro piazza Argentina per nulla sfarzoso né lussuoso. Il suo arredo? Volumi e ancora volumi. Che raccontavano di una vita dedicata ai libri»." (da Mirella Serri, Sa di polvere il mio lessico famigliare, "TuttoLibri", "La Stampa", 16/05/'09))

1 commento:

Anonimo ha detto...

quello che stavo cercando, grazie