mercoledì 27 maggio 2009

Le due donne che chiedono all’Africa di prendere il destino nelle sue mani


"Tra il 2002 e il 2008 l’Africa sub-sahariana ha conosciuto una nuova stagione di crescita trainata dal boom globale delle materie prime e dagli investimenti cinesi.
Si è chiuso così uno dei periodi più tormentati nella storia recente del Continente: una fase lunga tutta una generazione durante la quale la maggior parte dei Paesi della regione ha registrato un crollo del reddito pro capite, talvolta a livelli mai conosciuti sin dalla fine del colonialismo. Quest’inversione di tendenza segna l’apertura di nuove opportunità per gli africani; eppure, il clamoroso crollo dei prezzi delle materie prime registrato lo scorso anno per effetto della recessione globale indica quanto sia fragile il trend di ripresa. Né vi sono evidenti segnali di una svolta politica. Gli anni segnati da questa fase di crescita, infatti, hanno visto lo scoppio di una drammatica guerra nella Repubblica democratica del Congo che ha provocato oltre 5 milioni di vittime, un altro conflitto di minore entità ma altrettanto devastante nel Nord dell’Uganda, una catastrofe umanitaria in Darfur e la permanente tragedia dello Zimbabwe di Robert Mugabe.
In Occidente, le cause e i rimedi al mancato sviluppo dell’Africa sono stati dibattuti principalmente da osservatori maschi e di pelle bianca come Jeffrey Sachs e William Easterly, che si sono espressi rispettivamente a favore e contro una massiccia assistenza dall’estero. E il primo ha incassato il sostegno di celebrità come Bob Geldof, Bono e Angelina Jolie. È dunque utile e interessante scoprire le originali analisi di due donne africane: Wangari Maathai, del Kenya, e Dambisa Moyo, dello Zambia.
Le due autrici vengono da percorsi molto diversi. Wangari Maathai, che è stata parlamentare prima di perdere il seggio alle elezioni del 2007, ha ricevuto nel 2004 il premio Nobel per la Pace per l’attività di opposizione al regime dell’ex presidente keniano Daniel arap Moi, e per l’impegno a difesa dell’ambiente culminato con la fondazione del movimento di base «Green Belt» (cintura verde). È una donna chiaramente coraggiosa. Pur essendo di origini kikuyu, ha invocato a gran voce il riconteggio dei voti quando Mwai Kibaki, appartenente alla stessa etnia, ha tentato di accaparrarsi la vittoria alle presidenziali del 2007, innescando una sanguinosa escalation di violenza etnica. Dambisa Moyo, invece, ha lasciato lo Zambia per frequentare l’università negli Stati Uniti e, dopo essersi laureata a Oxford e ad Harvard, ha lavorato alla Banca mondiale e alla Goldman Sachs.
Si direbbe che anche i loro libri abbiano ben poco in comune. In The Challenge for Africa, Maathai traccia una lunga serie di conclusioni. L’autrice sostiene che non esista un compromesso naturale tra crescita economica e difesa dell’ambiente, e che i governi africani dovrebbero perseguire entrambe. Punta l’indice contro il colonialismo occidentale, colpevole di aver disprezzato l’identità e la cultura africana, ma rimprovera anche agli africani il pernicioso attaccamento a frammentarie «micro-nazioni». Critica la dipendenza dagli aiuti, ma non solleva forti obiezioni al programma Sachs-Bono per un significativo incremento dell’assistenza allo sviluppo da parte dell’Occidente. È convinta che il cambiamento dovrà scaturire dall’attivismo di base, e che gli africani debbano stringersi attorno alle proprie tradizioni.
Il libro di Moyo, Dead Aid, contiene al contrario un messaggio molto semplice: l’assistenza esterna allo sviluppo è alla radice del sottosviluppo dell’Africa e va rapidamente e completamente interrotta, se si vuole che il Continente progredisca. L’autrice si dice a favore dello sviluppo del settore privato, anche se di provenienza cinese, e inveisce contro il protezionismo agricolo nel Nord del mondo, che impedisce all’attività commerciale di diventare un motore di crescita. Non sorprende, dunque, che il suo libro si rivolga a un pubblico molto diverso da quello che ha premiato Maathai con il Nobel per la Pace. Si direbbe, anzi, che Maathai e Moyo siano votate a uno scontro polarizzato, simile a quello tra Sachs e Easterly, circa il giusto approccio allo sviluppo. In realtà, questi due libri hanno molti più elementi in comune di quanto le autrici siano disposte a riconoscere.
Entrambe ritengono che il problema di fondo dell’Africa sub-sahariana sia il malgoverno. Non esiste il concetto di bene pubblico; la politica è degenerata in una lotta per tenere in pugno lo Stato e qualsiasi bene esso controlli. Tutti i problemi della regione derivano da questa dinamica distruttiva. Le risorse naturali, si tratti di diamanti, petrolio o legname, si sono presto trasformate in una maledizione, perché esasperano la violenza della lotta politica. Etnicità e tribù, costrutti sociali di spesso dubbia origine storica, sono stati sfruttati dai leader politici nella loro rincorsa al potere. L’avvento della democrazia non ha modificato le mire della politica, ma semplicemente alterato il metodo di lotta. Solo così si può spiegare un fenomeno come la Nigeria, che ha incassato qualcosa come 300 miliardi di dollari in proventi petroliferi nell’arco di una generazione e tuttavia, durante lo stesso periodo, ha subìto un crollo del reddito pro capite. Il punto, dunque, è: se la cattiva politica è alla radice dei problemi di sviluppo dell’Africa, come si è arrivati a questa situazione? E in che modo la regione potrebbe evolvere in un’altra direzione? Su questo punto, ovviamente, le differenze tra le due autrici sono marcate. Dambisa Moyo non lesina prove a sostegno della sua articolata denuncia degli aiuti stranieri come causa del malgoverno. Fa notare che durante la Guerra Fredda si è prestato incondizionatamente aiuto a personaggi come Mobutu Sese Seko nello Zaire, che accompagnò la figlia alle nozze volando su un Concorde proprio mentre i donatori occidentali acconsentivano a rinegoziare un prestito. Non fosse stato per la continua disponibilità di prestiti agevolati, sostiene l’autrice, i Paesi africani sarebbero stati costretti a rimboccarsi le maniche e adeguarsi agli standard di governance internazionali per poter accedere ai mercati obbligazionari globali. È una tesi ricca di verità. In passato, l’assistenza dall’estero non ha fatto altro che alimentare la macchina clientelare e contribuito alla permanenza al potere di leader corrotti in Paesi come la Somalia e la Guinea Equatoriale. I governi africani, molti dei quali ricavano oltre il 50 per cento del loro bilancio nazionale dai donatori internazionali, sono tenuti a rendere conto non alle rispettive popolazioni, bensì a schiere di nazioni sovrapposte e contraddittorie. Ma la tesi — propugnata dalla stessa Moyo — per cui se non fosse per l’afflusso di aiuti internazionali, l’Africa vanterebbe un buon governo, è assai difficile da accettare, anche perché non opera alcun distinguo tra l’assistenza militare prestata allo Zaire durante la Guerra Fredda e i trattamenti anti-retrovirali distribuiti dal Fondo globale o dal Pepfar ( President’s emergency plan for Aids relief), il piano di emergenza contro l’Aids avviato dall’amministrazione Bush, cui non si fa praticamente cenno nel libro. In realtà, il business degli aiuti ha messo a frutto qualche lezione, soprattutto dopo la fine della Guerra fredda. Si firmano meno assegni in bianco ai dittatori, e si concentra l’attività di soccorso in settori come la sanità pubblica, ricavandone apprezzabili risultati.
Se, come suggerisce l’autrice, gli aiuti venissero bloccati, un’intera fetta di popolazione africana morirebbe prematuramente. Altri programmi, come il Millennium Challenge Account (Mca, Fondo per la sfida del millennio), creato dall’amministrazione Bush nel 2004, mirano alla lotta contro la corruzione. Potrebbero non essere sufficienti, ma non aggravano certo il problema di fondo.
Se il blocco degli aiuti stranieri non può essere una cura per l’Africa, il libro di Maathai, Challenge for Africa, propone un’alternativa migliore? L’attivismo di base può stimolare soluzioni locali ed esercitare pressioni sui governi affinché migliorino le loro performance. Ma la società civile funge in definitiva da complemento di istituzioni forti, non da loro surrogato. Verso la conclusione del libro, Maathai allude alla necessità di una leadership visionaria e di un nation-building dal centro, come fece Julius Nyerere quando riunì i numerosi gruppi etnici e linguistici della Tanzania grazie all’uso del Kiswahili come lingua nazionale.
Nel corso della Storia, tuttavia, i progetti di nation-building hanno spesso richiesto una medicina molto più forte di quella che la nostra autrice o la gran parte degli africani di oggigiorno sono disposti a prendere in esame, tra cui la variazione dei confini e l’inclusione, anche forzata, di «micro-nazioni» in un’unica e più grande entità. Se nessuno di questi libri propone soluzioni pienamente soddisfacenti, entrambi mettono almeno a fuoco il vero nocciolo del problema, ossia il livello di sviluppo politico della regione. In quest’ambito, le soluzioni dovranno nascere in seno alla regione stessa. Spostare il dibattito dai doveri del mondo verso l’Africa a quelli degli africani verso loro stessi è un buon primo passo." (da Francis Fukuyama, Le due donne che chiedono all’Africa di prendere il destino nelle sue mani, "Corriere della Sera", 24/05/'09; New York Times Syndicate traduzione di Enrico Del Sero)

1 commento:

Anonimo ha detto...

nice post. thanks.