mercoledì 28 luglio 2010

Troviamo le parole. Lettere 1948 - 1973


"Fu amore fin dall’inizio. Filtrato da parole lucide e oscure e da irriducibili silenzi. S’incontrarono a Vienna, nel maggio del 1948, Ingeborg Bachmann e Paul Celan, due fra i più grandi lirici di lingua tedesca del dopoguerra. Venivano da realtà opposte, ma dimoravano entrambi nella poesia.
Lei, studentessa ventiduenne in attesa di laurearsi su Heidegger; lui, il cui vero nome era Paul Antschel, più anziano di sei anni, figlio di ebrei tedeschi residenti a Czernowitz, capitale della Bucovina, trucidati in un lager dell’Ucraina nel 1942.
La giovane carinziana Ingeborg aveva preso da tempo le distanze dal mondo del padre e dalla comunità nazionalsocialista immergendosi nella scrittura come in una forma di emigrazione interna. Paul, fuggito dalla Romania viveva nella capitale austriaca in una sorta di vigile agonia, ai margini di un abisso popolato di fantasmi, di voci e volti della sua gente ebraica dissolta nel nulla. Per essa l’anno prima ha scritto in romeno Fuga della morte, uno struggente lamento sull’orrore della Shoah, un epicedio che gli darà fama imperitura.
Celan scorge in quella sensibile e intelligente provinciale che riflette su colpa e responsabilità come sul difficile destino della donna fra patriarcato e violenze della storia, la mediatrice di un possibile vincolo con le ragazze ebree scomparse: le varie Ruth, Miriam, Noemi che cita nella bella poesia In Egitto dedicata a Ingeborg qui definita «la straniera». Nell’amore per lei, che conosce la via del riscatto, egli crea un legame che risuscita l’alleanza fisica e spirituale con le revenantes della sua mente ossessionata dal dramma dell’Olocausto. In Egitto è il primo documento di uno scambio epistolare fra i due che l’editore Nottetempo pubblica ora con il titolo Troviamo le parole. Lettere 1948 - 1973 nella versione curata da Francesco Maione e integrata con i brevi carteggi fra Celan e Max Frisch, compagno della Bachmann verso la fine degli Anni Cinquanta, e fra quest’ultima e Gisèle Lestrange, moglie del poeta.
Quelle brevi settimane di tarda primavera segnano i loro destini nella comune riflessione sulla problematicità della scrittura dopo Auschwitz. Dai messaggi scambiati nei mesi successivi echeggia per un po’ l’impeto delle emozioni: lui l’aspetta a Parigi dove si è trasferito, «colmo di impazienza, d’amore», mentre lei lo trasfigura in seducenti visioni: «Per me tu vieni dall’India o da un paese ancora più remoto (...) per me tu sei il deserto e il mare e tutto quanto è mistero».
Ma ben presto si fanno strada un’inquietudine e un’incertezza devastanti.
Ingeborg ha un cuore matto, confuso: «Ti amo e mi rifiuto di amarti - confessa - questo è troppo ed è troppo difficile». Lui alterna ostinati silenzi e parole severe, borbottii ossessivi, ma anche esplosioni di felicità.
Riallacciando il loro rapporto nell’autunno del 1957, dopo anni di vuoto, Paul non ha esitazioni: «Tu sei il fondamento della vita - le confessa - anche perché sei e resti la giustificazione del mio Dire». Nulla sembra frapporsi al nuovo slancio amoroso: né il figlio o la moglie Gisèle («... è così coraggiosa», asserisce lui!) né le turbolenze della vita. E’ il «tempo secondo il cuore», scrive Celan, una stagione di nuove armonie che confluiscono in quel serrato dialogo sulla poesia, in cui tutto si amalga, parola e silenzio, scrittura e mutismo in una nuova, comune lettura del mondo.
Poi si accentuano i malintesi e le reciproche accuse che coinvolgono anche il nuovo compagno di Ingeborg, lo scrittore Max Frisch. Per di più Celan, accusato dalla vedova del poeta alsaziano Yvan Goll di aver plagiato il marito, è da tempo preda di crisi che lo rendono più fragile e aggressivo, si atteggia a vittima, vede riemergere i fantasmi dell’antisemitismo, scorge nemici ovunque perfino fra scrittori come Böll o Andersch. Non bastano le parole di Ingeborg ad arginare quel decadimento psichico che lo obbligherà a ricoveri forzati - e dalla clinica nel 1966 indirizzerà alla moglie il canzoniere Oscurato, ora in prima edizione italiana da Einaudi (a cura di Dario Borso) - fino a spingerlo al suicidio in una notte di aprile del 1970: «Da ignota, alta / marea corrosa /questa / vita».
Tuttavia Ingeborg trova nel dialogo con Paul, «testimone dell’Olocausto» e protagonista della sostanza più problematica della sua scrittura, un ancoraggio ai propri interrogativi sulla colpa storica di un paese e l’identità muta e annichilita della donna, la sua condizione di vittima e l’afasia di chi si sente cancellato. Ma le lettere ribadiscono altresì l’idea celaniana della poesia come soglia fra separati che finiscono per non incontrarsi mai.
C’è nel carteggio una lezione di poetica come la ritroviamo nei Microliti di Celan che Zandonai offre nell’ottima versione di Dario Borso, piccole schegge in prosa, aforismi ed epigrammi definiti dallo stesso autore «pietruzze appena percepibili, lapilli minuscoli nel tufo denso» dell’esistenza.
Qui si legge che i poeti sono gli ultimi custodi delle solitudini: come Ingeborg e Paul alla ricerca di una verità che scompagina le loro esistenze. Resta il segno
indelebile della scrittura, il loro dialogo in versi che dilaga nelle lettere in citazioni e richiami.
Perché la poesia è porosa, riconosce Celan in uno dei suoi aforismi, e la vita vi filtra dentro e fuori, imprevedibilmente bizzarra. Fino ad annullarsi, per ambedue: Paul cadavere nella Senna e lei che lo ricorda nel suo romanzo Malina: «La mia vita finisce, perché lui è annegato nel fiume durante la deportazione ...». Il suicidio dell’amato ha le stimmate di una storica tragedia che non trova pace, nemmeno nella poesia, loro ultimo rifugio." (da Luigi Forte, Ingeborg e Paul, l’amore sconvolto dall’Olocausto, "TuttoLibri", "La Stampa", 24/07/'10)

Dramma d'amore e di poesia (L'Espresso)

Bachmann - Celan, il tormento e il dolore di due poeti innamorati (La Repubblica)

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