venerdì 30 luglio 2010

Antonio Franchini: da Saviano allo Strega noi editori siamo solo piccoli rabdomanti


"Antonio Franchini - napoletano di 52 anni, editor della narrativa italiana della Mondadori - è "Il signore dello Strega". Ha vinto più premi lui di ogni altro editore. Fuori dagli ambienti editoriali il suo nome non vi dirà molto. Ma è lui che decide quali autori comprerete in libreria, quali romanzi vi porterete sulla spiaggia. Magari non saranno tutti i suoi e neppure necessariamente i più belli. Ma i suoi giudizi, le sue scelte fanno il mercato. Vado a trovarlo a Segrate, dove ha sede la Mondadori. Mi fa l'effetto di un uomo paziente e testardo, cauto e curioso, incline al ragionamento lungo e flessuoso. Mentre parla - con leggera inflessione napoletana - vengono in mente quelle lunghe maratone verbali in cui le frasi universalizzano i discorsi, volano nei cieli dell'anonimato. Da uomo prudente, Franchini non fa nomi, a meno di non esserne costretto: invoca la delicatezza del ruolo, il bisogno di non scendere in troppi dettagli, il diritto di salvaguardare i suoi autori, che poi sono tanti e che diventerebbero ingestibili, dove cominciasse il gioco delle preferenze. Ma in fondo non sono di fronte a lui per provocarlo, sono qui per capire come funziona la fabbrica dei successi che egli ha messo in piedi.
E subito salta agli occhi un anomalia. Questo signore che giudica e decide chi pubblicare è anche uno scrittore in proprio, bravo, anzi bravissimo. A me ad esempio sono piaciuti tantissimo Gladiatori, e la raccolta di racconti: Acqua, sudore, ghiaccio. Come convivono le due anime? «Senza conflitto. Ho un editore, Marsilio, per il quale scrivo e al quale non chiedo niente e poi ho il mio lavoro di editor che svolgo da trent'anni. Dal momento che sono un lettore di narrativa, nel poco tempo che mi resta mi dedico alla lettura dei testi sacri. Ho cominciato con i Vangeli e poi sono stato catturato dalle Upanishad e partendo da lì mi sono appassionato alla cultura indiana».
Il suo ultimo libro Signore delle lacrime ha come sfondo l'India. Non è diventato un luogo troppo facile da raccontare? «Per me è un pretesto, un modo per entrare dentro una materia complessa e remota, che ha a che vedere con il sacro. Penso che la parola del testo sacro sia un buon antidoto alla parola della narrativa. La quale è una parola leggera, che corre, che va, che ti porta lontano. Invece la parola del testo sacro è pesante, spesso incomprensibile a una prima lettura».
Perché se la assume? «C'è una dimensione dello studio che ha a che fare con il piacere che viene dallo sforzo. Amo la fatica, anche fisica, anche atletica, mi consente di raggiungere un equilibrio e una staticità che altrimenti non otterrei». So della sua passione per le arti marziali. «Sì, fanno parte del mio mondo, ma al tempo stesso allargano la mia esperienza».
Lei studia, scrive, cura il corpo. Sono attività compensative rispetto al suo lavoro principale? «È la ricerca di un equilibrio. Il punto di vista di un critico è molto diverso da quello di uno scrittore ed entrambi sono distanti da quello dell' editore. Sono dell'idea che, pur non confondendo i ruoli, occorra praticare le tre forme, distribuendo i pesi diversamente».
Come è nata la sua professione di editor? «Ero un giovane laureato in lettere. Risposi a un annuncio in cui cercavano persone da impiegare nel marketing editoriale. Feci un colloquio ma non venni preso. Nel frattempo da Napoli mi ero trasferito a Milano, dove avevo cominciato a lavorare in alcuni studi editoriali. Erano i primi anni Ottanta. Finii alla Reader's Digest. Mi occupavo di grandi opere: giardinaggio, cucina, storia divulgativa. Pensavo di mollare. Sentivo che non era ciò che mi interessava, il lavoro per il quale ero tagliato. Quello che non sapevo è che il lavoro alla Digest era molto apprezzato negli ambienti editoriali, per via della cura con cui venivano confezionati i libri. E quando si ripresentò l' occasione con la Mondadori, venni assunto».
Oggi in che consiste il suo lavoro di editor? «La professione si è complicata rispetto al passato. Se non altro perché è aumentata enormemente la quantità di dattiloscritti che ci arrivano. Un tempo la cura veniva affidata soprattutto a tre lettori esterni, diciamo tre giudizi, dopo i quali se il romanzo era ritenuto buono, passava a una lettura interna. È un sistema oggi insufficiente. Per questo mi servo anche di un gruppo di lavoro fatto di giovani che ha competenze redazionali e letterarie mostruose».
Basta per soddisfare la marea di romanzi che vi arrivano? «Naturalmente no. E non si può leggere tutto. Tra le poche cose che nell'editoria non sono cambiate c'è l' elemento rabdomantico. È fondamentale».
Le è successo di rifiutare romanzi che poi si sono rivelati libri di successo? «È normale che accada. Il mio lavoro provoca un alto tasso di dubbio e di sofferenza. Se sbaglio nella valutazione mi porto appresso il cruccio, mi chiedo dove ho commesso l'errore, dove non ho capito, dove non ha funzionato il giudizio».
Più che il tormento mi interessa capire cosa fa nel caso del dubbio. «In alcuni casi me lo trascino a lungo. Ho un grosso romanzo che tengo da anni sulla scrivania. Quando cominciai a leggerlo rimasi sbalordito. Aveva una delle aperture più belle che io abbia mai letto. Sembrava Melville. Senonché, dopo queste pagine iniziali, il romanzo si afflosciava, diventando insopportabile . Poi aveva un' altra impennata per ricadere immediatamente dopo in una prosa terrificante. Dovrei buttarlo, ma non ho il coraggio».
C'è sempre il lavoro di editing. «Sono tra quelli che ritengono che l'editing non può cambiare il destino di un libro. Lo può migliorare o, in taluni casi, perfino peggiorarlo. Ma non può dargli quello che il libro non ha».
Eppure ci sono casi di editing drastici: Susannah Clapp, editor di Chatwin, riduce quasi della metà In Patagonia e il libro a suo modo è perfetto. «Ma se è per questo anche il lavoro di Pound su Eliot - anche se Alcide Paolini disse che quello di Pound fu un atto criminale - oppure il lavoro di tagli di Gordon Lish su Carver si possono considerare importanti. Ma sono dei casi che nascono dai rari momenti di magia che si stabiliscono tra l'editor e l'autore. Generalmente un editing radicale rischia di sconfinare nella manipolazione».
Lei è noto anche per i titoli che dà ai romanzi che pubblica. Quanto incide un titolo nel successo di un romanzo? «Se è un titolo molto felice - come accadde con La solitudine dei numeri primi - conta, non c'è dubbio».
Anche Gomorra ha contato? «Su quel titolo c'erano molte perplessità, perché si diceva che non era di immediata decifrazione. Io lo difesi e ricordo che mettemmo un lungo sottotitolo che spiegava cos'era quel libro. Poi Gomorra è diventato un marchio. Un'altra caratteristica dell'editoria è il senno del poi».
E su un titolo come Canale Mussolini vi siete trovati tutti d'accordo? «Il titolo è di Pennacchi, a me è sembrato anche se forte molto buono. Ma ho registrato opinioni contrastanti. L'obiezione che veniva fatta era: la gente non comprerà mai un romanzo con "Mussolini" nel titolo. E invece quel romanzo ha vinto anche lo Strega».
Alla vigilia sembrava che non puntaste molto alla vittoria, che le polemiche attorno a una presunta dittatura della Mondadori sullo Strega vi sconsigliassero di vincerlo anche quest'anno. Insomma, come è andata? «Siamo partiti dicendo: vediamo quello che succede. Nella convinzione che il romanzo di Pennacchi fosse un gran bel libro, ho pensato che avrebbe potuto imporsi anche in virtù della sua forza letteraria». Intende dire che il peso della Mondadori è stato secondario? «Voglio dire che da qualche anno a questa parte non ci sono libri che partono favoriti. L'anno scorso vinse Scarpa per un punto su Scurati, quest'anno Pennacchi ha prevalso per quattro voti sul romanzo della Avallone. Il Premio Strega raccoglie molti consensi e scatena altrettante polemiche. È il segno di una grande vitalità».
Cambierebbe qualcosa? «È stato già modificato: ai tradizionali 400 votanti ne sono stati aggiunti 30 che sono irraggiungibili. È questo pacchetto di voti che è diventato determinante».
Se un suo romanzo fosse presentato allo Strega, concorrerebbe? «Le rispondo come Bartleby: "preferirei di no"». " (da Antonio Gnoli, Antonio Franchini: da Saviano allo Strega noi editori siamo solo piccoli rabdomanti, "La Repubblica", 29/07/'10)

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