mercoledì 1 ottobre 2008

Storie e leggende chassidiche di Martin Buber


"Nel lessico della Bibbia 'speranza' - tema conduttore degli incontri di Torino Spiritualità, ancora oggi e domani - è una parola molto accogliente. S'innesta infatti in una radice dal significato aperto, formata con tre consonanti dal suono via via sfuggente: Qwh inizia con una tonalità dura, decisa, ma finisce con una debole aspirazione. Da questa radice deriva una vasta gamma di parole: 'linea' (qaw) ma anche 'bacino', 'spazio di confluenza' (miqweh) e, chissà perché, persino 'speranza' (tiqwah). Nonostante il suono evasivo, questa radice di significati ha in fondo una connotazione molto concreta, quasi geografica. Non a caso, nella Bibbia ebraica la speranza è spesso richiamata con la metafora della porta. E, cosa a ben pensarci un poco strana, il libro che più insiste con questa parola è quello di Giobbe (dove persino l'albero 'ha speranza' - 14,7). Forse perché questo sentimento gioca da sempre a rimpiattino con lo scetticismo. E' insomma una specie di ambivalenza, quella della speranza: per un verso l'ebraico la innesta in una radice semantica che pertiene alla geometria piana, per l'altro essa si situa fuori da ogni perimetro - cioè a margine della fede. Perché, come dice la parola stessa, fede è certezza - non possibilità. Convinzione incrollabile, non attesa di un'eventualità. In fondo, per chi crede la speranza è un po' tabù: èun impulso al confine con l'eresia. E' anche, però, il trait d'union tra l'assoluto e l'arbitrario, irrinunciabile perché come scrive Martin Buber facendo parlare il Baalschem - fondatore del misticismo ebraico moderno -, 'chi sta in alto ha bisogno di chi sta in basso, ma anche viceversa'. Questo principio di mediazione fra cielo e terra informa tutta la narrazione chassidica, dove le storie si dipanano proprio per trovare una 'quadra' all'incolmabile distanza fra sotto e sopra, fra il Creatore e le sue creature. Ora questo magnifico corpus di leggende cui Martin Buber - il maggior pensatore della contemporaneità ebraica - lavorò lungo decenni, è disponibile al lettore italiano nella sua interezza: Storie e leggende chassidiche, a cura Andreina Lavagetto nei Meridiani. Sarà anche in virtù di questa natura un poco ibrida di luogo dove fede e tempo, certezza e dubbio, s'affrontano, se la speranza è un sentimento così umano. Così fuori da ogni schema, tanto che persino Woody Allen si concede il lusso di incastonarla fra i suoi possibili titoli: 'Speranza - un filo di speranza - speranza e oscurità - flebile speranza'. Proprio lui che è da sempre tanto affascinato dal caso, quella cosa imperscrutabile in virtù della quale 'un mediocre pusillanime di Brooklyn (cioè lui) sta arrivando a ritirare un premio più consono alla scoperta del radio, o quanto meno del Tupperware' (si trattava del Principe de Asturias, consegnatogli dal re di Spagna in persona ...). Di questo e di tanto altro discorre Woody Allen in Conversazioni su di me e tutto il resto insieme a Eric Lax. In questa summa del pensiero alleniano si troverà di tutto, ma soprattutto non solo ciò che ci si aspetta. Si scoprirà ad esempio che lui passa delle ore sotto la doccia a maturare idee. Che è un perfezionista quasi maniacale. Si troverà ovviamente una sua teoria dell'umorismo, che è improvvisazione solo all'apparenza. Far ridere, spiega, è una specie di salvezza: 'Ho sempre la sensazione di potermi cavare di impaccio con la comicità', ma è anche 'enormemente complicato'. Un po' come la speranza, insomma, anche la risata è il modico armamentario di cui l'uomo dispone per guardare alle cose più grandi di lui. Che sono tante. Narrare l'attesa e la speranza, magari con un sorriso, è una specie di salvezza che non offre certezze ma solo un temporaneo rifugio dall'ignoto. Le leggende dei chassidim si dipanano in questa raccolta di Buber e attraversano le generazioni nella consapevolezza che l'unico antidoto allo smarrimento sia la fiducia di un tempo a venire. E questa fiducia serve non solo ad aspettare, ma anche a costruire il presente. Rabbi Nachman, ad esempio, 'inizia a raccontare storie durante la drammatica estate del 1806, quando l'attivismo messianico, raggiunto il suo apice, trapassa rapidamente nella coscienza del fallimento'. Perché in fondo, 'il messianismo degli ebrei è sempre stato un volere l'impossibile', scrive Buber. Dal Talmud, gli fa eco quel maestro che un giorno disse, ma sottovoce: il messia non verrà mai, ma noi dobbiamo credere fermamente nella sua venuta, ogni giorno che passa di più. La speranza, mite impulso che non cova certezze ma soltanto desideri - non importa se ragionevoli o folli - è l'unico modo che abbiamo per non rassegnarci all'impossibile, per non alzar una muta bandiera bianca davanti al caso." (da Elena Loewenthal, Il Messia non verrà mai ma sperare salva dal caso, "TuttoLibri", "La Stampa", 27/09/'08)

Nessun commento: