martedì 30 settembre 2008

Lettere a Felician di Ingeborg Bachmann


"Una manciata di lettere scritte nell'arco di un anno dal maggio del 1945 allo stesso mese del 1946. Mio caro, mio amato, mio signore, amico lontano: così si rivolge Ingeborg Bachmann, la più grande scrittrice austriaca del dopoguerra, a un destinatario adorabile e misterioso. Un paio di volte lo chiama Felician, nome a cui sono dedicate due poesie dell'opera postuma. Forse si tratta di un enfatico scrittore locale, J. Friedrich Perkonig, che fu insegnante dalla giovane Ingeborg a Klagenfurt. Chi sia non ha importanza perché queste Lettere a Felician, pubblicate per la prima volta nel 1991, quasi vent'anni dopo la morte dell'autrice, sono in realtà un soliloquio mascherato, l'espressione di una sensibilità che la storia recente ha scacciato dal paradiso. Quel luogo mitico si chiama Carinzia, terra da cui 'pendono tutte le radici', angolo d'infanzia che poesie e prose degli anni a venire rievocheranno in sofferte, nostalgiche variazioni. Un luogo inquinato dalla violenza dei padri, un paesaggio che il nazismo ha oscurato e violentato. Ma nelle lettere la natura si afferma ancora con l'enfasi romantica dell'adolescente, mentre il mondo interiore dell'io femminile si ammanta di sogno e perfino la problematica adesione all'imperativo dell'arte assume cadenze religiose. C'è un empito di nostalgia e di attesa che richiama la voce della sposa del Cantico dei Cantici. Queste missive tradiscono in realtà l'urgenza di una vocazione e l'angoscia per il dissidio che essa alimenta. Come nel Tonio Kröger di Thomas Mann, il mondo della scrittura non si concilia con il fluire dell'esistenza. 'Ci sono due esseri in me, - scrive la diciannovenne Ingeborg -, l'uno non capisce l'altro. Temo quello che ama tanto la vita. Perché diventa troppo potente'. Come una vittima lei si sottomette a quella padrona severa che è l'arte. Ecco il vero nucleo delle Lettere a Felician (NotteTempo): la consapevolezza di una vocazione che può annichilire, unita alla 'paura di poter perdere la via, anzi di non trovarne nessuna'. Il vero destinatario è dunque quella letteratura sul cui altare tutto dovrà essere sacrificato. Uno spazio per tradizione maschile, il regno dei padri in cui l'io femminile vivrà, nelle pagine dei futuri romanzi, da Malina con l'agghiacciante capitolo onirico centrale, al Caso Franza e ai racconti del Trentesimo anno o di Tre sentieri per il lago, la propria scissione come luogo di sfida e ricerca impossibile di un'identità." (da Luigi Forte, La scrittrice che temeva la vita, "TuttoLibri", "La Stampa", 27/09/'08)

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