mercoledì 26 agosto 2009

Cose di Cosa Nostra


"Quando Giovanni Falcone saltò in aria con la moglie Francesca e con gli uomini della scorta, il 23 maggio 1992 alle 17.58, aveva già scritto il suo testamento. Tutto ciò che era e sarebbe in seguito servito nella lotta contro la mafia, condensato in un libro a quattro mani con la giornalista francese Marcelle Padovani, Cose di Cosa nostra, offerto al grande pubblico e non solo alla ristretta cerchia degli addetti ai lavori. Un testamento morale ma non moralistico. Non c’erano condanne e scomuniche, né pianti e invettive. Falcone non era tipo da impersonare il tribuno che punta il dito. Il miglior magistrato che l’Italia abbia mai avuto aveva inteso custodire e tramandare una chiave per capire la mafia. Perché era convinto che, per batterla, Cosa nostra andava prima compresa.
In quel 1992 si riusciva a intravedere tutto il peso dei poteri criminali, liberati dal controllo dei veti incrociati, dopo la caduta dei blocchi, e perciò invasivi e forti. Un anno che, non a caso, è andato ad arenarsi - qui in Italia - al Nord sulle indagini di Mani Pulite (la corruzione politica) e al Sud proprio sulle inchieste cominciate da Falcone e Borsellino, che per comodità chiamiamo stragismo mafioso, ma altro non sono che una Tangentopoli del Sud resa ancora più ripugnante dal sangue di vittime innocenti.
Era questo il clima che spinse Giovanni Falcone a scrivere il libro. Le polemiche scatenate da garantisti ipocriti e interessati, ma anche da colleghi magistrati invidiosi del successo del «giudice sceriffo», lo avevano costretto al «grande passo»: lasciare Palermo e accettare la proposta di Claudio Martelli, il ministro della Giustizia che lo volle con sé alla Direzione degli Affari Penali. Per Falcone fu una sorta di asilo politico, offerto da un partito che non era esattamente il suo, dato che il giudice l’ultima preferenza elettorale l’aveva accordata al Pci. E sarà, questa, la chiave per capire, forse, il senso delle difficoltà e delle incomprensioni frequenti con la sinistra di allora e persino con la star dell’epoca, il pm Antonio Di Pietro. Il libro non fu accolto entusiasticamente. Autorevoli commentatori lo stroncarono su giornali «amici» (Sandro Viola sulla Repubblica), mentre non molto tempo prima era stata L’Unità (per la penna del professor Pizzorusso) a spiegare ai lettori i motivi per cui Giovanni Falcone non era adatto al ruolo di Procuratore nazionale, in quanto «troppo vicino» al governo e, in particolare, ai socialisti.
Ma torniamo a Cose di Cosa nostra. Falcone si rendeva conto dell’importanza di mettere la lotta alla mafia al centro dell’attenzione generale. La sua posizione in via Arenula non gli garantiva grandi margini di manovra. Poteva contare sulla fiducia di Martelli, sull’amicizia senza limiti di Liliana Ferraro (poi divenuta sua vice) e sulla collaborazione generosa di Gianni De Gennaro. Non aveva, questo gruppo, altri grandi sponsor. Anzi. Sarà Falcone a dare di sé una definizione che la dice lunga. «Sono - scriverà nel suo libro - semplicemente un servitore dello Stato in terra infidelium».
Cose di Cosa nostra nacque nel 1991, mese di marzo. Falcone e Padovani ne parlano durante una cena alla «Tana de noantri», a Trastevere. Ricorda la giornalista: «Gli stavo dietro da mesi, ma lui sembrava non aver voglia di impegnarsi». Finché un giorno il magistrato le telefonò da Catania, dove era andato a testimoniare al processo per l’assassinio del procuratore Costa. E qui c’è un retroscena. Proprio quel giorno il magistrato comunicò che lasciava Palermo e a tre giornalisti affidò tutta la propria amarezza e la consapevolezza che sarebbe stato attaccato anche per quell’ultima scelta. Cosa che puntualmente avvenne quando fu additato come «venduto ai socialisti». Allora decise e chiamò Marcelle Padovani. «Ci siamo visti 22 volte, sempre a pranzo. Abbiamo fatto il giro delle trattorie romane, dopo un primo tentativo di vederci alla Stampa Estera in una stanzetta, per motivi di sicurezza, senza finestre».
Poi venne il momento di rivedere tutto il testo, che - essendo destinato a un editore d’Oltralpe, Edition Austral, del giovane (allora) Sacha Kutchoumov - era scritto in francese. «Ci demmo appuntamento a San Candido. Lui arrivò con Francesca e c’erano anche il cognato con la moglie. Giorno dopo giorno, continuò a “limare” il testo, sempre con l’intento di apparire il meno aggressivo possibile». Falcone andò in Alto Adige in auto. Ricorda Liliana Ferraro: «Con la sua non sarebbe mai arrivato lassù e allora chiese in prestito la mia. Feci di più, gli consegnai quella di mio cognato che era nuovissima. Dopo un paio di giorni mi telefonò per comunicarmi che “un gard-rail non si era voluto spostare” e così lo aveva preso in pieno».
Il libro uscì in Francia nel novembre del ‘91 col titolo: Cosa Nostra. Le juge et les hommes d’honneur. Il mese successivo Rizzoli lo pubblicò in Italia. Era un manuale contro la mafia, con tutti i temi ancora oggi dibattuti e irrisolti. Ecco come Falcone lo chiudeva: «Credo che Cosa nostra sia coinvolta in tutti gli avvenimenti importanti della vita siciliana, a cominciare dallo sbarco alleato in Sicilia. Non pretendo di avventurarmi in analisi politiche, ma non mi si vorrà far credere che alcuni gruppi politici non siano alleati a Cosa nostra - per evidente convergenza d’interessi - nel tentativo di condizionare la nostra democrazia, ancora immatura, eliminando personaggi scomodi per entrambi». Nel marzo del 1992 viene assassinato l’eurodeputato Salvo Lima, a maggio la strage di Capaci. Cose di Cosa nostra passa da settantamila copie vendute a più di un milione." (da Francesco La Licata, Falcone nella terra degli infedeli, "La Stampa", 26/08/'09)

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