mercoledì 9 febbraio 2011

Quel maestro del noir come necessità sociale


"«Il noir nasce quando il genere umano è spinto alla follia in un bar o nell'oscurità, descrive uomini e donne che la sorte ha spinto troppo in là, la cui vita si è contorta e deformata (...) Il noir esiste per far vedere agli uomini cos'è la vera disperazione: le piccole, buie stanze dell'esistenza dove ogni uscita è sbarrata». Derek Raymond annota questa riflessione una notte di settembre del 1989. Ha cinquantotto anni, e gli ultimi due li ha trascorsi scrivendo e riscrivendo ossessivamente Il mio nome era Dora Suarez, il capolavoro destinato a traghettare l'ormai maturo vagabondo, lo zingaro dai mille mestieri, l'anarchico irriducibile, verso il successo e la fama. Raymond ne è consapevole. Sa di aver raggiunto la vetta. E intuisce che, da qui in avanti, non potrà che iniziare la vertiginosa caduta. Nel suo buen retiro di Le Puech, a un tiro di schioppo da Montpellier, nel cuore dell'amata Francia, fra sbronze omeriche e tormentate relazioni sentimentali, si dedica alla stesura della sua autobiografia. La chiama Stanze nascoste: quelle dove si rifugia la parte più profonda di ognuno (Meridiano Zero). Lui prova a raccontarle, ma con un'avvertenza: nemmeno io so esattamente cosa c'è dentro.
Raymond (vero nome Robin Cook) nasce da famiglia di borghesi arricchiti. Affidato da una madre assente, eppure così amata, a uno stuolo di strafottenti fantesche, quando lo scoppio della Seconda guerra mondiale costringe la famiglia a un'inedita promiscuità sociale, scopre la miseria dei ghetti, il dolore, la meschinità dei poveri. Ne è turbato, ma anche affascinato. Rompe con il suo ambiente, gretto e conservatore: un altro ghetto, ma per ricchi. Destinato a Eton, molla tutto e fa perdere le sue tracce. Ha scelto definitivamente la Strada, la Madre di tutte le narrazioni possibili. Si arruola nell'esercito, gira l'Europa, conosce trafficanti e assassini, ama una puttana a Valencia, un'ubriacona nel Sussex e una poetessa esistenzialista a Chelsea. Le racconta, quarant'anni dopo, con l'ardore dell'amante e la saggezza olimpica di chi ha rinunciato a sputare sentenze. Nel frattempo alterna prove di scrittura a occupazioni precarie. A un certo punto diventa delinquente in prima persona: ramo falsi e frodi immobiliari (questo, se non altro, è ciò che ci racconta).
L'esperienza del Male lo avvicina al noir. E' una folgorazione. «Non avrei mai creato personaggi tormentati o malvagi nei miei libri se non avessi dovuto io stesso lottare contro il male». Scrivere diventa una terapia individuale: «sarebbe bastato un giro di vite e sarei potuto diventare un killer anch'io». Scrivere noir è però, nello stesso tempo, una necessità sociale. «Leggete i miei libri, parlano di cosa fanno gli individui ai propri simili», ammonisce. Ma non esiste devianza individuale che non sia la spia di una più complessa patologia sociale. Da qui la necessità del noir: finché il male esisterà, bisognerà conoscerlo e descriverlo. Per combatterlo. Alla faccia dei "boriosi": lui chiama così quei borghesi letterati e falsamente moralisti che nascondono il male sotto il tappeto buono. Il noir si incarica di sollevare questo tappeto: inutile nasconderlo, il male, perché è dentro di noi. Raymond lotterà contro costoro, a modo suo, sino alla morte, che lo coglie a poco più di sessant'anni: per troppo alcol, troppo amore, troppa vita, e, certo, troppo noir.
Stanze nascoste, più che un'autobiografia ragionata, è un testo complesso, a tratti caotico, nel quale si alternano squarci di vita vissuta, il ricordo struggente di amori perduti, l'evocazione degli autori amati (su tutti il sommo Shakespeare), il tentativo di fissare una sorta di "legge etica" del noir. Alla fine della lettura, emozionante, resta senza risposta una domanda: chi era veramente Derek Raymond? Non lo sapremo mai. Ogni volta che uno scrittore parla di sé, inevitabilmente mente. E tanto più si proclama onesto, tanto più sottile è la menzogna. Ma è questo che ci affascina, dopo tutto, in quelli che, per scelta, raccontano storie. Insieme ad altri scrittori italiani, incontrai Raymond al Mystfest di Cattolica. Un tizio piccolo, malvestito, perennemente ubriaco. In Francia era un autore di culto, a noi sembrava un bohémien un po¿ barbone e un pò schizzato. Comprendeva e parlava l'italiano, perché in Italia ci aveva vissuto, e qualche piccolo affaruccio criminale l'aveva impiantato anche da noi, ma faceva finta di niente. Non avevamo letto una riga dei suoi scritti, ma era piacevole starlo a sentire mentre bofonchiava aforismi buttando giù, uno dopo l'altro, gli sgroppini che facevamo a gara ad offrirgli. Qualcuno dubitava persino che fosse davvero uno scrittore, e non, per dire, un amabile vagabondo capitato lì per caso. Un giorno, gentile e vagamente distaccato, offrì una rosa a tutte le donne, signore e signorine, che incontrava. Poi, all'improvviso, scomparve. Era andato a rintanarsi, e questa volta per sempre, nelle sue stanze nascoste. Se lo cercate, è ancora lì. Con tutta la forza magnetica della sua scrittura unica e la sensualità della sua vita ambigua e disperata." (da Giancarlo De Cataldo, Quel maestro del noir come necessità sociale, "La Repubblica", 09/02/2011)

Nessun commento: