lunedì 14 febbraio 2011

Parola di scrittore


"Giornalisti vil razza dannata. Mai stato così vero. Anche perché stavolta a pronunciare il verdetto di autoaccusa sono gli stessi interessati. A impegnarsi nell’harakiri è però una particolare categoria della carta stampata ovvero quello speciale segmento che va sotto l’egida di scrittori-giornalisti. Una corvée da «scribacchino fesso» (così Carlo Emilio Gadda), «miserabile fatica quotidiana» (D’Annunzio), «secondo mestiere» (Eugenio Montale): tante le diffidenze per la scrittura più volatile.
Che però ha finito per catturare i più noti scrittori del secolo passato. E per far strage di adepti ai giorni nostri. Da Parise a Sciascia, Arbasino, Moravia per arrivare a Saviano, Magris, Ceronetti, Dacia Maraini, Piperno, Scurati e Camilleri, il fior fiore della nostra intellighenzia ha occupato e occupa la sua trincea di carta quotidiana. Guardandola sempre con un certo sospetto, a differenza di tanti autori che si sono sentiti arruolati speciali o combattenti per il quarto potere come Hemingway, Orwell, Capote.
Allora la domanda sorge spontanea: cosa li ha spinti a indossare l’elmetto e a scendere in campo per quel medium non sempre apprezzato? A porsi il quesito e a esplorare questo singolare e assai tormentato rapporto tra «Letteratura e giornalismo» è la raccolta di saggi a cura di Carlo Serafini, Parola di scrittore, in uscita da Bulzoni, che ripercorre la complicata storia del giornalismo d’autore fatta di attrazione e di repulsione fin dai primi approcci. «Mi sono recato a visitare ... la biblioteca per adulti», scrive un cronista all’inizio degli Anni Cinquanta che non si riferisce a scaffali erotici o pruriginosi bensì alla castigata collezione di tomi del Liceo scientifico di Alessandria.
E’ un giovanissimo reporter d’eccezione Umberto Eco che intervista il preside sulla collezione scolastica. Il romanziere di Il Cimitero di Praga pubblica i suoi primi articoletti su Gioventù, giornalino (si fa per dire) da 200 mila copie dell’Associazione dei giovani cattolici e, già da quell’epoca, il suo interesse è focalizzato sulle biblioteche. Non solo: Eco per più di quattro anni scarica in questa palestra di carta, odorosa di incenso e di confessionale, scintillanti interventi che vanno dall’abbordaggio del gentil sesso nei campi-scuola - sempre con tono molto casto e parrocchiale - alle recensioni di fumetti e letteratura di genere, a elogi del Medio Evo. Come dimostrano queste prime prove, il giornalista e saggista fin dagli esordi nutre gli stessi interessi del futuro narratore (ben lo spiega nel suo bell’intervento Luca Mastrantonio). Ma per uno che, come Eco, ha praticato quest’attività senza paraocchi o remore sin dall’età più verde, per tanti altri scrittori cimentarsi con la pagina più effimera assume i connotati di una ben diversa prova.
Basta andare a frugare nelle carte dell’inventore del giornalismo culturale italiano, il Duca minimo alias D’Annunzio, che ne parlava in termini di «miserabile» sforzo giornaliero. Però quando la socialista Anna Kuliscioff venne a sapere quanto gli erano state versate dal Corriere della Sera per un solo pezzo 5 mila lire, l’equivalente di quasi 20 mila euro, subì una specie di trauma. E non era a conoscenza che l’Immaginifico poteva pure contare sull’appoggio di Luigi Albertini, direttore del Corriere, per difenderlo dagli assalti dei debitori e delle amanti avidi di soldi.
Don Benedetto Croce, invece, si dichiarava scocciato dalle sue collaborazioni ancorché redditizie perché spesso sollecitavano polemiche e lui non amava rispondere a quei «mediocri dissidenti» dei suoi lettori. Anna Maria Ortese si autoraffigurava come vittima sacrificale sull’altare dell’indegno mestiere: con il suo taccuino in borsetta saliva e scendeva dai treni «barcollante di stanchezza» per conto dei suoi emissari di carta. Però ribadiva che suoi mandanti «erano i giornali di destra - che pagavano - e di sinistra o di piccola sinistra che elargivano pochi spiccioli». Guido Piovene, commentando la disponibilità degli scrittori verso questa attività «minore», sosteneva che era conseguenza della «povertà». Tommaso Landolfi concordava e il giornalismo lo chiamava «letteratura alimentare» anche se gli forniva i quattrini che lui sperperava al tavolo verde, la sua ossessione.
Eppure, nonostante il lato economico abbia sempre avuto la sua parte, ben altre sono le molle che spingono alle collaborazioni. Per D’Annunzio c’era il desiderio di ampliare il raggio di azione delle sue provocazioni e delle battaglie politiche ma anche (come sosteneva il contemporaneo Francesco Saverio Nitti) di «imporre la sua opera». E lo stesso si potrebbe dire persino di un narratore agli antipodi, lo schivo Landolfi: quando il direttore del Corriere della sera, Mario Missiroli, cominciò a cestinargli gli articoli, s’indignò: «Me ne stavo in pace sobrio e pudico Ella mi scovò e mi indusse ad accettare. Ora sembra, assurdamente che nulla Le stia bene».
Montale era solito sostenere che «il giornalismo sta alla letteratura come la riproduzione sta all’amore». Però poi quando si trattò di ostacolare l’approdo di Testori come collaboratore al Corriere si impegnò con tutte le sue forze. Le ragioni dell’opposizione? Non erano letterarie, spiega nel suo saggio Serafini riprendendo una testimonianza dello stesso Testori, ma originate dall’idiosincrasia del poeta per la non dissimulata omosessualità del narratore. A volte però gli scrittori si riconoscono una vera e propria passione per questa arte di seconda scelta: Goffredo Parise, straordinario reporter di guerra, sosteneva: «Viaggiare o è transfert o non è niente»; Alberto Moravia fidava in quei cani da guardia che consentivano agli intellettuali «di non tacere e di dire la verità».
Pasolini che pure tante energie impiegò in quel discusso «secondo mestiere», al contrario, riteneva che le corazzate di carta e i loro direttori spesso limitassero le libertà. Ecco come si rivolgeva a Piero Ottone al timone del Corriere: «Direttore con che animo hai la spudoratezza di ... parlare di libertà di stampa, quando ne fai mercimonio ... Sei una triviale e laida puttana». Però circa un anno dopo affidava i suoi scritti più corsari proprio a Ottone che li pubblicava in prima pagina. Ugualmente accanito contro chi dirigeva l'orchestra era l’anarchico Bianciardi: Aristerco, così ribattezzava Aristarco a capo di Cinema nuovo e sfidava a duello Luciano Barca, responsabile dell’Unità, che lo aveva messo alla porta per aver descritto Franco Ferri, direttore dell’Istituto Gramsci, fiore all'occhiello del Pci, come un perdigiorno sempre impegnato a giocare a biliardo.
Persino per Calvino, che tanto si dedicò al giornalismo, questo amore fu controverso. Nel 1960 mandò addirittura al macero le bozze di un suo reportage sugli Stati Uniti perché non lo convinceva e temeva potesse sollecitare diffidenze e resistenze. Ma alla fine lui stesso riconosceva che il bistrattato mestiere nascondeva in sé una fatale attrazione, era il vivificante rapporto con la vita di tutti giorni. Forse proprio per questo anche oggi va per la maggiore. Flaiano analogamente sosteneva: «I giornalisti? Chi ci salverà da questi cuochi della realtà?». Dimenticando però che anche lui trafficava con pentole e fornelli." (da Mirella Serri, Scrittore, dimmi perché fai il giornalista, "TuttoLibri", "La Stampa", 12/02/'11)

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