venerdì 25 febbraio 2011

La violetta del Prater


"Nel 1933, quello che venne poi chiamato, con metafora cinefila, il treno Vienna Berlino-Hollywood stava portando verso la capitale americana del cinema, in fuga dall'incalzante nazismo, gente come Billy Wilder (che, nel caso specifico, fece uno stop a Parigi) e come Fritz Lang, che da un giorno all'altro, di fronte all'invito di Goebbels di diventare il capo della cinematografia dell'Ufa, fece le valigie e partì. A Londra si ferma invece, lasciando a Vienna una moglie e una figlia, Friedrich Bergmann, un grande regista austriaco invitato, nell'invenzione romanzesca, a girare negli studios londinesi una scipita storiella d'amore tra una fioraia e un principe in incognito intitolata La violetta del Prater. Che è il titolo del romanzo "sul" cinema che Christopher Isherwood scrisse e pubblicò nel 1945, in memoria di quel tragico 1933 in cui il mondo cominciò a cadere verso l'abisso della seconda guerra mondiale. Ma Christopher Isherwood è Christopher Isherwood, trionfo della leggerezza, maestro dell'allusione, finto cronista di un reale possibile (che nel caso di questa storia è quasi vero e realmente vissuto) in cui lui, il narratore, a mo' del Nick Carraway di Il grande Gatsby, entra solo di profilo, con il garbo di un ragazzo di buona famiglia, di buona educazione e di buoni sentimenti, che non interferisce in quello che vede succedere sotto il suo naso. Lo stesso stile, umano e letterario, che aveva utilizzato nei racconti a cui deve la sua fama, quelli di Addio a Berlino, dove, di nuovo, Isherwood è il testimone, il voyeur, l'osservatore, l'amico convocato a risolvere patemi d'animo e guai anche drammatici. Ma mai al centro della scena, che lascia, nelle storie berlinesi, al grande imbroglione e modesto spione Mr. Norris e all'ormai mitica Sally Bowles destinata a grande popolarità, quarant'anni dopo, con Cabaret.
Come annota Giorgio Manganelli nella sua postfazione d'epoca, Isherwood è «un intenditore di fatuità, un esperto di sottise, un intenditore di chiacchiere». Ma allo stesso tempo è "affascinato dalla tragedia". E così La violetta del Prater (Adelphi) comincia come una cronaca frivola sulla lavorazione di un film che nessuno ha voglia di fare (chi sente il bisogno di un ennesimo musical su una ragazza povera, un principe in incognito e poi in esilio, e il trionfo dell'amore mitteleuropeo?) per cadere bruscamente, anche se con tutte le morbidezze di Isherwood, nella tragedia del nazismo. Ecco dunque che il giovane Isherwood, men che trentenne ma già esperto di cose tedesche, reduce da Berlino viene convocato con tipica urgenza cinematografica dal factotum di tale Chatsworth, produttore, che sogna di realizzare una Tosca interpretata dalla Garbo e scritta da Somerset Maugham, e invece ha per le mani solo La violetta del Prater, l'ancora inesperto Isherwood come sceneggiatore e Bergmann, il grande regista più o meno in esilio, che lavora ovviamente obtorto collo. Tra quello che viene descritto come "il Socrate ebreo" con una faccia da imperatore romano e il giovane apprendista sceneggiatore scoppia la simpatia, che consente loro di tirare avanti in questo progetto dissennato. E mentre (cito Manganelli) «in una lontana, apparente, feroce realtà accadono eventi atroci: la Germania nazista celebra il processo per l' incendio del Reichstag, in Austria la guerra civile distrugge le milizie operaie: si fucila, si impicca ... sta arrivando una guerra orrenda», alla periferia di Londra ci si gingilla con le ombre del cinema. E, rinunciando per una volta al suo tradizionale aplomb ironico, Isherwood, parla d'amore, del suo amore, del suo amore del momento, che si nasconde sotto la lettera J. E che, nel libro, curiosamente non ha genere - anche se sappiamo che le preferenze di Isherwood, come del suo amico del cuore e compagno nell'esilio americano W. H. Auden, erano omossessuali. C'è un improvviso scarto, un cambiamento di tono, dalla leggerezza al dramma, in queste ultime pagine di un libro fatto, apparentemente, di niente, ma che si allinea, con tutta la sua frivolezza e la sua precisione nel ritratto ambientale, a pesi massimi sul mondo del cinema come Gli ultimi fuochi, I disincantati, Il giorno della locusta. «Gli stabilimenti cinematografici di oggi non sono altro che una reggia del XVI secolo. Vi si vede ciò che vedeva Shakespeare: il potere assoluto del tiranno, i cortigiani, gli adulatori, i giullari, gli intriganti insidiosi, ambiziosi ... C'è la più folle dissipazione e la più gretta economia su questioni di pochi soldi ... Ci sono segreti che tutti conoscono e di cui nessuno parla...». Non basta? Lieve, ma vero. Per i curiosi: Bergmann si chiamava nella realtà Berthold Viertel, il film Little Friend, la casa produttrice era la British Gaumont. E l'androgino amore tale Heinz." (da Irene Bignardi, Film e tragedie, la dolce leggerezza di Isherwood, "La Repubblica", 19/02/'11)

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