venerdì 25 febbraio 2011

Dies Irae


"L'apocalisse del secolo ventunesimo è fredda, umida, battuta dal vento. Sagome umane, nel vuoto troppo vuoto di un orizzonte fumoso, sembrano non cercare né volere più alcunché. Forse l' inferno è proprio questo: un luogo dove tutto è già accaduto, irreparabilmente. Paolo Pellegrin resta in silenzio mentre sfoglio l' album dei suoi ultimi dieci anni di fotografo: il fotoreporter italiano oggi forse più apprezzato nel mondo. Non è convinto di queste impressioni: «Ci sono gli uomini, le donne, non è ancora finito tutto finché ci sono uomini e donne». È appena tornato dall'Egitto, dove ha fotografato la rivolta per Newsweek, e forse è questo che lo rende oggi più ottimista: «una cosa straordinaria, enorme, mi auguro che sia un inizio, ora vorrei andare in Iran e in tutti i luoghi dove possa raccontare fini di regimi e inizi di riscatto». Se tra quei ragazzi del Cairo è cominciata una nuova storia, forse ha fatto bene Pellegrin a buttarlo fuori proprio ora il primo ricapitolo del mondo che ha visto e fatto vedere negli ultimi dieci anni, che sono anche i primi dieci di un millennio. Forse si è liberato, così, del peso di un decennio spietato, il decennio del fuoco dal cielo. «Non è un' antologia di cose fatte, ho cercato un filo».
Non è un portfolio infatti,è una visione del mondo. Non voleva neppure metterci le didascalie, la divisione in capitoli. Dies Irae, il titolo gliel'ha suggerito Roberto Koch, fotografo ed editore di Contrasto, e lui l'ha accettato dopo un'esitazione. Perché Paolo Pellegrin si sente, è un umanista, e il solvet saeculum in favilla del pianeta non gliè piaciuto proprio raccontarlo così; ma è anche un fotografo, e sa che era suo dovere farlo. Romano, quarantasei anni, figlio di architetti, padre da poco più di un anno, asceso all'olimpo dell'agenzia Magnum nel 2001 dopo una lunga esperienza con i francesi di Vu. Era l'anno delle Torri Gemelle, e da allora è partito all' inseguimento di tutti i frammenti di Armageddon, di tutti gli acconti di apocalisse offerti dalla cronaca alla storia: Iran, Katrina, Libano, Tsunami, Gaza, Haiti, Cambogia, Kosovo... Fosse nato una o due generazioni prima, Pellegrin sarebbe stato un «fotografo di guerra» come Capa, come Griffiths, come Burrows, come McCullin. Non ne esistono più, perché non esistono più le guerre. Quelle che si chiamano ancora così, per inerzia, sono piuttosto le catastrofi locali di uno stato di entropia politica globale. Naturali o antropiche, è perfino difficile distinguere una catastrofe dall'altra, quando ci si arriva dentro, tanto lo scenario è sempre lo stesso: deserto freddo, disperazione, polvere, corpi, fango, esseri umani che erano vittime prima e lo sono ancora di più dopo. Pochissime le uniformi regolari in queste immagini. Anche là dove si combatte con le pallottole «il fronte non c'è, la prima linea non c' è, lo spazio è caotico, il pericolo è ovunque e in nessun posto». È un missile che ti esplode a pochi metri dal viso mentre fotografi la scena di un attentato: gli è capitato anche questo, a Tiro, Libano del sud: è fuggito, è tornato indietro, ha fotografato, tanto che senso ha correre lontano, lontano da dove, da cosa? «Tornai indietro senza sapere cosa dovevo fare, solo perché non accettavo di scappare senza aver dato un senso».
Pellegrin è un fotografo dell'era dell'incertezza. La fiducia in sé che possedeva la fotografia concerned del secolo scorso è svanita. Pellegrin non fotografa straight, diretto, geometrico come CartierBresson. Non va in cerca della bellezza perduta come Salgado che corre in direzione opposta alla sua risalendo le Scritture fino alla Genesi. Ha imparato qualcosa sul modo di raccontare dai suoi maestri, il Koudelka di Caos, il Peress di Telex Iran: le sue inquadrature si sbilanciano, tremano come sotto l'impatto di una granata, il fuoco si sfuoca, l'orizzonte si piega; il fotografo fotografa il proprio limite, la propria incapacità di capire tutto, «l' unica cosa che riesci a controllare è la tua disponibilità a metterti in gioco», accetta di essere un testimone debole, un raccoglitore dei reperti tra le macerie degli eventi, che offre ai lettori così come li ha trovati, prelevati, rimessi in qualche forma, così come li ha confusamente capiti, chiedendo aiuto a loro per capirne di più. Ma non sprofonda nell'abisso come il comandante Kurtz di Cuore di tenebra, non cede all'orrore, non diventa «amico dell'orrore». Pellegrin legge e ama il McCarthy di La strada, romanzo apocalittico ma illuminato da un lampo di speranza proprio nelle ultime righe. «C'è sempre da qualche parte un desiderio di sopravvivere, una volontà di riscatto. La pietra d'angolo a cui m' appoggio è raccontare gli uomini. Dovunque sia andato, ho spesso incontrato simultaneamente la faccia peggiore e la faccia migliore degli uomini». In particolare, nel volto delle donne. Che non combattono: ma sono il campo di combattimento, come i loro corpi, i loro gesti, le loro lacrime mostrano all' obiettivo. Sorrette da altre donne, o sole in strade troppo deserte, circondate dal vuoto, lo sguardo in quel vuoto, come temendo nuove e ancora peggiori catastrofi: quantus tremor est futurus ... È l'interminabile «giorno dell'ira», giudizio universale affollato di dannati ma senza ultimo giudice. Capa, stanco di esplosioni, sognava di essere «un fotografo di guerra disoccupato». Pellegrin ha chiuso un Dies Irae lungo dieci anni fra due copertine, sognando forse di diventare un Tommaso da Celano disoccupato. In piazza Tahrir spera di aver trovato l'incipit di un altro, diverso libro." (da Michele Smargiassi, I dieci anni dell'Apocalisse, "La Repubblica", 20/02/'11)

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