mercoledì 14 aprile 2010

Postmodern impegno


"Ecco un titolo che fa discutere: Postmodern Impegno (sottotitolo: Ethics and Committment in Contemporary Italian Culture, a cura di Pierpaolo Antonello e Florian Mussgnug, ed. Peter Lang). La formula «impegno postmoderno» per molti lettori equivale a una contraddizione in termini. Lettori italiani, è il caso di precisare; non è un caso che questo libro provenga da studiosi che lavorano in paesi anglosassoni.
Soprattutto da noi l’etichetta «postmoderno» ha equivalso - per critici come Carla Benedetti, Alfonso Berardinelli e Romano Luperini, per esempio, ciascuno con accenti diversi - a «disimpegno»: compiaciuta impoliticità, relativismo morale, irresponsabilità individualistica. Ancora di recente, autori certo non ingenui hanno potuto rivendicare il «non cedere alla fatuità della politica» (Alessandro Piperno sul Corriere della Sera) o il privilegio dell’«idiozia» (Emanuele Trevi sul Manifesto). Ancorché presentate come esercizi di resistenza, da tempo queste posizioni sono in realtà senso comune.
Altrove, invece, autori postmoderni hanno potuto scrivere capolavori «politici» come I versi satanici (Salman Rushdie, 1989), Vineland (Thomas Pynchon, 1990) o La freccia del tempo (Martin Amis, 1991); e un archetipo del postmodernismo cinematografico, Arancia meccanica di Stanley Kubrick (1971), è un esempio di apologo squisitamente politico realizzato in modi radicalmente diversi da quelli cui ci ha abituato la modernità. Ma sono del resto opere «politiche» anche quelle dei nostri maggiori narratori formatisi nella postmodernità: Antonio Tabucchi, Franco Cordelli e Walter Siti.
Non c’è dubbio che siano da tempo radicalmente mutate condizioni e caratteristiche dell’impegno: di contro alla progettualità totalizzante del modernismo, lo scrittore postmoderno può ancora «dire la sua» ma in termini contingenti, congiunturali, «locali» (penso a un notevole libro recente come Questo è il paese che non amo di Antonio Pascale). Col postmodernismo molto più che in passato, poi, il lettore è chiamato a partecipare in prima persona. Le opere più notevoli si presentano ambigue, contraddittorie, sfaccettate: esigendo, da chi le fa sue, una collaborazione tendenziosa. Esemplare un libro del 2006 come L’oca al passo di Tabucchi (ne parla, in Postmodern Impegno, Monica Jansen): che raccoglie gli articoli politicamente più urticanti dell’autore in una struttura ludico-combinatoria aperta alla «cooperazione» del lettore.
Sarebbero molti gli spunti interessanti, ma la maggior parte dei saggi convergono su una nuova e paradossale centralità dell’autore: il suo corpo è sede per eccellenza contingente, congiunturale e locale del discorso. Tre figure emergono come esemplari: Nanni Moretti (un formidabile fotogramma da Palombella rossa figura in copertina) per il cinema, Marco Paolini per il teatro, Roberto Saviano per la letteratura: autori che «ci mettono la faccia», sono personalmente coinvolti nelle vicende che raccontano. È molto più vero oggi che al suo tempo, insomma, lo slogan per cui «il personale è politico».
Alla fine del 2008 Rolling Stone eleggeva Saviano a «rockstar dell’anno»: la copertina documenta la consapevolezza con la quale l’autore di Gomorra deve costruire la propria immagine (come salvaguardia della sua persona fisica e insieme della sua credibilità); ma è anche, scrive Raffaello Palumbo Mosca, un monito sul pericolo che «la stessa persona-autore diventi parte del meccanismo derealizzante innescato dallo show-business». Nel 2002, invece, Dino Risi fece su Moretti una battuta che estasiò i filistei: «Spostati, fatti in là che devo vedere il film». Non capendo che la presenza fisica del non-attore Moretti è parte integrante del senso dei suoi film: un’idiosincrasia spinta sino all’isteria che porta all’estremo (e insieme ironicamente demistifica) la «politicità» del suo soggettivismo (e infatti convincono meno film, come Il caimano, dove essa perde centralità o spessore).
Una matrice comune, per tutti questi autori-tendenza, è il corpo per eccellenza dell’arte italiana al trapasso tra modernità e post, l’Ultra-Corpo di Pier Paolo Pasolini. Un altro luogo comune della critica vuole che il postmodernismo italiano discenda da Calvino, ma è stato Pasolini a sperimentare per primo questa nuova centralità «politica» del corpo autoriale: e lui infatti viene parafrasato tanto da Saviano quanto da Tabucchi, omaggiato da Paolini, liturgicamente celebrato da Moretti (col pellegrinaggio in Vespa di Caro diario). È stata di nuovo richiesta in questi giorni la riapertura del «caso» giudiziario, per la tragica notte di Ostia, da parte di Carla Benedetti: la quale non si rende conto di adottare la stessa retorica «giudiziaria» dei noiristi che ha in uggia. Come ha scritto su queste pagine Marco Belpoliti, sarebbe ora di superare il «complesso Pasolini», cioè l’esigenza politicamente paralizzante di trattarlo come se fosse vivo e presente, anziché morto da 35 anni. Si facciano, nelle sedi deputate, tutti gli accertamenti necessari; ma è davvero giunta l’ora che la nostra cultura elabori il suo lutto. Sarebbe il primo passo per raccogliere davvero - in modo finalmente non feticistico - un’eredità che sempre più ci appare decisiva." (da Andrea Cortellessa, Postmoderni d'Italia, quelli che ci mettono la faccia, "La Stampa", 14/04/'10)

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