giovedì 3 aprile 2008

Cesare Segre, i piaceri di un critico e le occasioni mancate


"'Con quale stato d'animo festeggio gli ottant'anni?'. Cesare Segre sfodera uno dei suoi sorrisi trattenuti, lo sguardo acceso da improvvisi lampi d'ironia. 'Se anche avessi motivi di soddisfazione personale, questi sentimenti sarebbero vanificati dal quadro politico e morale così doloroso'. Per lui vale la definizione di philologus in aeternum, cercatore di 'verità' nei testi ma anche nella storia, in letteratura e nella vita civile, troppo curioso per rimanere prigioniero di una torre d'avorio, tra schede e varianti, autografi e apografi, copie manoscritte e a stampa (Per curiosità è anche il titolo di una testimonianza sutobiografica scritta per Einaudi una decina di anni fa). Sul tavolo basso del salone sono affiancati casualmente un classico di Auerbach e un recente saggio di Gherardo Colombo sulle regole, due libri molto diversi che però ne riflettono alcune coordinate esistenziali. 'Nato sotto il fascismo, speravo di vedere un'Italia libera e più giusta. Un paese disinfestato dalle mafie e sullo stesso piano delle democrazie europee. Non potevo certo prevedere un tale declino degli ideali illuministi e laici'. E' un maestro riconosciuto dalla scena accademica internazionale, artefice di importanti edizioni critiche di Ariosto e della Chanson de Roland, conoscitore di lingue antiche, alfiere dello strutturalismo in Italia, critico letterario di vasti interessi, allievo prediletto di Benvenuto Terracini e Gianfranco Contini, 'figlio adottivo' di personaggi eterogenei come Raffaele Mattioli e Roman Jakobson, dominus per quattro decenni all'Università di Pavia, ma è come se in fondo agisse un'inquietudine mai placata, un dolore antico che non passa. 'Mi illudevo che il ventennio nero fosse definitivamente liquidato. Anche l'antisemitismo, in forme più o meno travestite, è ancora all'ordine del giorno. D'altronde in Italia, sede di quattro campi di concentramento e uno di eliminazione, qualcuno ha mai chiesto scusa?'. E allora occorre tornare indietro, ripartire da una famiglia piemontese di Saluzzo spezzata in due dalle leggi del 1938, da un ragazzo ebreo che nei giorni più bui della guerra, incalzato dalle leggi razziali della Rsi, trova rifugio in un convento salesiano ad Avigliana, all'inizio della Val di susa, dove traduce avidamente dall'Edipo re alla Vida es sueno, dalle poesie di Heine al Faust e all'Amleto, ma scopre anche cos'è la paura. 'A quindici anni ho provato cosa significa vivere con l'orecchio teso a cogliere il passo degli stivaloni tedschi. Ho vissuto come qualunque animale, la fuga davanti al cacciatore'. Poi il viaggio di ritorno a Saluzzo, e la scoperta d'aver perso molti famigliari ad Auschwitz. 'Ripenso ancora alle infinte volte in cui ho rischiato di finire in un campo di concentramento. Mi è rimasta addosso l'impressione di essere stato anch'io rinchiuso in un vagone piombato, di essere sceso nel lager tra urla e spintoni, di aver attraversato il fatidico cancello'. In quei luoghi nel dopoguerra non è mai voluto andare, per timore di una ricostruzione finta e teatralizzata. Ma se gli si domanda cosa sogna oggi, risponde d'impeto: 'Io sogno Auschwitz'. Ancora viva è la traccia di quel suo vissuto, 'sono sempre diffidente, mi apro all'amicizia con le persone solo dopo averne considerato il merito'. Anche nella carriera accademica, pur molto brillante - in cattedra poco più che trentenne - non ha mai smesso di chiedersi se difficoltà e ostacoli fossero dovuti a motivi personali o a ragioni politico-religiose. 'Sono persuaso che l'antisemitismo abbia pesato, anche s ein molti sono pronti a negarlo'. Studioso 'anarchico' per colpa degli eventi, lettore e traduttore onnivoro, dell'autodidatta dice di conservare qualità e difetti. 'Dai maestri ho poi imparato il metodo, ma da quella mia prima formazione disordinata ho attinto il paicere della ricerca, il seguire percorsi non prestabiliti, nemico della specializzazione eppure sempre più specialista'. Nel suo alvoro ha sempre cercato il plaisir du texte, ed è la chiave che ne spiega la 'bigamia' tra la disciplina filologica e la semiotica, la critica letteraria esercitata secondo passione e curiosità. [...]" (da Simonetta Fiori, I piaceri di un critico e le occasioni mancate, "La Repubblica", 03/04/'08)

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