mercoledì 21 marzo 2012

Il maestro del Giudizio universale


"Due colpi di pistola e il lettore è risucchiato in una girandola di eventi che sconfinano in deliri e fatali ossessioni. E’ inevitabile in un thriller come Il maestro del Giudizio Universale del grande Leo Perutz, uscito in Italia quasi trent’anni fa presso Neri Pozza e che Adelphi propone ora nella scorrevole versione di Margherita Belardetti.

Lo scrittore, che Ian Fleming, il padre di James Bond, definì un genio, lo pubblicò nel 1923 con enorme successo. Borges non esitò a inserirlo nella sua collana dei più importanti romanzi gialli del ‘900. Un genere che Perutz, nato a Praga l’anno prima di Kafka nel 1882, adattò mirabilmente all’atmosfera della Mitteleuropea percorsa da inquietudini e visionarietà ebraica. Le sue pagine - in romanzi come Il mistero dell’albero di mango, Il marchese di Bolibar, Dalle nove alle nove - lievitano dalla tradizione di E. Th. Hoffmann e dal clima irreale che percorre le contrade di Boemia, ma sono anche puzzle assemblati da una perfetta razionalità ribaltata in totale illusione.

In effetti Perutz, definito «il risultato di una scappatella di Franz Kafka con Agatha Christie», fu un matematico di talento, una mente loica che, memore dei fantasmi del ghetto praghese, disseminava dubbi sull’identità dei suoi personaggi e il loro fantasmatico milieu. A cominciare dallo stesso protagonista del Maestro del Giudizio Universale, il barone von Yosch che già nella prefazione ricostruisce fatti inattendibili. Certo, quei colpi di pistola hanno segnato la fine dell’attore di corte Eugen Bischoff: il suo cadavere nel padiglione del giardino è una prova irrefutabile. Ma chi lo ha ucciso? Non certo Yosch, sostiene l’ingegnere Solgrub contro l’opinione dell’amico Felix. Potrebbe, anzi, trattarsi di un suicidio. Bischoff attraversava infatti un periodo difficile: era insoddisfatto delle proprie interpretazioni e aveva problemi con il direttore del teatro. Tuttavia il mistero s’infittisce. La sua morte sembra ricalcata su quella di un giovane ufficiale di cui lui stesso, poco prima, presenti la moglie Dina e il cognato Felix, aveva raccontato ad alcuni amici: Yosch, il dottor Gorski, il giovane ingegnere Solgrub. Poi si era chiuso nel padiglione in giardino da cui all’improvviso si udirono urla terribili.

Alla sua morte ne seguiranno presto altre, fra i vicoli e i palazzi di Vienna, dove s’annidano paure e sensi di colpa che esondano in immagini oniriche, in richiami grotteschi, con strane e inquietanti figure come quella dell’usuraio e collezionista d’arte Gabriel Albarachy o della giovane farmacista Leopoldine non disposta «ad aspettare più a lungo il Giudizio Universale» e presto vittima di una forza oscura. A Solgrub tocca il ruolo del detective il suo intuito obbedisce al gioco di Perutz che depista e prolunga i tempi del suspense. Forse l’assassino esiste, è enorme, mostruoso, un’icona terrificante. Potrebbe essere italiano, e chissà che non si nasconda in un libro o magari in una formula. Solgrub lo appurerà a sue spese: l’esperimento è talmente spaventoso da causargli un colpo apoplettico. Prima di morire riesce però a distruggere ciò che uccide e che per poco non ha coinvolto lo stesso Yosch.

L’itinerario ossessivo dei personaggi è miscelato da Perutz con gli ingredienti di una letteratura di consumo che accende però la miccia dell’immaginazione e riesuma ombre nate dal sonno della ragione. Imprevedibili sono i suoi percorsi: fino ad un enorme volume in-folio zeppo di carte geografiche, fino alla relazione di Pompeo dei Bene, organista fiorentino del primo Cinquecento, sul pittore Giovansimone Chigi, noto come Maestro del Giudizio universale. Là si cela il mistero che è poi l’azzardo della fantasia che sfida ogni paura pur di creare. Magari anche come fa Yosch, che per rimuovere le proprie responsabilità si lancia in un racconto immaginario: verso una visione, un barlume folgorante capace di riscattare, anche solo per un attimo, una vita macchiata dalla colpa ..." (da Luigi Forte, Perutz, chi ha ucciso a Vienna l'attore di corte?, "La Stampa", 17/03/'12)

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