martedì 27 marzo 2012

Anche stasera. Come l'opera ti cambia la vita


"In Italia 686. In Francia 147. In Ispagna soltanto 6, ma in Svizzera son già 43. Totale generale, ad oggi: 1100. Prosegua così e il suo catalogo supererà presto quello di Don Giovanni. No, non esiste una terapia per la sindrome di cui si soffre, lui lo sa bene ed è lietissimo di rimanere un portatore sano di mal di lirica.

Anche stasera. Come l’opera ti cambia la vita - in uscita per Mondadori (sarà presentato il 3 aprile a Milano al Bookshop della Scala e il 4 aprile al Piccolo Regio di Torino, con il direttore della Stampa Mario Calabresi e il Sovrintendente del Regio Walter Vergnano), è l’autobiografia di Alberto Mattioli come spettatore d’opera, attività che svolge da quando è nato. Quarantré anni, professione principale «operoinomane», poi anche giornalista e inviato di questo giornale a Parigi, l’autore ha uno scopo preciso: egli è un untore, vuole estendere il virus quanto più è possibile.

«Di tutte le seccature inventate dall’uomo, l’opera è la più costosa», diceva Molière. Eppure, giunta ormai al suo quinto secolo di esistenza, questa seccatura nata in Italia agli inizi del Seicento è una forma d’arte ancora in fase di espansione geografica; nessun continente è immune dal made in Italy globalmente più diffuso: si cantano le opere italiane a New York e a Pechino, a Buenos Aires e a San Pietroburgo. E quando il direttore è in forma, l’orchestra reattiva, i cantanti in parte, e il regista coglie nel seno – circostanze che raramente si verificano tutte assieme – allora il piacere può essere sublime, mentre accade lì davanti a te che guardi, ascolti, ti commuovi e credi che tutto diventi possibile, perfino che un soprano muoia cantando. Anche se il signore accanto sta scartando con infinita lentezza una caramella, anche se la giovane coppia «glamour» seduta lì e capitata chissà come alla prima della Scala, scopre con terrore in quel momento che Tristano e Isotta è cantato in tedesco, dura quattro ore, ma loro non potranno fuggire.

Le pagine di costume e di satira rivelano un tratto narrativo affilato e veloce che candida Mattioli ad ereditare lo scettro di Alberto Arbasino. Anche questo suo viaggio inizia in provincia, quella emiliana naturalmente, nei teatri dove il loggione è sempre in agguato, pronto a infilzare di fischi il malcapitato, ma anche a lanciare carriere mirabolanti, come quella di Luciano Pavarotti. Tra tenori e soprani, prevalgono le signore: le Katie e le Raine, le Mirelle e le Marielle, le Waltraud e le Edite, e tutte quelle che continuano a cantare anche quando non dovrebbero più, prolungando all’infinito il loro «ultimo concerto».

Anche stasera è un libro di pancia e di testa, in equilibrio tra passione ed analisi. Le antipatie: verso Riccardo Muti, di cui Mattioli proprio non rimpiange gli anni scaligeri, ricordando l’infelice Europa riconosciuta , l’opera di Antonio Salieri con cui il direttore decise di inaugurare la Scala al ritorno nella sede restaurata dopo l’esilio agli Arcimboldi, e fu il trionfo della noia. Dal resto, l’autore dichiara di «amare Abbado più di me stesso». Subito dopo, nella classifica delle antipatie, vengono le «care salme», cioè il pubblico che non sopporta le novità, e i colleghi critici (lui fieramente dichiara di non appartenere a questa «casta»), rimproverati di eccesso di ovvietà o di servilismo. A pari merito gli intellettuali modaioli che sentono l’impulso di occuparsi d’opera, inanellando diademi di castronerie, e i giornalisti che soffrono della stessa vanità. Memorabile l’infortunio di Vittorio Feltri, in occasione del Candide di Bernstein allestito a Parigi con la regia di Robert Carsen, che in una scena rappresentava Putin, Chirac, Blair, Bush junior e Berlusconi vestiti soltanto di boxer e cravatta nei rispettivi colori nazionali. L’allestimento doveva approdare alla Scala e dunque nevrastenia generale: invettive dei politici del centrodestra, presa di distanza del teatro, e il memorabile granchio di Libero che in un editoriale del direttore attaccò Leonard Bernstein, l’autore del Candide , ritenendolo ancora vivo. Eppure, c’è Wikipedia.

Il racconto scende in profondità nei capitoli dedicati al teatro musicale barocco, in particolare di Haendel, di cui l’autore sa cogliere non solo la bellezza vocale e strumentale, ma la modernità drammaturgica e anche politica, e a Verdi «arcitaliano»: «Verdi è stato un grande antropologo dell’Italia, un raccontatore di vizi e di virtù, figure e figuri, “tipi” e costanti nazionali. Uno degli intellettuali che ci hanno raccontati per come siamo e non per come dovremmo essere, con uno sguardo spietato e che non rimane meno lucido perché appassionato. In questo, Verdi è in piccola ma scelta compagnia, insieme al Leopardi che non fanno leggere a scuola, a Gramsci, a Fellini».

Così, il teatro d’opera diventa anche una casa di civiltà, un’«architettura della memoria» che, soprattutto noi italiani, abbiamo ricevuto in dono dalle generazioni precedenti e avremmo il dovere di consegnare - in una salute magari migliore di quella di oggi – alle future.

Il «Bignamino lirico» che chiude le 200 pagine evidenzia la capacità di sintesi, tutta giornalistica, dell’autore. Però, Mattioli, la sua visione di Parsifal è tendenziosa: l’ultima di Wagner non è un’opera «di redenzione», al contrario narra disperazione. La sfido, per dimostrarglielo. Dove? A Bayreuth, naturalmente, la «Lourdes musicale» dove ci si inebria di pura mistica al profumo di birra e salsicce. Si presenti con libretto e partitura. All’armi, all’armiiiiiiiiiiiiiii! (senza abbassare l’acuto, come invece fece quella sera Pavarotti, ricorda?, perché lei naturalmente c’era)." (da Sandro Cappelletto, Finché c'è opera c'è speranza, "La Stampa", 27/03/'12)

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