mercoledì 2 dicembre 2009

A cuore aperto di Raffaele La Capria


"Circondati come siamo da scrittori irreali, o falsi (e probabilmente incolpevoli: la realtà è più irreale di loro), quando ne leggiamo uno vero abbiamo l'impressione che un errore si commetta sotto i nostri occhi. Che la sua stessa «verità» sia un errore: la letteratura, dicono e hanno detto in molti (da Praz a Steiner ad Arbasino) si è fermata come un'automobile in panne e noi oggi non possiamo che girarle attorno. Praz addirittura estendeva la clausola a un'intera porzione di modernità ... Eppure no: l'errore di dire la verità - nel nostro stesso mondo, perfino in Italia - si commette ancora. Ecco ciò che pensavo leggendo A cuore aperto di La Capria (Mondadori). Vero scrittore in ogni suo libro, dal capolavoro Ferito a morte ai saggi di Letteratura e salti mortali a quelli dell'Armonia perduta, La Capria ha sempre teso l'orecchio al «suono della verità»: da uomo innamorato dell'umano e della vita, della «noncuranza della natura» - il mare e il fondo del mare di Capri, gli alberi, i cani, gli asini, le «belle giornate» - ha invariabilmente cercato nella vita stessa quella sottile musica essenziale.
Una musica di sottofondo cui si accompagna «un'idea profonda e una percezione radicata di ciò che è umano e di ciò che non lo è, di ciò che è vero e di ciò che è falso». S'intende, per raggiungere questo fine non è necessario scrivere romanzi. La Capria racconta della sua famosa spigola, «ombra grigia profilata nell'azzurro», nella prima pagina del suo romanzo Ferito a morte e qui, a distanza di quarantotto anni, nelle pagine eccentriche insieme saggistiche, diaristiche, narrative - di A cuore aperto. Inavvertito, come se nulla fosse, lo stesso pesce guizza da un genere all'altro, dal romanzo-romanzo alla prosa flessuosa e aperta del saggio: «Ora quando penso a quel pesce intelligente e al mio affannare dietro di lui, a quell'ostinato desiderio, io penso al Dio Irraggiungibile». Per La Capria tutto sommato i generi non esistono oppure sono mari contigui in cui nuotano gli stessi pesci: l'ambigua chimera del romanzo italiano novecentesco, che ha prodotto capolavori d'incompiutezza - la Cognizione di Gadda, ad esempio - o sublimi e sottili frammenti di prosa d'arte, non lo ha indotto mai alla stretta osservanza del precetto narrativo.
La Capria è uno scrittore vero in un Paese di romanzieri irreali: indifferenti alla sua religione dell'arte, alla sua pazienza e ironia, e ai suoi stessi fini civili: «ogni volta che riesco a comporre una frase ben concepita, ben calibrata e precisa in ogni sua parte - ha scritto - una frase salda e tranquilla nella bella lingua che abito, e che è la mia patria, mi sembra di rifare l'Unità d'Italia». Il libro che La Capria continua a scrivere non è né un romanzo, né un racconto, né un saggio critico e probabilmente delude i cultori dell'entertainment a tutti i costi. Ma è «letteratura», nel senso lato e adorniano di resistenza all'informazione (e alla falsa letteratura), anzi, secondo il suo aggiornamento più morbido, «distrazione» dall'informazione. «Posso chiedere il permesso di non registrare un discorso di D'Alema o di Berlusconi? Di cancellarlo subito come una gomma che non ne lascia traccia?» Civile in quanto distratta, la scrittura di La Capria qui e altrove interroga la realtà anche più degradata del nostro Paese. E' essenzialmente estranea ai sofismi che la rappresentano. Ritrova il fuoco dell'immagine. Napoli, ad esempio, è un luogo «irrisolvibile» che si trasforma
definitivamente in tristezza o «sentimento di continua frustrazione», senza altri o diversi velami nostalgici: il cantore del mito della «bella giornata» - dai primi romanzi alla trascrizione della remota fiaba di Colapesce alle prose anche minime e quotidiane - è qui alle prese con il peggio della civilizzazione, una mutazione urbanistica divenuta «mutazione morale», un degrado politico non reversibile, come quello che De Sanctis vedeva nell'Italia del Machiavelli: il Paese «meno serio del mondo».
Questo dandy, dunque, che abbiamo incontrato con il cane Guappo per le stradicciole di Capri, come ogni vero scrittore (e ogni vero dandy, da Baudelaire a Montale) è innanzitutto un critico del suo tempo. Ma in questo libro, come già con chiari avvertimenti ne L'estro quotidiano (2005), è un inquieto scrittore metafisico. A cuore aperto è una specie di catalogo di ciò che si lascerà nel mondo: un albero fiorito «bianco come dopo una nevicata»; una terrazza sul mare immersa nel mistero - il suo «piccolo Tibet» - a un passo dall'eternità; il mare che «incurva le spiagge» e, come in Ferito a morte, non lascia in pace la Storia, sgretola le pietre dei palazzi, finché un giorno «i pesci nuoteranno nelle stanze irriconoscibili»; e poi i fili d'erba, il rumore lontano d'una barca, la musica di Mozart: «Non sentirò mai più la musica di Mozart? Com'è possibile?» Visto dall'eternità, il mondo, si sa, è appena «un punto di luce nebulosa», è quasi nulla. Ma che altro può fare, che altro ha uno scrittore? Parlare d'angeli, o del confine fra visibile e invisibile, come fanno i poeti (anche il vecchio Montale del Quaderno), non può. Parlare di ciò che non si sa e non si vede, non può. Gli basta lo spicchio di Terra che conosce, sempre lo stesso, il «quasi nulla» amato come se fosse un «quasi tutto».
La metafisica di A cuore aperto non si spinge oltre: è il risultato di un eccesso di amore che rende il mondo più visibile e intelligibile. (Rimane il sospetto che, privo d'un tale «eccesso» d'interpretazione o letteratura, il mondo stesso esisterebbe un po' meno)." (da Giorgio Ficara, Un dandy orfano della bella giornata, "TuttoLibri", "La Stampa", 28/11/'09)

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