giovedì 28 febbraio 2008

Ali di babbo di Milena Agus


"Un due tre. Dopo Mentre dorme il pescecane e Mal di pietre (finalista allo Strega, vittorioso a Fahrenheit come libro dell'anno), ecco questo Ali di babbo (Nottetempo), che mette subito in gioco due ingredienti primi della narrativa di Milena Agus: la leggerezza del tratto e il richiamo ad un mondo familiare in cui le storie respirano di un loro incanto un po' fantasticoe ragazzino. Ingredienti fondamentali che si mescolano ad altri (un po' di ecologia, un po' di magia, un po' di fiaba, un po' di follia) per formare un impasto di appetibilità narrativa. Non manca nemmeno l'occhio strizzato al côté francese (la trasparenza, il gioco, l'umorismo, la finesse), che ha garantito a Mal di pietre un successo di attenzione e di vendite di tutto rispetto. Ma questa volta la confezione sa di confettura. Lo stesso finale, che in Mal di pietre costituiva l'imprevedibile e riuscito scatto del romanzo, il punto di svolta capace di redimere sparsi languori sentimentali e stilistici, diventa qui un finale facile - più che felice - di registro consolatorio. È sempre la Sardegna a fare da sfondo alle storie e ai destini. Una Sardegna di costa con la vista del mare più narciso e degli scogli più argentati che spuntano dalle cale più incantate. Un pezzo di paradisiaca asprezza su cui i soliti costruttori di nefandezze turistiche pongono il loro occhiuto interesse imprenditoriale, se non trovassero sulla loro strada una donna che nel romanzo si chiama 'madame' (il nome anagrafico sarà svelato solo più avanti in una sorta di doppio straniante). Lei a impedire ogni speculazione, lei a gestire un piccolo luogo di accoglienza, lei a coltivare frutta e ortaggi, lei a rendersi benemerita e benamata, lei a vivere una vita libera, a darsi a ospiti e amanti, ad attendere la rivelazione dell'amore, a gestire equivoci nominali, a rappresentare il perno di ogni altro umano movimento, che viene da due famiglie di vicini. Una è la famiglia a cui appartiene la quattordicenne narrante, che con occhi ignari e intuitivi osserva lo spettacolo degli adulti, ognuno vittima di una sua stortura o in preda a una sua ossessione. Un mondo gremito, in cui si stagliano le figure di un padre disperso, di una madre prigioniera, di un Nonno filosofo e umorista, di una zia leibniziana che cita Benjamin per definire il poeta come un ricercatore del senso perduto. Oppure Hegel per parlare di 'eterogenesi dei fini' e di astuzia della ragione. L'altra è una famiglia cattolicissima e numerosa, organizzata come un esercito, che inalbera la fiducia in Dio come arma vincente
di ogni avversità; una famiglia che nonostante la certezza dell'assetto è costretta a subire deroghe provvidenziali: un figlio maggiore che invece di onorare gli studi di ingegneria si dedica alla passione della tromba jazz e se ne va a Parigi a far vita randagia, un figlio minore che vive in modo estroso, vedendo le cose che gli altri non riescono a vedere e rispondendo a domande banali ('Perché non bevi il latte?') con parole sapienziali ('È troppo profondo') che gli altri non riuscirebbero a dire. Cui va aggiunta una nonna colpita da improvvisa giravolta sulla via di Damasco. Donne che non esitano a cercare i loro amanti chattando nel cyber spazio, uomini incerti e aridi che non corrispondono alle attese, uomini e donne in cerca di qualcosa che si nasconde (ma che alla fine si può anche trovare).
Comparse fuggitive (come quel ramingo Abdou che impartisce lezioni di francese en plein air trasformando i luoghi in una favola di parole sonanti). E persino fantasmi e 'ali di babbo', che sarebbero poi presenze impalpabili e indefinibili, mosse dal respiro dell'enigma e del segreto che aleggia qua e là significando la misteriosa costanza della vita resistente e, nonostante tutto, candidamente imperitura. Certo c'è la gioia, c'è la felicità, c'è il piacere di vivere e c'è 'il grande spavento', ci sono i tic, ci sono le cattiverie, ci sono le abrasioni, le contusioni, le ferite, le delusioni. Ci sono personaggi colti in un loro virtù, in una loro malizia, in una loro attitudine o in una loro ostinazione. Ma tutto sempre avvolto in un'aura che redime ogni stortura. Tanto è facile finire nella 'maniera' e restare impigliati al proprio laccio." (da Giovanni Tesio, Impalpabili fantasmi nell'isola, "TuttoLibri", "La Stampa", 23/02/'08)

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