Biblioteca civica "MINO MILANI" bibliogarlasco@yahoo.it tel. 0382/801009 "Le paradis, à n'en pas douter, n'est qu'une immense bibliothèque" (Gaston Bachelard) SELEZIONE DI ARTICOLI SULL'UNIVERSO-LIBRO
giovedì 30 aprile 2009
Non sperate di liberarvi dei libri di Jean-Claude Carrière
"Una dichiarazione d'amore a due voci. Le voci appartengono a Umberto Eco e Jean-Claude Carrière, saggista e sceneggiatore. Il destinatario del messaggio è identificato nel titolo di questo loro dialogo, Non sperate di liberarvi dei libri, che sta per uscire da Bompiani. Dei messaggi d'amore, la chiacchierata conserva i tratti tipici: audacia, pudore e sincerità. Assente - ed è una gran fortuna - l'enfasi. Oggetto d'amore è, dunque, il libro. Sulle sue sorti attuali, e sul suo futuro, l'italiano e il francese si confrontano in sedi non ufficiali: l'appartamento parigino di Carrière e la dimora di campagna di Eco, a Monte Cerignone. Ascoltiamoli, a partire da quella diagnosi preliminare che gli si impone: quale sia lo stato di salute del loro beniamino, il libro, che da quasi seicento anni e con tante varianti sembrava racchiudere in esclusiva la cultura dei tempi. Dico 'sembrava' perché - come tutti sanno - da un quarto di secolo quell'esclusiva ha trovato una smentitta bruciante: l'informatica. La domanda, alla quale l'opera si sforza di rispondere fin dal titolo è, dunque: il cyber-libro, l'e-book soppianterà di netto l'esistenza di volumi stampati, collezioni, biblioteche, deludendo la passione dei bibliofirli e riducendoli a una minoranza di fissati e di 'indomiti'? La risposta di Eco sembra le mot de la fin: 'Il libro è come il cucchiaio, il martello, la ruota, le forbici: una volta che li avete inventati, non potete fare di meglio'. Eppure, i nuovi mezzi espressivi di 'far di meglio' si sforzano in mille modi. Come strumento di scrittura, il computer non ha ormai concorrenti, e recluta seguaci anche fra i 'patiti' della composizione a mano o a macchina e perfino tra coloro che si dilettano a tesaurizzare incunaboli. Ho potuto recentemente saggiare di persona la destrezza, purtroppo assai superiore alla mia, con la quale Eco si serve, per dirne una, dell'e-mail. [...]". (da Nello Ajello, M ail libro non morirà mai, "La Repubblica", 30/04/'09)
mercoledì 29 aprile 2009
La malattia della metafisica di Eugenio Colorni
"In occasione del primo centenario della nascita di Eugenio Colorni (22 aprile 2009), Einaudi pubblica, a cura di Geri Cerchiai, La malattia della metafisica, una raccolta dei suoi saggi filosofici e autobiografici. Essendo ormai introvabili gli Scritti editi da Bobbio nel 1975 per La Nuova Italia, questo volume è molto più che un omaggioa una nobile e grand efigura dell'antifascismo. Esso offre l'occasione per ripensare l'attualità di un'intensa e appassionata vicenda intellettuale stronacata sul nascere. Militante da sempre (come dirà di lui Altiero Spinelli) contro la dittatura per ragioni morali prima che politiche, Colorni sarà arrestato nel 1939 e inviato al confino, a Ventotene. Nella primavera del '44 ripara a Roma ed entra nella Resistenza. Il 28 maggio del 1944 incappa in una pattuglia della banda Koch. Gravemente ferito, muore due giorni dopo. Colorni aveva studiato a Milano con Giuseppe Antonio Borgese e Piero Martinetti. Da questi due maestri (fra i pochi a rifiutare il giuramneto di fedeltà al regime) apprese che l'esercizio del pensiero e l'esercizio della libertà sono tutt'uno. Fin da subito si confrontò con Croce. E' del 1932 la monografia su L'Estetica di Benedetto Croce. Studio critico. Attraverso di lui cercava una via d'uscita dall'idealismo, che gli appariva come un sistema equivoco: vi si afferma la libertà, ma per dissolverla nella vita dello spirito, e quanto all'etica, vi si fa appello, salvo umiliarla di fronte alle presunte ragioni della storia. E se la filosofia, con la sua pretesa all'universalità e la sua dimenticanza del singolo (questo singolo uomo) fosse malattia piuttosto che terapia? La filosofia nasconde in sé un'ossessione tipicamente metafisica. Nell'inseguire il fantasma di una realtà oggettiva che esisterebbe lì fuori, indipendentemente dal soggetto, la filosofia si fa interprete inconsapevole del nostro bisogno psicologico di 'contrapporre alcunché a noi stessi, di urtarci contro qualcosa'. Invece è evidente che non possimao conoscere se non ciò che contribuiamo a formare con gli strumenti conoscitivi di cui disponiamo: categorie, criteri, prospettive e prima ancora sentimenti, affetti. Ben poco resta dell'oggetto una volta che sia ridotto al suo 'in sé'. E quel che è peggio è che esso a quel punto sarebbe una cosa talmente opaca e inerte da risultare insignificante. A dover essere salvaguardato secondo Colorni è il legame essenziale fra conoscenza e impegno etico. Il punto è che noi siamo in grado di spezzare il circolo vizioso del solipsismo solo a patto di farci carico dell'esistente e del vivente. E' necessaria, dice Colorni, una 'presa affettiva'. Quella che si riassume in una parola, amore, e che comprende anche i suoi analoghi e contrari; l'odio, l'amicizia, il timore, la speranza, il piacere, il dolore. Conosce gli altri, dice Colorni, solo chi negli altri vede quel che vede in se stesso: l'arrischiato ma necessario sforzo volto ad afferrare la realtà investendola delle proprie emozioni e dei propri punti di vista. Altrimenti il mondo si fa vuoto, impenetrabile (e qui sembra di avvertire un'anticipazione di certe pagine di Sartre sulla 'nausea' o di Lévinas sull''opacità dell'essere'). Solo così si possono stabilire rapporti con coloro che erano solo degli estranei e degli sconosciuti (i testi, dirà in anni recenti il wittgensteiniano Stanley Cavell, sono testimonianze che vogliono essere credute e chiedono a noi di testimoniare per loro). Come si vede, e come Colorni scriverà in una lettera a Croce, egli non vuole demolire l'idealismo. Al contrario ne accetta l'idea di fondo, per cui la realtà non è se non realtà pensata, vissuta, anzi, amata (e odiata, temuta, desiderata). Ma nel momento in cui il soggetto che pensa, vive, ama, non è più lo spirito ma l'uomo così com'è, tutto cambia. All'universale si sostituisce la molteplicità delle vie e dei metodi. Al sapere sistematico, le scienze empiriche. E magari la letteratura, la poesia. Il filosofo comincia a guarire. A lui, una raccomandazione: 'Non si trincera dietro l'Io trascendentale, non risponda che il suo fatto personale non ha importanza. lo racconti a me, per farmi piacere'." (da Sergio Givone, La malattia dei filosofi e la critica di Colorni, "La Repubblica", 28/04/'09)
martedì 28 aprile 2009
Il racconto breve mette ko il romanzo
"La commessa Sophie sistema i titoli più venduti della settimana sullo scaffale all’ingresso della libreria Waterstone di Upper Street, nel quartiere alla moda di Angel: «Non so se sia vero che i social network come Facebook e Twitter abbiano modificato i tempi della lettura, ma a giudicare dalle richieste è la stagione del racconto breve». In testa alla classifica c’è Chimamanda Ngozi Adichie, la ventiduenne nigeriana vincitrice dell’Orange Prize e del Premio Nonino Internazionale 2009 con Metà di un sole giallo (Einaudi)che, dopo il debutto epico, è passata al genere «conciso» dell’amato Guy de Maupassant e ha pubblicato The Thing Around Your Neck (Fourth Estate), 15 storie ambientate a cavallo tra l’Africa delle origini e l’America in cui vive. A farle concorrenza, nella sezione «Quick reads», leggi veloce, altri due enfant prodige della scrittura sintetica il pakistano Daniyal Mueenuddin con l’antologia In Other Rooms, Other Wonders (Bloomsbury) in cui descrive un’umanità migrante perennemente fuori luogo nel patrio Punjab come tra i grattacieli di Wall Street e Graham Rawle, l’artista inglese che ha «costruito» il romanzo Woman’s World con 40 mila frasi ritagliate da riviste femminili degli anni ‘60 e composte ex novo alla maniera futurista.
«Sebbene Turgenev fosse convinto che tutti noi contemporanei venissimo fuori dal Cappotto di Gogol, la short story è sempre stata la Cenerentola della letteratura» osserva sul "Guardian" James Lasdun, lo scrittore inglese considerato da molti l’erede di Ian McEwan, che ha appena terminato la raccolta It's beginning to Hurt (Jonathan Cape). L’oblio, sostiene, comincia dai manuali e finisce in biblioteca: «Tra Cechov e Cheever ci sono al massimo una dozzina di nomi ufficialmente riconosciuti di un genere senza grandi pretese». I tempi però, stanno cambiando. Da qualche anno il Frank O’Connor Prize di Cork, il National Short Story Prize e il festival Small Wonder selezionano i migliori nipotini di Raymond Carver. I racconti di Jhumpa Lahiri sullo scontro tra padri e figli e quelli vagamente surreali dell’israeliano Etgar Keret scalano regolarmente la top ten dei bestseller del "New York Times". Le tre più acclamate autobiografie letterarie in circolazione al momento sul mercato britannico riguardano autori specializzati in short story, Donald Barthelme, John Cheever, Flannery O’Connor.
«L’era digitale ha cambiato il metabolismo della cultura» nota Motoko Rich, il critico letterario del "New York Times". Internet, gli sms, Twitter, il software che descrive le nostre giornate, modellano i modi della comunicazione e vi adattano i contenuti. Dai programmi politici alla poesia di ultima generazione del sito PoetryArchive, si legge come si consuma: le informazioni più efficaci sono rapide, essenziali, eventualmente usa e getta. Le prime ad adattarsi sono state le case editrici. «La gente non è più disposta ad aspettare un anno per avere un libro, soprattutto se d’attualità» spiega Amy Neidlinger della FT Press. Barack, Inc: Winning Business Lessons of the Obama Campaign, l’ultimo volume del 2008, è arrivato in libreria a dicembre, un mese dopo la consegna delle bozze. A marzo l’editore PublicAffair ha rilanciato sfidando la crisi economica in fieri con il saggio di George Soros The New Paradigm for Financial Markets, un pamphlet corretto, stampato e distribuito in dieci giorni.
Gli autori tastano il terreno. «Scrivere The Thing Around Your Neck è stato il mio modo di acquistare tempo» dice Chimamanda Ngozi Adichie alludendo alla massima di Henry Thoreau secondo cui «le storie non devono per forza essere lunghe ma ci vuole un sacco di tempo a farle brevi». L’obiettivo è l’attenzione in movimento del lettore. «La short story è implacabile, devi costruire un meccanismo complesso in uno spazio limitato prevedendo un boato soddisfacente alla fine» nota Wells Tower, ultima scoperta della prestigiosa rivista Granta, il cui Everything Ravaged, Everything Burned, in libreria a fine mese, ha già venduto i diritti per la traduzione in otto lingue. Se il linguaggio del web è rock, la narrazione breve ha lo scatto per tenere il passo: «Nella lotta che si instaura sempre fra testo e lettore il romanzo vince ai punti, il racconto deve farcela per knock out».
La short story è l’epica del presente in potenza. Un’impalcatura di omissioni che, secondo James Lasdun, il decano dei cantori del formato ridotto nati e cresciuti con internet, apre infinite possibilità: «Mueenuddin, Adichie, l’ucraina Sana Krasikov, autrice della raccolta One More Year, riescono a coinvolgere un pubblico vasto a prescindere dalla forma che prendono i loro lavori». A migliaia di chilometri il giapponese Tadashi Izumi sperimenta il keitai, il racconto per cellulare, e zittisce gli scettici con la novella Cross Road, scaricata sui telefonini da due milioni di utenti prima ancora di raggiungere la tipografia. Il lettore, qualunque siano tesi e antitesi, apprezza la sintesi." (Francesca Paci, Il racconto breve mette ko il romanzo, "La Stampa", 28/04/'09)
lunedì 27 aprile 2009
Le biblioteche e il mercato del libro di Chiara Bernardi
"Sarà Milano ad ospitare, dal 23 al 27 agosto, il convegno dell'IFLA (l'organizzazione mondiale delle biblioteche e dei bibliotecari). Appuntamento importante: per il numero dei partecipanti - circa 3000; è in corso la fase di accreditamento - ma soprattutto, per cercare di individuare e capire verso quali modelli si stia andando, confrontando esperienze e risultati. Il tema è ambizioso: Libraries create futures: buiding on cultural heritage. Non solo per dovere di ospitalità ma per interesse sincero, gli addetti ai lavori italiani hanno ora l'occasione di documentarsi con un saggio di imminente pubblicazione scritto, con piglio forse un po' troppo accademico, da Chiara Bernardi, Le biblioteche e il mercato del libro. Analisi di settore e prospettive di sviluppo (il Mulino). Se ne parlerà in un convegno, a Milano (Spazio Guicciardini) martedì prossimo. Ma alcuni dati estrapolati dalla ricerca (commissionata da Provincia di Milano, Fondazione per leggere e Aib Lombardia), consentono di iniziare a ragionare con qualche parametro in più. 'Si ritiene - scrive Bernardi, citando alcuni dati di Solimine - che in Italia vi siano 15.000 biblioteche, nelle quali operano circa 20 mila addetti e che queste posseggano quasi 200 milioni di documenti, acquistando annualmente 7 milioni di volumi. Si calcola che i loro utenti annui siano poco meno di 10 milioni e che i prestiti erogati si aggirino intorno ai 65 milioni. Le spese di funzionamento hanno superato i 500 milioni di euro, di cui più del 10% per l'acquisto di documenti'. A parte il numero sicuramente sovrastimato di biblioteche, pare che esse rappresentino circa il 5% del fatturato dell'editoria italiana, in termini di acquisti, ma è difficile valutare che tipo di impatto abbiano sulla lettura (alcuni dati dicono che aggiungono alle già basse percentuali di lettori del nostro Paese un misero 5%). Una delle questioni più delicate, quella dei soldi del diritto di prestito, per i quali l'UE ha condannato l'Italia (gli utenti per ora non devono pagare nulla; ma il fondo stanziato dal Governo per remunerare gli editori, che comunque rinunciano a quei denari, si è perso ...). Ma il punto della Bernardi è un altro: e cioè come possano interagire le biblioteche con la filiera del libro. In termini di valorizzazione del patrimonio di utenti, di aumento e promozione della lettura, di rapporto con editori e librai e di presenza e impatto nel territorio. Le risposte e le possibilità sono molteplici. Ma certo, per funzionare le biblioteche hanno bisogno di fondi; i fondi dovrebbero servire a comprare libri (non solo a pagare il personale), i libri a creare nuovi lettori. Il circolo sarebbe anche visrtuoso. Se qualcuno si preoccupasse di investire nelle biblioteche. Ma niente paura: a Montecitorio hanno dimostrato di non essere affatto preoccupati dai libri. E non da oggi. Mi sa tanto che quelli dell'IFLA non riusciranno a convincerli che si stanno sbagliando ..." (da Stefano Salis, Biblioteche in cerca di ruolo, "Il Sole 24 Ore Domenica", 26/04/'09)
Cesare Segre: "Il giorno che scoprimmo un'Italia senza paura"
"Purtroppo l'età discrimina chi può ricordare o no quei fatti. Tutti i giornali e telegiornali sono pieni di 25 Aprile, ma il dibattito sul significato della data, sulla necessità di commemorarla, è spesso vacuo, o peggio, pretestuoso. Molti, anche per felice impossibilità anagrafica, non c'erano, e nemmeno avevano sofferto. E allora chi c'era e aveva sofferto si sente un diverso, avverte nei discorsi che si fanno un vuoto di conoscenze e partecipazione. Perché il 25 Aprile fu la fine di una guerra assurda, lunga e sanguinosa, fu il crollo di un regime asservito a un regime straniero ancora più criminale, fu il termine della paura, una paura che durava da anni, fu la cessazione di stragi civili, di impiccagioni, di arbitrii, di un potere di vita e di morte incontrollato e reso furibondo dalla sconfitta vicina. Fu lo stop al terrore. Per capire in pieno il significato del 25 Aprile giova, per esempio, aver visto (come chi scrive) l'esercito tedesco che, in fuga per la val di Susa, si ritirava verso Torino, ammazzando qua e là qualche poveraccio; avere negli occhi le truppe francesi d'Algeria che scendevano poderose dalla frontiera. Giova aver assistito all'improvvisa fraternità delle eprsone, che si abbracciavano gridando parole al vento, ma parole di felicità; giova averle viste ballare per le strade. Giova essersi resi conto d'improvviso che ci si poteva muovere senza preoccupazioni, che l'invisibile ma dura prigione in cui eravamo tutti rinchiusi non esisteva più, e il mondo era aperto per chiunque. Era possibile pronunciare la parola 'libertà' che noi stessi ci eravamo preclusa perché pareva soltanto un sogno. Libertà e felicità erano la stessa cosa. C'era voluta la guerra perché tutit capissero che cos'era il regime, un regime abilissimo nella coltivazione del consenso. Pareva una dittatura mite. Già ... mite nell'assassinio politico (Matteotti, Rosselli, etc.)? Mite nella guerra spietata all'Etiopia, in pieno tramonto del colonialismo? Mite nell'assalto alla dmeocrazia e nei bombardamenti aerei in Spagna? Mite nell'aggressione alla Francia, alla Jugoslavia, alla Grecia, alla Russia? Mite, infine, nell'invio di migliaia di ebrei ai forni di Auschwitz? E' tragico che gli uomini, per capire le cose, abbiano bisogni di soffrire di persona. Altrimenti si limitano al particulare, all'interesse immediato, sforzandosi di non vedere e non capire. Oggi si tende a sottrarre verità e significato alla lotta svolta da minoranze illuminate contro il fascismo delle origini, collegandosi e organizzandosi pure in esilio. E piace svilire, magari alludendo a sciagurati episodi isolati, l’opera della Resistenza, fenomeno straordinario che dai relitti di un esercito lasciato allo sbando dai comandi riuscì a cavare delle unità combattenti che diedero filo da torcere agli occupanti tedeschi e ai loro camerati italiani; che soprattutto difesero l’onore del Paese, offuscato da giri di valzer che accreditavano la nostra fama d’inaffidabilità: gli Alleati stessi riconobbero l’aiuto sostanziale ricevuto. Non era frequente, nella storia d’Italia, quella bellicosità spontanea, quella molteplicità d’iniziative tattiche, che trasformò molti resistenti in piccoli Garibaldi. Ne dànno una splendida rappresentazione i romanzi partigiani di Calvino, Fenoglio e Meneghello, con molta autoironia ma con il senso dell’avventura e di un naturale eroismo. E non era frequente la collaborazione che si sviluppò tra gruppi di diverso ceto; certo con antagonismi e incomprensioni, anche perché agli ex-militari si unirono lavoratori della terra e dell’industria già politicizzati; ma, quasi senza eccezioni, tutti si riconoscevano nella bandiera di libertà del Cln. Anche nuova, almeno per i tempi recenti, l’alleanza di combattenti, di civili e perfino di sacerdoti in una lotta comune, dato che le unità stazionavano spesso nel territorio di provenienza dei partigiani. Era un esercito non piccolo, tanto più se vi aggiungiamo i corpi militari di liberazione formatisi all’ombra degli Alleati e i moltissimi internati in Germania (quasi la totalità) che rinunciarono ai grossi vantaggi offerti a quanti aderivano alla Repubblica collaborazionista di Salò.
E allora vien fatto di pensare che il 25 Aprile sia da considerare il vero inizio di una nuova vita per il nostro Paese, che infatti presto condannerà col voto la monarchia complice di Mussolini e si darà una Costituzione moderna. In questa prospettiva, la distinzione tra chi ha goduto la fine del terrore e gli altri può cadere, dato che tutti siamo beneficiari della conquistata libertà. Il 25 Aprile dovrebbe essere per noi come il 14 luglio per i francesi, che con la caduta della Bastiglia segnano simbolicamente l’inizio della nuova Francia.
Ecco, ora la libertà l’abbiamo, tutti. E tutti dovremmo coltivare la passione per la libertà, essere sensibili a ogni sua minima lesione, perché la libertà si può anche perdere. Soprattutto, occorre guardarsi dall’affidarla a volonterosi gestori: la libertà è un bene di ognuno e chi ne gode ha il dovere di esserne anche il tutore." (da Cesare Segre, Il giorno che scoprimmo un'Italia senza paura, "Corriere della Sera", 25/04/'09)
Di' che sei una di loro di Uwem Akpan
"In un ideale atlante letterario, non meno che storico e politico, dell’Africa contemporanea, la Nigeria continua a occupareunposto cruciale. La raccolta di narrativa breve in inglese di Uwem Akpan, Di’ che sei una di loro (Mondadori), ce lo conferma vigorosamente. Akpan, un giovane gesuita nigeriano che insegna ora in un seminario nello Zimbabwe dopo aver completato i suoi studi negli Stati Uniti, incarna una nuova fase, insieme tradizionale e sperimentale, della cultura letteraria nigeriana, quella che, per intenderci, da Achebe, da Tutuola e da
Soyinka arriva a Ben Okri. I cattolici nigeriani sono una compatta e a suo modo problematica minoranza, concentrata nel Biafra: non a caso, durante la sanguinosa e crudele guerra civile, mentre l’occidente sostenne largamente la Nigeria, accanto al Biafra, oltre alla Francia, si schierò il Vaticano. Il cattolicesimo di Akpan lo preserva da ogni residuo tribale in senso stretto, e gli consente una lucidità di visione e di rappresentazione che definirei, gobettianamente, inesorabile. In un paese inventato nell’Ottocento dai Paesi colonialisti a cominciare dal suo stesso nome, le contraddizioni più laceranti sostanziano la stessa condizione esistenziale, i conflitti non di rado insanabili. Akpan ha scelto, con una singolare lievitazione del linguaggio, reso assai efficacemente in italiano da Micol Toffanin, di non indulgere ad alcuna soluzione consolante e - ciò che ha sorpreso qualche recensore americano -, tale da compiacere il lettore occidentale. Ecco lo spietato racconto di apertura, Cena di Natale, ove a Nairobi, in Kenya (Akpan spazia oltre confini definiti) una famiglia vive grazie ai guadagni della figlia, una prostituta dodicenne. Grazie a lei il fratellino potrà nutrirsi, e addirittura frequentare la scuola. In Carri funebri di lusso, un romanzo in nuce, questa volta in Biafra, un giovane musulmano cerca scampo in un autobus, per non farsi riconoscere e nascondendo il moncherino di una mano, amputata per effetto di una condanna per furto. Finisce in una strage, ma anche qui padroneggia alla grande la condizione, insieme quotidiana e emblematicamente simbolica, dell’assurdo, un assurdo universalizzato.
Una diversa gestione dell’assurdo si coglie in un altro significativo
tassello di questo atlante africano, collocato qui in Sud Africa, ad opera di uno scrittore di ascendenza indiana, Renesh Lakhan. Nel suo romanzo I burattinai (Socrates), assurdo istituzionale è, chiaramente, l’apartheid, che peraltro va ben oltre la pura categoria della politica. Il protagonista e narratore del romanzo, figlio di un matrimonio misto - padre bianco, madre nera - negli Anni Trenta, combatte fin dall’infanzia per una ricerca di identità che sembra illusoria, non meno dell’innocenza. In effetti, il libro si apre nel marzo del 1996, quando Sunny, sessantenne, ricco, si è gettato alle spalle, o crede di averlo fatto, la sua infanzia e la sua adolescenza di povero emarginato. Ora si è addirittura candidato a sindaco di una cittadina: così, oltre al benessere, ecco il potere. Da ragazzo, Sunny ha studiato, si è innamorato dei libri, specie di avventura, come La freccia nera di Stevenson, e con la fantasia ha anticipato, ha costruito il futuro. Due donne hanno inciso su di lui: Jennie, la compagna di scuola seducente e imprevedibile, e la signorina Lindsay, insegnante anticonformista, spregiudicata: i burattinai del titolo, i manipolatori che si battono con tutte le armi possibili per affermarsi in una società abnorme, o, se volete, assurda. Inesorabilmente malata, la signorina Lindsay recita la sua parte fin quando la paralisi non la colpisce, cimentandosi attivamente nel teatro. In quanto a Jennie, è morta per mano sua e ora, alla vigilia del successo, il passato si ripresenta, e Sunny deve pagare il prezzo. I burattinai, ovvero le burattinaie, hanno vinto. Sunny diventa l’emblema dell’assurdo sudafricano, e nongli resta altro che confessarsi. Lo fa in un inglese nervoso, intriso da afrikaans, abilmente reso dalla traduttrice come Akpan vertiginosamente impasta nell’inglese swahili e idiomi locali.
Per contrasto, voglio chiudere il mio atlante africano con una vera e propria favola, di autore inglese ormai trasferitosi in Australia, Nicholas Drayson, ma vissuto in Kenya, dove è ambientato il suo romanzo Guida agli uccelli dell’Africa orientale (Piemme). Zoologo, Drayson si affida a una simbologia animale - gli uccelli - per raccontare una storia di amore e di avventure quotidiane con ironia mai prevaricatrice. Il suo signor Malik, sfortunato ma alla fine amabile vincitore, e il play boy Harry Khan sono una coppia di personaggi irresistibili, in una magia a portata di mano ma non per questo futile. Vola, come i suoi uccelli." (da Claudio Gorlier, Il gesuita confessa l'Africa assurda, "TuttoLibri", "La Stampa", 25/04/'09)
Antonio Scurati: "Il nostro compito è una cura di bellezza"
"«La civiltà è soltanto una breve parentesi tra due ere di barbarie». Così parlò uno dei personaggi di Robert Ervin Howard, inventore di saghe fantasy, la più celebre delle quali, non a caso, fu quella di Conan il barbaro. Si era negli Anni 20 del Ventesimo secolo, presi nella tenaglia di due guerre mondiali. La democrazia è soltanto una breve parentesi tra due ere di dispotismo. Non sono pochi, oggi, quasi cent'anni dopo la cupezza di Howard, gli scrittori che ne varierebbero a questo modo il magniloquente pessimismo. Molti piccoli e grandi segni sembrano, infatti, suggerire che si starebbe chiudendo un ciclo di progressi democratici iniziato, sul suolo europeo, grosso modo con l'illuminismo nel cerchio storico più ampio e, nel cerchio minore, con la guerra di liberazione dal nazifascismo. Gettando uno sguardo di sorvolo al globo terrestre, parrebbe di poter dire che, finita la guerra fredda, il rifluire dell'onda socialista abbia lasciato sulla risacca della storia due forme speculari di oligarchia, quella dei poteri finanziari e quella dei poteri criminali, strettamente intrecciate tra loro sebbene l'una con base territoriale privilegiata, ma non esclusiva, nel cosiddetto primo mondo e l'altra nel secondo e terzo. Anche limitandosi alle sedicenti democrazie, i più propensi al tono apocalittico non faticherebbero, scrutando l'orizzonte del terzo millennio, a divinare i segni di una regressione antidemocratica: eclissi dello Stato Sociale, riflusso dei movimenti per i diritti civili, disgregazione dei partiti politici, desindacalizzazione del lavoro, sdoganamento della guerra, personalizzazione carismatica del potere, crescente divaricazione della ricchezza tra ricchi e poveri, privatizzazione delle risorse vitali (fonti energetiche, acqua e cibo) in un contesto di depauperamento ecologico. Soprattutto, a preoccupare è lo svuotamento in senso populistico delle democrazie liberali nelle quali all'agire della cittadinanza democratica si va sostituendo la leva demagogica di un popolo sempre più agito dall'alto di piramidi politico-mediatiche.
Al cospetto di questo scenario, lo scrittore che si senta imbarcato sul fragile legno democratico, viene colto dal dubbio barbarico: e se il dispotismo fosse connaturato all'umanità? E se la democrazia fosse stata niente più di un capriccio di passeggere turbolenze storiche? Molti ritengono che, oggi, la secolare lotta da proscritto dello scrittore dentro e contro l'oppressione del proprio tempo si combatta su due fronti: quello civile e quello estetico. Il primo si aprirebbe in tutti quei casi in cui la letteratura prende a materia del proprio racconto direttamente l'oppressione dell'uomo da parte dei nuovi poteri dispotici.
Il secondo si aprirebbe, invece, in tutti i casi in cui a far questione è la forma. Su questa seconda linea, l'avversario della letteratura è il populismo estetico così come quello politico lo è della democrazia. Il populismo estetico si potrebbe, infatti, definire quale scadimento formale dei prodotti artistici lungo un asse verticale corrispondente a un allargamento orizzontale della base dei consumi culturali. Detto in una frase più breve: la televisione trasferita su pagina. Stiamo parlando di libri che adottano l'intrattenimento - cioè la superiore ideologia di ogni discorso tv - come proprio orizzonte ultimo; della loro vocazione spettacolare (è nella natura del mezzo tv il sopprimere i contenuti delle idee per far posto all'interesse visivo, cioè ai valori spettacolari); stiamo parlando della ricerca del divertimento a tutti i costi (la tv fa del divertimento il modello naturale per rappresentare ogni esperienza, soprattutto il dolore); della perdita di prestigio dello scrittore come intellettuale pubblico, e con esso di ogni altra autorità pubblica (il declino dell'uomo pubblico è accelerato dalla tv che adotta uno stile comunicativo intrinsecamente autodissacrante e autoderisorio). Insomma, qui la scrittura letteraria si «alleggerisce», liberandosi da ogni intellettualità (proprio come in tv i saperi degli esperti sono degradati al rango di opinioni).
Infine, stiamo parlando di un processo in cui gli effetti individuali d'ingentilimento e d'inibizione delle pulsioni aggressive prodotti dal silenzioso, prolungato, paziente, introspettivo esercizio della lettura vengono sostituiti da libri scritti per essere divorati in fretta, consumati con la vorace immediatezza tipica dei teatri della ferocia e del furore televisivi, libri «usa e getta», «mordi e fuggi», libri mordi e mordi. Insomma, stiamo affermando che non ci sono due fronti, civile ed estetico, per il libro come strumento di militanza democratica. Il fronte è uno solo. Se la letteratura vorrà contraddire la parola barbarica dei poteri oppressivi, se vorrà entrare in risonanza con una nota diversa da quella del rumore sordo, di basso continuo, della mera cronaca, della nera cronaca e da quella della glossolalia, idiozia televisiva, dovrà, molto semplicemente, parlare un'altra lingua. Una lingua straniera, ma da stranieri in Patria - non di un altro mondo - una lingua franca, da «città aperta». Sì, perché se tu avrai raccontato - magari con l'intento di denunciarlo - il potere dispotico con la sua stessa brutalità, allora avrai perso. Se spingerai la pur necessaria rivalità mimetica fino al punto di collasso, fino al pieno isomorfismo con il tuo nemico, allora udirai soltanto il rumore strozzato del risucchio. Il fischio del buco nero che t'inghiotte. Sua sarà stata l'ultima parola. La gioia democratica non si rappresenta letterariamente. E nemmeno si evoca per mezzo di un saggio o di un romanzo. La si provvede. Lo splendore formale della liberalità letteraria - la sua ricchezza di pensiero, di varietà umana, d'intelligenza proteiforme, in una parola, di bellezza - non è soltanto la speranza che un altro mondo, diverso da quello della brutalità del potere, sarebbe, forse, ancora possibile. Ne è la testimonianza, la prova vivente. Pensata così, la letteratura è democrazia in atto". (da Antonio Scurati, Il nostro compito
è una cura di bellezza, "TuttoLIbri", "La Stampa", 25/04/'09)
I nostri occhi sporchi di terra di Dario Buzzolan
"Nel giugno del 1945 un torturatore fascista viene ammazzato nel cimitero di Lanzo. Da quell'uccisione prende le mosse un racconto che, con qualche sfondamento a ritroso (la guerra d'Etiopia, la Spagna del 1936), si snoda attraverso alcuni degli eventi più significativi della storia dell'Italia repubblicana fino ad arrivare agli Anni Novanta e al fragoroso debutto della Seconda Repubblica nel segno dell'
egemonia berlusconiana e dello straripante successo delle tesi revisioniste sulla Resistenza. Nel romanzo di Dario Buzzolan I nostri occhi sporchi di terra, in uscita per Baldini Castoldi Dalai, il rapporto con la storia è esplicito, dichiarato, rigoroso. In casi come questo c'è il rischio che i personaggi siano solo esangui fantasmi usati come puro pretesto narrativo. E' stato così per i troppi romanzi che hanno cavalcato in questi anni l'ondata revisionista, troppi e tutti noiosi, ripetitivi, con un unico schema in cui i buoni diventano cattivi e viceversa. Qui non c'è niente di simile. I personaggi sono veri e Buzzolan li accompagna tutti, con uno sguardo partecipe, solidale, senza lasciarne cadere nessuno, i «buoni» come i «cattivi», ognuno con le sue ragioni, i suoi dolori, i suoi rimpianti. Il protagonista - l'uccisore del fascista - è un giovane partigiano di Giustizia e Libertà; dopo la guerra riprende gli studi, insegna all'Università con successo, fino al 1968 quando la rivolta degli studenti impietosamente gli mostra
l'insulsa realtà del suo ruolo accademico, spingendolo alle dimissioni. Sopravvive aprendo un'enoteca, vendendo vino e liquori ma inseguendo il sogno di un libro definitivo in cui raccogliere la sua visione del mondo. Ha una figlia che lo contesta, un'amante che divide con il suo peggior nemico; trascina la sua esistenza nel disincanto, in una sorta di mestizia esistenziale che serpeggia in tutti quelli come lui che hanno bruciato la propria giovinezza in un esaltante appuntamento con la Storia. A sottrarlo all'anonimato di una vita spesa nella solitudine interviene di colpo la valanga revisionista; è il momento in cui vecchi conti possono essere regolati sfruttando la disponibilità dei media a trasformare i partigiani in assassini. E' così anche per lui, grazie a una clamorosa intervista rilasciata dal vendicatore del fascista ucciso «dopo» il 25 aprile. Fango, vendette, bugie: l'onda lunga degli Anni 50 dell'egemonia democristiana e del processo alla Resistenza lo trova questa volta vecchio, fragile, indifeso; è il momento in cui ha voglia solo di sparire, dimenticare, finirla. Ed è quello che farà, lasciandosi alle spalle un paese in cui non si riconosce più. E' una storia amara, raccontata benissimo, che ruota intorno a un «giallo» ben costruito, affollata di dialoghi che con la loro efficacia ci restituiscono i rovelli interiori, le inquietudini, la complessità dei personaggi che la animano. Ne viene fuori un romanzo che aspettavamo da anni. Dopo Fenoglio, sui «venti mesi» partigiani c'era poco da dire. Nessuno avrebbe potuto più dello scrittore piemontese cogliere con tanta profondità quell'incontro con la morte che è l'essenza letteraria della Resistenza. Quello che mancava era un romanzo che ci restituisse il «dopo», e non quello immediatamente successivo ma quello legato all'oggi, quando la memoria partigiana si è come ripiegata nell'amarezza della sconfitta e della delusione. E' stato così per il cinema dei giovani registi che - dopo un film definitivo come La notte di San Lorenzo - hanno lavorato sulla memoria di chi si credeva vincitore e si scopriva drammaticamente vinto, dandoci film come Il caso Martello (Guido Chiesa, 1989) o I nostri anni (Daniele Gaglianone, 2000). E ora è così anche per la letteratura, grazie al romanzo di Dario Buzzolan. In una cronologia fitta di andirivieni tra allora e oggi, la memoria dei protagonisti incrocia la storia, ma soprattutto viene scandita dalle diverse stagioni della loro avventura esistenziale; ed è una memoria che ci restituisce oggi le differenze delle scelte di allora. Da un lato quella dei fascisti, pietrificata nella sete di vendetta e di rivincita; dall'altro quella dei partigiani, inquieta, come sospesa a una domanda che aleggia in tutto il romanzo: valeva la pena bruciare la propria giovinezza? Se i venti mesi raccontati da Fenoglio ruotano intorno alla morte, i lunghi anni attraversati da I nostri occhi sporchi di terra ci restituiscono tutta l'enorme difficoltà del mestiere di vivere per chi quel mestiere aveva imparato combattendo contro i fascisti e i nazisti e sognando un'Italia migliore." (da Giovanni De Luna, Al partigiano resta solo la via dell'esilio, "TuttoLibri", "La Stampa", 25/04/'09)
venerdì 24 aprile 2009
La nuova età del libro
"Sto per partire per le vacanze, ho una settimana di ferie e, finalmente, potrò leggere qualche buon libro in santa pace. La valigia è piena. C'è tutto, compresi i libri. Ne ho portati una quarantina. 'Hai un'altra valigia?' mi chiede mia figlia. 'No', rispondo io, sono tutti qui. 'Qui' vuol dire in una macchinetta che pesa poco più di due etti ed è grande come un libro in edizione paperback. Si chiama Sony Reader e serve a leggere i libri in formato elettronico. Nel Sony Reader ne ho caricato una trentina, ma ne ho almeno altri dieci nel mio iPhone, nel quale ho caricato il software di Amazon, il Kindle. E se avessi voglia di leggerne qualcun altro, magari una pagina di un vecchio classico della letteratura, o un saggio sulla musica di Jimi Hendrix, non avrei il problema di cercare una libreria. Perché con un paio di click, ovunque io mi trovi, potrei scaricare nel mio lettore di libri elettronici o nel mio cellulare, qualche nuovo testo. Benvenuti nell'era della letteratura elettronica, nel nuovo mondo degli e-book, un futuro annunciato migliaia di volte negli anni passati ma che solo oggi si sta trafsormando in presente. La svolta è arrivata al'inizio di quest'anno, quando Amazon ha messo in commercio la nuova versione del suo lettore di libri elettronici, il Kindle, una macchinetta comodissima e leggera, nella quale si possono mettere fino a 1500 libri, scaricandoli con il computer o attraverso il collegamneto senza fili direttamente da internet, dove si possono comprare o ottenere gratuitamente. Il Kindle e il Sony Reader (o l'iLiad, il Cybook, l'iRex, tanto per citare i più diffusi e-book reader) stanno conoscendo un improvviso successo, dovuto al miglioramento della tecnologia e, soprattutto, a una disponibilità di testi elettronici fino a oggi sconosciuta. Oggi si possono trovare nelle librerie degli e-book reader con una collezione di libri pre-caricata, oppure ci si può collegare ai negozi online che vendono i testi, o ancora servirsi del grande lavoro fatto da appassionati come il Project Gutenberg o l'italiano Progetto Manuzio per scaricare libri i cui diritti sono scaduti (dalla poesia latina alla Divina Commedia, fino a testi del primo Novecento), o rivolgersi all'enorme catalogo di Google Ricerca Libri, con oltre dieci milioni di testi, o ancora finire nel mare della pirateria online. I numeri parlano chiaro: tra il 2007 e il 2008 il mercato negli Usa è praticamente raddoppiato e oggi tutti i principali editori e distributori anglo-americani e tedeschi si stanno attrezzando, stringendo accordi con aggregatori e integratori, con l'obiettivo di offrire un nutrito catalogo di e-book alle librerie. E la Sony ha annunciato un accordo con Google per distribuire i suoi libri digitalizzati. Si chiamano e-book e non libri, e la differenza non è da poco. Con i libri, quelli tradizionali, hanno in comune solo il contenuto, il testo scritto da qualche autore. Per il resto sono due mondi lontani, lontanissimi. Le differenze? Più o meno quelle che passano tra un giradischi e un iPod, se ci si passa il paragone. Oggi se utilizziamo Google per cercare qualsiasi tipo di informazione, il motore di ricerca ci conduce a qualche altra pagina web, non a un libro. Ma tutto questo sta per cambiare, per merito di due fattori innovativi. Da una parte la disponibilità di due macchinette, due e-book reader che funzionano benissimo e costano poco, il Kindle di Amazon, il Reader della Sony, due "lettori di libri elettronici" che non sostituiscono il libro come oggetto, ma rendono l'esperienza della lettura di un file su uno schermo decisamente più gradevole. E dall'altra parte il lavoro che Google ha fatto in questi anni, con il suo Google Ricerca Libri, che offre oggi quasi dieci milioni di titoli. Due fattori che, come sottolinea Steven Johnson sul Wall Street Journal, potrebbero trasformare il 2009 "nell'anno più importante per l'evoluzione del libro dal giorno in cui Gutenberg stampò la sua prima Bibbia". Se a questo si aggiunge il successo che gli e-book stanno riscuotendo anche tra il pubblico giovanile che ha un iPod e scarica i libri da iTunes così come scarica musica e film, si capisce che quello che fino a poco fa sembrava un futuro lontanissimo, si è improvvisamente fatto più vicino. Ma perché diventi un fenomeno di massa ci vorrà ancora un po' di tempo. "La rapidità con cui l'elettronica ha sfondato nel campo dei media, dei dischi e dei film in particolare, è di gran lunga superiore a quella con la quale si affermerà nel campo dei libri", sostiene Paolo Repetti, responsabile della collana Stile Libero dell'Einaudi insieme a Severino Cesari, "non lo dico per passatismo ma perché credo che il libro ha un suo futuro proprio in quanto oggetto tecnologicamente potentissimo". È vero che fin qui tutti i sostituti tecnologici che sono stati proposti non hanno tutte queste caratteristiche messe insieme. "Ma è un innovazione tecnologica importante e gli editori dovranno farci i conti", dice ancora Repetti. Del resto l'era del libro digitale potrebbe davvero essere rivoluzionaria. Basta pensare a cosa è accaduto con la nascita della stampa. "Adesso la possibilità di avere in tasca migliaia di libri, di poterli consultare istantaneamente e trovare le informazioni di cui abbiamo bisogno potrebbe portare ad una nuova fioritura di idee, così come accadde nei secoli dopo Gutenberg", sottolinea il professore dell'Mit Joe Jacobson, uno degli inventori dell'inchiostro elettronico che è alla base della tecnologia di queste nuove macchine. E poi la possibilità di acquistare libri in ogni momento potrebbe portare a un aumento della lettura. Così dicono i dati di Amazon, secondo i quali i possessori del Kindle comprano molti più libri degli altri.
Ma in Italia c'è spazio per gli e-book? "Importa poco se il libro sia elettronico o di carta, quello che conta è il contenuto", dice Daniele Di Gennaro, della casa editrice minimum fax. "Solo in Italia ci facciamo problemi di questo tipo, perché tendiamo a sacralizzare la cultura. Negli Usa si forzano linguaggi e se c'è un pubblico che vuole gli e-book gli editori glieli danno. Da noi fece scandalo nel 1993 quando noi facevamo una rivista via fax ...". Di certo gli e-book fanno risparmiare agli editori i soldi della carta, della stampa e della distribuzione, offrendo nuove possibilità. "Dovrebbe favorire il dinamismo di piccoli gruppi che possono decidere velocemente", continua Di Gennaro, "l'editoria major oggi è costosissima già solo per mantenersi. Si pubblicano sessantamila novità all'anno. Nel futuro ci sono gli e-book, ma anche gli audiolibri, c'è il print on demand, il mercato si dividerà tra queste nuove opzioni e l'"oreficeria" del libro, per chi lo vuole come unità psicoaffettiva, quindi stracurata, di lusso, da conservare per sempre."(da Ernesto Assante, La rivoluzione e-book. Il libro nel taschino, "La Repubblica", 24/04/'09)
mercoledì 22 aprile 2009
World Digital Library
"E' il sogno di Aristotele che torna a splendere. Un luogo, come fu la biblioteca di Alessandria, che contenga la linfa stessa del sapere. Ma stavolta, come è nella logica dei tempi, i documenti sono raccolti su scaffali virtuali. E' la Biblioteca digitale mondiale - World Digital Library. Si possono consultare gratuitamente documenti storici, manoscritti, libri rari, film e registrazioni sonore, illustrazioni e fotografie, provenienti da importanti biblioteche del mondo intero. L'idea semplice, ma al tempo stesso molto ambiziosa, "creare un luogo di memoria, in un epoca che non ne ha più", è di James Billington, direttore della Biblioteca del Congresso americano, tra le più grandi al mondo con i suoi 32 milioni di volumi. Il sito nasce dalla collaborazione appunto della Biblioteca del Congresso americano con l'Unesco e (non poteva essere altrimenti) con il contributo tecnico di una equipe della Biblioteca di Alessandria in Egitto, oltre alla partecipazione di una trentina di partner tra biblioteche nazionali e centri culturali di tutto il mondo tra cui Africa del Sud, Arabia saudita, Francia, Inghilterra, Cina. Entrando nella Biblioteca digitale, si può curiosare tra le pagine del diario di Napoleone durante la campagna in Egitto o se si preferisce in quello del terzo presidente degli Stati Uniti Thomas Jefferson, oppure sfogliare la vita dei più grandi santi russi, inoltrarsi nei cavilli dei Codici Atztechi del periodo precolombiano, ascoltare la Marsigliese cantata nel 1898 e vedere il primo film parlato della storia uscito negli Usa nel 1972 'The jazz singer' (Il cantante jazz) di Alan Crosland. Tutto il materiale è in versione originale, mentre sono sette le lingue di ricerca: inglese, arabo, cinese, spagnolo, francese, portoghese e russo. Per Billington è una sfida ai tempi moderni, altrimenti "le nostre biblioteche diventeranno musei". Una sfida, però, che "non vuole assolutamente entrare in competizione" né con la biblioteca in internet europea Europeana né con la Google Books Search. "Il segno distintivo di questa nuova biblioteca on line è il suo fine didattico - ha detto oggi durante la conferenza stampa di presentazione all'Unesco Billington, 80 anni, ex professore di storia a Harvard che aveva proposto questo progetto all'Unesco nel 2005 - cioè quello di aumentare il livello di apprendimento universale". I contenuti presenti sono ancora ridotti, circa 1.250, destinati ad aumentare rapidamente, e soprattutto sono di elevata qualità, selezionati da specialisti. Si tratta di "documenti fondamentali" per la cultura del mondo. "Il sito della World Digital Library permetterà di navigare attraverso i secoli ed i continenti - ha continuato Billington - dobbiamo imparare a percepire gli altri paesi diversamente che come mercati concorrenti o nemici ideologici. Essere capaci di pensare l'Afghanistan o il Pakistan diversamente che come luoghi per terroristi. Fornendo l'accesso alle meraviglie che le loro culture hanno prodotto la Biblioteca digitale mondiale ci aiuterà a vincere gli stereotipi." (da Libri antichi, manoscritti e film la cultura globale va online, "La Repubblica", 21/04/'09))
martedì 21 aprile 2009
Madame Bovary: su Internet il manoscritto originale di Flaubert
"I brani originali. Le correzioni. Le annotazioni. In pratica, tutti i 4500 brogliacci scritti da Flaubert durante i sei anni di stesura del romanzo: il manoscritto integrale di «Madame Bovary» è adesso sul web. Il sito internet creato appositamente dalla Biblioteca Municipale di Rouen, città natale dello scrittore, permette di leggere i fogli originali del romanzo (compresi quelli scartati e modificati), appositamente trascritti grazie al lavoro volontario di 130 persone di 12 nazionalità.
La consultazione dei contenuti consentirà agli studiosi di penetrare all'interno della laboriosa stesura del romanzo, esaminare con attenzione le diverse versioni e osservare le correzioni e le aggiunte successive. La Biblioteca Municipale di Rouen, che possiede i manoscritti di Flaubert dal 1914 quando furono donati dalla nipote dello scrittore, ha lanciato l'iniziativa perché così intende mettere a disposizione dei navigatori del web e degli specialisti di letteratura «un prezioso materiale autografo e uno straordinario esempio di laboratorio creativo», ha precisato Danielle Girard, responsabile del progetto di digitalizzazione. «Finora a uno studioso per leggere una sola pagina manoscritta occorrevano anche tre ore perché la scrittura di Flaubert è di difficile decifrazione, ma grazie alla minuziosa trascrizione dei volontari adesso gli autografi potranno essere letti con estrema facilità», ha aggiunto Girard.
Il sito offre anche materiale sul successo del romanzo presso il pubblico (Madame Bovary fu pubblicato a puntate sulla «Revue de Paris» a partire dalla fine dell'ottobre 1856 e l'anno successivo fu raccolto in volume. Il romanzo procurò allo scrittore francese grande fama) e sul processo con l'accusa di oltraggio alla morale e alla religione da cui Flaubert fu poi assolto." (da Madame Bovary, su Internet il manoscritto originale di Flaubert, "Corriere della Sera", 21/04/'09)
Il colore del tempo di Alessandro Savini
“A Silvia,
con l’augurio affettuoso
che il colore delle sue stagioni future
sia terso e sereno,
nella dolcezza della memoria.”
Giovedì 7 maggio alle ore 21.15 presso la biblioteca civica di Garlasco presentazione del volume di Alessandro Savini, Il colore del tempo. Versi e pensieri inediti, a cura di Maria Forni, immagini del pittore Roberto Pelli.
L’anniversario
Interrogo i sensi, e scopro impietosi
i segni del tempo.
Scavo nella memoria, e conosco tutte
le rughe dell’esistenza.
Apro il tuo cuore, e ritrovo intatta
la sorgente dell’amore.
con l’augurio affettuoso
che il colore delle sue stagioni future
sia terso e sereno,
nella dolcezza della memoria.”
Giovedì 7 maggio alle ore 21.15 presso la biblioteca civica di Garlasco presentazione del volume di Alessandro Savini, Il colore del tempo. Versi e pensieri inediti, a cura di Maria Forni, immagini del pittore Roberto Pelli.
L’anniversario
Interrogo i sensi, e scopro impietosi
i segni del tempo.
Scavo nella memoria, e conosco tutte
le rughe dell’esistenza.
Apro il tuo cuore, e ritrovo intatta
la sorgente dell’amore.
lunedì 20 aprile 2009
Montagne ribelli di Paola Lugo
"Sollievo di togliersi gli scarponi induriti, la sensazione del terreno sotto la pianta dei piedi, le fitte dei ricci di castagne e dei cardi selvatici ... quei calzettoni sfondati sugli alluci e sui calcagni ..." (da Italo Calvino, La strada di San Giovanni)
"Quando uscimmo dalla nebbia a quota tremila, sul versante nord del crinale si spalancò il biancore abbacinante dei ghiacciai svizzeri. Era l'estate 2003, l'intera Val d'Aosta era immersa nella bambagia e, in direzione ovest, verso il colle del Gran San Bernardo, una cresta seghettata come la mascella di un caimano scendeva fino a un gigantesco ghiacciaio portale serrato da baluardi di roccia: la Fenètre Durand. Un posto fuori dal mondo, coperto di muschio e fiori gialli, immerso in un silenzio rotto solo dai fischi delle marmotte. la sera, a Ollomont, mille metri più sotto, ci dissero che nel settembre 1943 Luigi Einaudi era passato di lì per riparare in Svizzera. Ci mostrarono una foto di quei giorni: il futuro presidente della Repubblica portava basco, alpenstock, braghe alla zuava e una giacca di tweed. Seduto su un prato, aspettava la guida che l'avrebbe portato oltre, e quella guida era uno dei massimi alpinisti italiani. Un mito, Ettore Castiglioni. La sua firma l'avevo trovata ovunque, sulle pareti più impervie tra le Dolomiti e il Bianco. Pochi mesi dopo quella trasferta partigiana, Castiglioni sarebbe morto nella tormenta sulle stesse cime dove s'era nascosto per portare all'estero oppositori politici ed ebrei in fuga. Insieme ad alcuni alpini, aveva scelto di andare in montagna, fuirse para el monte, per ritemprarsi dai lutti di un ventennio e ricominciare da zero una vita nuova. Erano passati sessant'anni, ma Einaudi e Castiglioni erano ancora lì, presenti, nella nebbia della Fenètre Durand. Quel sentiero in Valpelline parlava meglio di tanti libri e monumenti. La strada tra nebbia e ghiacciai diceva una cosa semplice: per capire dov'era nata, nei nostri padri, la scelta solitaria e irrevocabile di mettersi fuorilegge, bisognava sporcarsi gli scarponi, calpestare le mulattiere percorse, prima che dai partigiani, da contrabbandieri, vagabondi ed eretici. E magari capire che la Resistenza è una cosa che continua, contro nemici talvolta più infidi di allora: la pestilenza dello spopolamento, il globale che uccide le diversità, la burocrazia che massacra di divieti l'economia di quota: pastorizia, malghe, rifugi. Ed è quanto accade, finalmente. C'è in silenzio, una svolta nella memoria nazionale sul più bistrattato dei temi, la guerra di Resistenza. Dopo tanta retorica e tante polemiche, si torna ai luoghi, perché i luoghi - almeno quelli - sono indiscutibili. Le Langhe del partigiano Johnny raccontate da Fenoglio; le impervie valli bellunesi dove passò Luigi Meneghello, le Apuane arcigne del romanzo di James Mcbride; le scarpate liguri, piene di cardi e ricci di castagno, penosamente calpestate da Italo Calvino. Tornare dunque alle 'montagne ribelli'. Così le chiama Paola Lugo nel libro dallo stesso titolo che esce alla vigilia del 25 aprile per Mondadori. Camminare per ricordare, perché l'andatura è la base della narrazione e perché i partigiani, prima di sparare, camminarono disperatamente, macinarono chilometri in giorni e notti di paura, pioggia, solitudine, smarrimento, nel freddo bestia o nel caldo feroce dei canaloni. Camminare perché ricordare 'con i piedi', talvolta, è meglio che commemorare con le parole [...]" (da Paolo Rumiz, A piedi sui sentieri ribelli. Un altro modo di ricordare, "La Repubblica", 19/04/'09)
"Quando uscimmo dalla nebbia a quota tremila, sul versante nord del crinale si spalancò il biancore abbacinante dei ghiacciai svizzeri. Era l'estate 2003, l'intera Val d'Aosta era immersa nella bambagia e, in direzione ovest, verso il colle del Gran San Bernardo, una cresta seghettata come la mascella di un caimano scendeva fino a un gigantesco ghiacciaio portale serrato da baluardi di roccia: la Fenètre Durand. Un posto fuori dal mondo, coperto di muschio e fiori gialli, immerso in un silenzio rotto solo dai fischi delle marmotte. la sera, a Ollomont, mille metri più sotto, ci dissero che nel settembre 1943 Luigi Einaudi era passato di lì per riparare in Svizzera. Ci mostrarono una foto di quei giorni: il futuro presidente della Repubblica portava basco, alpenstock, braghe alla zuava e una giacca di tweed. Seduto su un prato, aspettava la guida che l'avrebbe portato oltre, e quella guida era uno dei massimi alpinisti italiani. Un mito, Ettore Castiglioni. La sua firma l'avevo trovata ovunque, sulle pareti più impervie tra le Dolomiti e il Bianco. Pochi mesi dopo quella trasferta partigiana, Castiglioni sarebbe morto nella tormenta sulle stesse cime dove s'era nascosto per portare all'estero oppositori politici ed ebrei in fuga. Insieme ad alcuni alpini, aveva scelto di andare in montagna, fuirse para el monte, per ritemprarsi dai lutti di un ventennio e ricominciare da zero una vita nuova. Erano passati sessant'anni, ma Einaudi e Castiglioni erano ancora lì, presenti, nella nebbia della Fenètre Durand. Quel sentiero in Valpelline parlava meglio di tanti libri e monumenti. La strada tra nebbia e ghiacciai diceva una cosa semplice: per capire dov'era nata, nei nostri padri, la scelta solitaria e irrevocabile di mettersi fuorilegge, bisognava sporcarsi gli scarponi, calpestare le mulattiere percorse, prima che dai partigiani, da contrabbandieri, vagabondi ed eretici. E magari capire che la Resistenza è una cosa che continua, contro nemici talvolta più infidi di allora: la pestilenza dello spopolamento, il globale che uccide le diversità, la burocrazia che massacra di divieti l'economia di quota: pastorizia, malghe, rifugi. Ed è quanto accade, finalmente. C'è in silenzio, una svolta nella memoria nazionale sul più bistrattato dei temi, la guerra di Resistenza. Dopo tanta retorica e tante polemiche, si torna ai luoghi, perché i luoghi - almeno quelli - sono indiscutibili. Le Langhe del partigiano Johnny raccontate da Fenoglio; le impervie valli bellunesi dove passò Luigi Meneghello, le Apuane arcigne del romanzo di James Mcbride; le scarpate liguri, piene di cardi e ricci di castagno, penosamente calpestate da Italo Calvino. Tornare dunque alle 'montagne ribelli'. Così le chiama Paola Lugo nel libro dallo stesso titolo che esce alla vigilia del 25 aprile per Mondadori. Camminare per ricordare, perché l'andatura è la base della narrazione e perché i partigiani, prima di sparare, camminarono disperatamente, macinarono chilometri in giorni e notti di paura, pioggia, solitudine, smarrimento, nel freddo bestia o nel caldo feroce dei canaloni. Camminare perché ricordare 'con i piedi', talvolta, è meglio che commemorare con le parole [...]" (da Paolo Rumiz, A piedi sui sentieri ribelli. Un altro modo di ricordare, "La Repubblica", 19/04/'09)
White Books
"Prima che imparassimo a leggere, i libri entravano in contatto con noi nell'unico modo in cui potevano farlo: in qualità di oggetti. Quasi sempre, poi, una volta imparato a decifrare il loro contenuto, ci concentriamo solo su quello. E perdiamo tanto. Perché la fisicità dell'"oggetto-libro" - lo abbiamo ripetuto spesso - è, anzi, un fattore determinante della loro belleza e importanza. Della loro stessa essenza. Lo hanno avuto sempre ben chiaro tutti coloro che i libri li hanno materialmente 'fatti': stampatori, editori e, non certo ultimi, gli artisti. Da qualche tempo si stanno moltiplicando gli artisti che operano sui libri: in vario modo e con varie tecniche. Quale che sia il risultato, il loro gesto ci dà occasione di riflettere su cosa sia un libro e su quali emozioni ci susciti. Non parliamo qui solo del 'libro d'artista', ma più che altro del libro utilizzato a fini artistici. Chi ha presente le opere di Su Blackwell, per esempio, sa quali suggestioni l'artista inglese ricava sminuzzando le pagine e ritagliando figurini che stanno in rapporto simbiotico con il testo. Mentre Claire Brewster, altra artista inglese, fraziona vecchi atlanti e crea cartoline ironiche e leggere, ottenendo a volte paesaggi immaginari. O Kylie Stillman, australiana, che 'scava' dai libri uccellini o bonsai bellissimi, talora di grandi dimensioni. Altri artisti cercano dal libro risposte funzionali a un loro discorso che prende l'oggetto-libro solo come pre-testo e con-testo, ma non è la principale ragione della loro azione. Così fa, tra gli altri, in Italia, Lorenzo Missoni in alcune sue opere che parlano dei libri o parlano dai libri: qui i libri si incastrano, si perdono, germogliano al loro interno delle civette che ci osservano: diventano, insomma, sempre qualcosa d'altro. Ma sono anche sempre se stessi: una lezione che Bruno Munari aveva capito fin troppo bene. Se però i libri d'artista o i libri opera d'arte non fanno per voi e vi 'accontentate' di quelle che gli inglesi chiamano fine edition non perdetevi i primi titoli di una piccola casa editrice londinese. Si chiama White Books: l'ha creata David Pearson, ex designer per Penguin. Consiglio Jane Eyre della Bronte: un 'manufatto cartaceo' (Giorgio Lucini Tipografo dixit ...), capolavoro di eleganza e sobrietà da tenere sempre d'occhio." (da Stefano Salis, Quel libro è un'opera d'arte, "Il Sole 24 Ore Domenica", 19/04/'09)
Vassalli: "Strega trasparente? Spero di no"
"'Un premio democratico e trasparente? Speriamo di no, altrimenti è la fine dello Strega'. Sembra una provocazione, invece Sebastiano Vassalli la vede come una parola di saggezza, anche se subito dopo ammette: 'L'unica mia saggezza è consistita nel tirarmi fuori da queste cose. Quando l'ho vinto, nel '90 con La chimera, non credo che la mia casa editrice, Einaudi, mi volesse realmente candidare. Le cose andarono così: Federico Zeri lo lesse, gli piacque e, non essendo in giuria, scrisse alla segreteria di essere ammesso tra i quattrocento Amici della Domenica per poterlo candidare'. Sei anni più tardi, allo stesso editore, Vassalli ha chiesto di stampare sulla copertina di Cuore di pietra una fascetta che diceva: 'Per volontà dell'autore questo libro non concorre a premi letterari'. Insomma l'autore di Marco e Mattio ha tutti i titoli per entrare nella querelle che infiamma il dibattito culturale di questi giorni: il ritiro di Del Giudice in seguito alle polemiche che lo davano vincitore annunciato, il rientro di Andrea Vitali dopo la precedente decisione del suo gruppo editoriale (Mauri Spagnol) di astenersi dalla corsa, la partecipazione di Antonio Scurati che da settimane era data per scontata, ma che l'autore ora proclama in prima persona battendo sul tempo l'annuncio del suo editore Bompiani. 'Per quello che conosco De Mauro, credo sia vero che voglia fare un premio il più possibile trasparente - dice Vassalli -. Il che mi preoccupa parecchio. Di Annamaria Rimoaldi si è spesso detto male, ma io la considero una vera e propria eroina votata alla letteratura. E' stata capace di dare un senso a qualcosa che non aveva più senso come lo Strega, un premio nato nell'immediato dopoguerra, in anni caratterizzati da una miseria economica ma anche da un grande fervore culturale. Allora i premi, pur nel loro provincialismo, erano qualcosa di autentico. La Rimoaldi ha cercato di mantenere questo spirito, una lotta titanica per impedire che il vincitore coincidesse con il primo in classifica, che il valore letterario si appiattisse sul valore di mercato'. Insomma, nella visione forse un po' apocalittica di Vassalli, la Seconda Repubblica dello Strega porterà alla prevalenza del commerciale. 'Stando così le cose ha fatto bene Del Giudice a ritirarsi: ho forti dubbi che avrebbe vinto. Invece ha fatto male Erri De Luca a dire di no alla competizione perché avrebbe avuto buone possibilità: il suo è un libro di grande successo, è stato primo in classifica, ha venduto molto'. [...] Vassalli non ha fiducia nel 'giudizio indipendente' della società letteraria che gli Amici della Domenica rappresentano. 'C'è varia umanità, non solo scrittori, editori e critici, ma anche politici, un po' di tutto'. Insomma per questo Strega non c'è scampo secondo Vassalli: o vincono le lobby editoriali o vince la classifica, e nessuna delle due ipotesi gli piace. [...]" (da Cristina Taglietti, Strega trasparente? Spero di no, "Corriere della Sera, 18/04/'09)
Riccardo Chiaberge: "Il blog porta la democrazia (allo Strega)"
"La prima profezia è di Ronald Reagan, e risale al 1989: «Il Golia totalitario sarà abbattuto dal David del microchip». Censurare Internet - dirà più tardi Bill Clinton – «è come cercare di inchiodare al muro un budino». E il suo successore George W.Bush, in un impeto di entusiasmo: «Immaginate se il Web prendesse piede in Cina: come si espanderebbe subito la libertà!». La sirena del «cyber-ottimismo» ha sedotto perfino un businessman scafato come Rupert Murdoch: «L’avanzata delle telecomunicazioni – giurava anni fa – rappresenta una minaccia per i regimi autoritari in ogni parte del mondo» (salvo poi, subito dopo, piegarsi al ricatto delle autorità di Pechino che volevano oscurare le sue reti). Contro questa sorta di «determinismo tecnologico» si schiera sulla «Boston Review» il politologo Evgeny Morozov: i prodigi di Web 2.0, dalla galassia dei blog a YouTube, da Google a Facebook, sono armi a doppio taglio, che possono servire con uguale efficacia la causa della libertà e quella della repressione. È vero che in Ucraina, in Birmania o in Zimbabwe, oppositori e attivisti dei diritti civili hanno usato questi strumenti per organizzare rivolte e denunciare soprusi, tanto che qualcuno ha parlato di «smart mobs» («masse intelligenti»). Ma è pure vero che i governanti cinesi assoldano commentatori online per fare propaganda al regime e nella Russia di Putin una compagnia privata legata al Cremlino filtra e manipola le notizie su Internet. E se i blogger iraniani o sauditi che scrivono in inglese rassicurano gli occidentali con i loro inni alla democrazia, quanti altri difendono in parsi o in arabo le idee degli Ayatollah e dei Fratelli Musulmani? Meglio non farsi troppe illusioni sulle virtù taumaurgiche del «social networking». Ma anche se non riescono a buttare giù i tiranni con la T maiuscola, le tecnologie digitali possono fare parecchio male ai tirannelli che infestano tanti ambienti, a cominciare dai premi letterari. È stato un video registrato sul telefonino da un domestico di Mauritius (e prontamente ripreso da vari siti internet) a dare il primo scossone all’impero del Grinzane Cavour. Ed è stato un blog, quello di Mario Fortunato, a denunciare le manovre in atto intorno allo Strega, spingendo il vincitore annunciato, Daniele Del Giudice, a un ritiro dignitoso (come peraltro la «Domenica» gli aveva suggerito) e aprendo la strada all’autocandidatura di Antonio Scurati e a una rosa di altri nomi, da Andrea Vitali a ben sette esordienti. Aveva ragione Reagan: il David Fortunato ha fermato il Golia Mondadori. Dalle «smart mobs» alle «smart pens». Anche il Ninfeo di Villa Giulia vedrà la sua rivoluzione arancione?" (da Riccardo Chiaberge, Il blog porta la democrazia (allo Strega), "Il Sole 24 Ore Domenica", 19/04/'09)
sabato 18 aprile 2009
La grande storia del Tamigi di Peter Ackroyd
"Tra i fiumi famosi che hanno cullato le civiltà umane il Tamigi è uno dei più corti, solo 345 chilometri; i più lunghi, ossia il Rio delle Amazzoni e il Mississippi, superano i 6000. Ma trecento di questi chilometri sono sempre stati navigabili, e risalendo l’estuario nel Mare del Nord si arriva a un comodo porto naturale che nell’Ottocento arrivò a essere il più grande e trafficato del mondo.
Il nome è antichissimo: Tamesa per gli indigeni, Thamesis per i romani, potrebbe derivare dal celtico tam, «esteso», più esa, «acqua corrente». Ma c’è anche un termine pre-celtico, indoeuropeo, Tamasa (così si chiama un affluente del Gange), che significa «scuro», con una sfumatura di sacro rispetto («temere», «timore»).
I più antichi insediamenti lungo le sponde del Tamigi, largamente documentabili, risalgono al neolitico, 3500 anni avanti Cristo, ma la principale città che il Tamigi avrebbe nutrito e in molti modi spinto verso la grandezza cominciò a esistere molto più tardi, fondata probabilmente dai romani, anche se il suo nome sembra anch’esso di origine celtica, forse da llyn-din, «collina presso l’acqua». Non c’erano abitazioni là dove Cesare attraversò il Tamigi, presso l’attuale Westminster; e quando Claudio occupò stabilmente la Britannia, la capitale che conquistò era Colchester. L’insediamento romano sul Tamigi nacque in quest’epoca e prosperò rapidamente; è affascinante l’ipotesi avanzata da Federico Zeri, che la sua prima raffigurazione rimastaci sia l’affresco con una città fluviale recentemente scoperto nella neroniana Domus Aurea. Se questo affresco davvero rappresenta Londinium, Peter Ackroyd rimpiangerà di esserselo fatto sfuggire dalla sua rivisitazione del Tamigi in tutti i suoi aspetti possibili e immaginabili, La grande storia del Tamigi, in libreria dal 23 aprile per Neri Pozza (trad. di Roberto Serrai, pp. 512, e 24). Prolifico romanziere e biografo, autore di un meraviglioso volume sulla città di Londra ieri, oggi e in ogni epoca, al fiume di Londra Ackroyd dedica ora più che uno studio o un ritratto, una enciclopedia articolata in numerosi capitoli brevi ma assai densi e sempre documentatissimi, spesso insaporiti con citazioni da letture inconsuete. I capitoli sono raggruppati in settori, e ciascuno copre un arco storico. Per esempio l’inizio, dedicato all’aspetto sacro del fiume, comincia con l’antichità (maghi, indovini, druidi, sacrifici umani) e continua col Medioevo (santi, monasteri, culto della Vergine Maria cui sono dedicate più di cinquanta chiese), per arrivare ad epoche più recenti, quando la via d’acqua diventa percorso di fastose processioni regali. Viene poi il settore-lavoro, col catalogo delle varie imbarcazioni tipiche del fiume - chiatte, traghetti, bettoline... -; con la rassegna dei ponti, dai resti del più antico (a Eton, Età del Bronzo) al più moderno (il Millennium Bridge tra la City e la Tate Modern, 2002), passando naturalmente per il mitico London Bridge, per secoli unico di Londra città, sul quale una volta si ergevano abitazioni e botteghe, e dove erano sempre esposte le teste mozzate dei delinquenti. Sono quindi catalogati i lavoratori del fiume - barcaioli, pescatori, scaricatori, magazzinieri - e sono rintracciate alcune famiglie di questi che hanno mantenuto le stesse mansioni e più o meno le stesse residenze anche per cinque secoli. La sezione dedicata al commercio comincia con le duemila imbarcazioni che ogni giorno percorrevano il Tamigi negli anni 1720, secondo la testimonianza di Daniel Defoe, e continua con la descrizione di grandiose opere (bacini, chiuse...) compiute in vari periodi per controllare le piene e favorire i traffici; si parla dell’avvento del vapore, e della lotta che a un certo punto si svolse tra i trasporti fluviali e la ferrovia. Tocca quindi alla natura: i venti caratteristici del Tamigi, le piene, le gelate un tempo così intense, oggi rese impossibili dal più agile scorrimento delle acque; gli alberi, compresi quelli fossili, di età preistoriche, e la fauna caratteristica, in cui spiccano i misteriosi e un tempo diffusissimi cigni. C’è una zona dedicata agli svaghi, come le gite: tra le tante se ne ricorda una del 1555, organizzata da un intraprendente signore per portare a Oxford coloro che volevano assistere al rogo dove si bruciarono due vescovi cattolici. Si rievocano i parchi e i giardini privati un tempo disseminati lungo le rive; si ricordano le regate e altri avvenimenti sportivi molto seguiti dalla popolazione - la sfida remiera tra Oxford e Cambridge risale addirittura al 1829. C’erano anche passatempi più grevi, feste ribalde, fiere frequentate da ogni sorta di farabutti, bordelli. Ma non tutto è ameno sul fiume, che in certi periodi fu una vera fogna a cielo aperto, tanto che a metà del secolo scorso non vi si trovavano quasi più pesci; adesso però grazie agli impianti di filtraggio se ne sono ripresentate diverse specie. Non poteva mancare, infine, una ricca sezione dedicata ai rapporti del Tamigi con l’arte. Tra i pittori che raffigurarono appassionatamente l’almo corso d’acqua la palma va a Turner, che tra l’altro visse sempre a poca distanza dalle sue rive; lo segue l’americano Whistler, che è addirittura sepolto vicino al Tamigi, a Chiswick. Tra i letterati la fila è più lunga, e comprende John Camden (Britannia, 1586), Dickens, Conrad, Lewis Carroll e Jerome K. Jerome, narratori questi ultimi di due gite celeberrime, quella dove nacquero le storie di Alice e quella di Tre uomini in barca, classico dell’umorismo e del turismo fluviale. Tra i molti poeti spiccano, dopo Pope che ebbe una celebre villa con giardini a Twickenham, Shelley e il barcaiolo-verseggiatore John Taylor." (da Masolino D'Amico, Da Cesare alla City in barca sul Tamigi, "TuttoLibri", "La Stampa", 18/04/'09)
Un incontro di Milan Kundera
"Tra gli scrittori contemporanei, l'ottantenne Kundera può essere annoverato tra i pochi in grado di formulare rilevanti osservazioni sull'estetica sottesa all'arte romanzesca. E' una tradizione novecentesca che ha il suo prototipo in Henry James, poi nel Proust del Contro Sainte Beuve, in Musil con la sua utopia del saggismo, un'arte che eccelle in Hermann Broch e che si perpetua in Nabokov e Canetti, Gombrowicz e Calvino. Dapprima Kundera ha pubblicato un libro dal titolo programmatico: L'arte del romanzo, poi ne ha approfondito le tesi con I testamenti traditi, ne ha sviluppato ulteriori aspetti ne Il sipario e infine ha perfezionato il quadro complessivo in questa raccolta, Un incontro: in realtà, molti incontri in cui l'estetica dello scrittore praghese interagisce con singole, predilette espressioni artistiche. Tutti questi, spesso brevi ma folgoranti, ritratti di artisti (da Céline a Hrabal, da Fuentes a García Márquez, da Kis a Chamoiseau, da Schönberg a Janácek, fino alla sorprendente rivalutazione di Curzio Malaparte) sono pervasi dalla nostalgia per quella sapienza che si manifestava gioiosamente nella libertà compositiva dei primi romanzieri, da Rabelais a Cervantes fino a Fielding e Sterne, unita alla preoccupazione che si perda lo humour specifico del romanzo (qui definito «l'ultimo rifugio dell'uomo»), che abita quel territorio in cui è sospeso ogni giudizio morale: una mirabile e tenace professione di fede nella letteratura, in quanto il romanzo è l'ultimo osservatorio dal quale si possa abbracciare nel suo insieme la nostra esistenza, dando voce all'intollerabile «banalità della vita quotidiana», campo di esplorazione che la filosofia ha colpevolmente abbandonato.
Kundera esprime compiutamente la propria prospettiva teorica in termini di compensazione tra filosofia e romanzo: «se la filosofia non ha saputo pensare la vita dell'uomo, penetrarne la “metafisica concreta”, tocca al romanzo occupare questo terreno vuoto sul quale nulla potrebbe sostituirlo». Pertanto si può affermare che «allo stesso modo in cui Nietzsche ha riavvicinato la filosofia al romanzo, Musil ha riavvicinato il romanzo alla filosofia». Mantenendo la stessa libertà compositiva che caratterizzava il lavoro dei romanzieri antichi, il moderno romanzo pensato (persino quello di Anatole France vituperato per la sua proverbiale leggerezza) eredita dalla lezione nietzscheana il pensiero della prossimità, la fedeltà alla terra. L'epoca del romanzo è quella in cui diventano inoppugnabili i diritti dell'individuo, inteso come singolarità irripetibile e tetragona allo spirito di sistema che aleggia in ogni prospettiva filosofica. La storia del romanzo reclama la propria indipendenza dalla Storia dell'Umanità, rivendica la libertà della creazione personale che contrasta e sfida un anonimo sistema di regole preesistenti. In radicale opposizione alla mentalità metafisica e teocratica, il romanzo sembra «un universo alieno fondato su un'altra ontologia, un'inferno nel quale la verità unica non ha potere e la satanica ambiguità trasforma ogni certezza in enigma». Lo humour è la consapevolezza del finito priva dell'anelito all'infinito, l'euforia generata da quel grande «carnevale della relatività» che è il romanzo e forse la vita stessa, la benevola incompetenza a giudicare il mondo, l'inebriante certezza di aver edificato qualcosa su fondamenti invisibili, consapevolezza che accomuna lo scrittore al pensiero postmoderno. Mentre il filosofo esercita il suo gusto per la teoria, l'astrazione e l'essenza, il romanziere predilige la contingenza, l'ironia e la solidarietà (termini cari a Richard Rorty), sopporta che un enigma rimanga tale, che uno sguardo appaia imperscrutabile, riassorbito dall'immane futilità dell'esistenza, disponibile a cogliere come un dono inatteso «la bellezza di una repentina densità della vita». Alla distinzione concettuale tra realtà e apparenza, Rabelais, Tolstoj o Musil preferiscono la descrizione della molteplicità degli eventi e dei punti di vista, senza decretarne il valore di verità. I romanzieri intendono il mondo come avventura, ambiguità, complessità irresolubile, dilemma indecidibile e possiedono una preziosa e irriducibile saggezza dell'incertezza. Introducendo un toccante esercizio di ammirazione rivolto a Fellini, lo scrittore boemo esprime la desolante sensazione di vivere «in un mondo dove l'arte scompare perché scompaiono il bisogno dell'arte, la sensibilità, l'amore per l'arte». Di questa invincibile philìa appare come preziosa testimonianza lo splendido saggio consacrato all'opera di Francis Bacon, nel quale viene rievocato l'incontro con una ragazza praghese, intelligente, piena di spirito, la quale suscita nello scrittore non il comprensibile desiderio di fare l'amore con lei ma quello assurdo e ingiustificabile di possederla brutalmente, di profanarne impudicamente l'inaccessibile essenza. Di fronte agli occhi colmi d'angoscia della fanciulla, Kundera si identifica con lo sguardo di Bacon che si posa sul volto dell'altro come una mano brutale che vuole impossessarsi con la forza del nucleo intangibile di un essere vivente. Da remota e inquietante traccia mnestica, il ricordo dello scrittore praghese viene elaborato come problema filosofico: «i ritratti di Bacon sono un'interrogazione sui limiti dell'io. Fino a quale grado di distorsione un individuo resta ancora se stesso? Fino a quale grado di distorsione un essere amato resta ancora un essere amato? Per quanto tempo un volto caro che sprofonda nella malattia, nella follia, nell'odio, nella morte, resta riconoscibile? Dov'è la frontiera al di là della quale un “io” cessa di essere “io”'?». Destituita di fondamento ogni credenza metafisica e religiosa, resta un'identità infinitamente fragile, un soggetto vulnerabile, esposto alla persistente minaccia del mondo esterno e turbato dalle contraddittorie pulsioni che sintomatologicamente il corpo fa valere, affermando il proprio carattere accidentale, sofferente e insensato. Così come accade nei personaggi di Samuel Beckett, nella cui opera peraltro il pittore inglese diceva di non riconoscersi. La verità del corpo, l'orrore che ne scaturisce, è la sua accidentalità, colta e svelata in «quell'accidente privo di senso» che è la vita. Sarà ancora possibile tessere il panegirico del romanzo a condizione che esso sappia dar forma a tale lucido, fisiologico, disincantato se non brutale empirismo." (da Marco Vozza, Kundera, L'ultimo rifugio dell'uomo, "TuttoLibri", "La Stampa", 18/04/'09)
martedì 14 aprile 2009
Rita Levi Montalcini: "Ho vissuto un secolo senza padroni"
"Visto di persona, il volto notissimo di Rita Levi-Montalcini colpisce per il colore verde acqua degli occhi — «La vista è calata, ma uso uno speciale visore che ingrandisce le parole di libri e giornali e mi consente di leggere da sola» —, e per la bellezza dei gioielli. «Li ho disegnati io. Questo bracciale l’ho fatto per mia sorella Paola. Questo invece è l’anello di fidanzamento di mia madre. La fedina me l’hanno regalata a Uppsala: è il simbolo del mio matrimonio con la scienza. La prima volta che andai in America, mi chiesero chi fosse mio marito. Non erano abituati a una donna che conducesse la sua vita di studiosa da sola. 'I’m my own husband', sono il marito di me stessa, risposi. Non capirono. Pensarono non sapessi l’inglese».
Professoressa Levi-Montalcini, tra dieci giorni, il 22 aprile, il paese intero si stringerà a lei per il suo compleanno. Com’è la vita a cento anni? «Ottima. Anche l’udito è calato. Ma il cervello per fortuna funziona». È vero che mangia e dorme pochissimo? «Sì. Mangio una sola volta al giorno, dormo due o tre ore per notte».
Legge? «Sì. I quotidiani: Repubblica e Corriere della Sera. E pubblicazioni scientifiche. Ma non la notte. La notte penso alle ricerche e agli esperimenti per il giorno dopo. Il mattino vado all’Ebri: European Brain Research Institute. C’è un gruppo di giovani ricercatrici molto affiatato, che lavorano in laboratorio. Il pomeriggio mi sposto alla Fondazione che porta il mio nome. La coordina Giuseppina Tripodi, al mio fianco da molti anni, consigliere delegato della Fondazione che ha come scopo il sostegno all’istruzione, a tutti i livelli, delle donne africane».
Le piacciono i giovani d’oggi? «Questa è una domanda generica. Ci sono giovani eccellenti, ma sono una minoranza. Ce ne sono molti che non sono diversi da quelli del passato. Purtroppo, sono riapparsi i fascisti». Ho letto che ai fascisti lei non porta rancore. È così? «Non è così! Rancore ne ho per quello che hanno fatto: lo sterminio degli ebrei, la Germania distrutta, l’Italia a pezzi. Non ho rancori personali, quelli no. Senza le leggi razziali, quando lo Stato stabilì che la mia famiglia e io appartenevamo a una razza inferiore, non sarei stata costretta a lavorare chiusa nella mia camera da letto, dove avevo allestito un piccolo laboratorio, sia a Torino che ad Asti. Ricerche che nel 1986 mi hanno portato a Stoccolma». Quali sono stati i libri della sua vita? «Kafka. Calvino. E Primo Levi. Se questo è un uomo me lo regalò sua sorella. L’editore Einaudi l’aveva rifiutato, su indicazione di Natalia Ginzburg, e l’aveva pubblicato Antonicelli con la sua piccola casa editrice. Fu una folgorazione. Con Primo diventammo molto amici. Ho sofferto per la sua tragica fine; anche se credo che non sia andata come è stato raccontato». Cioè crede che Primo Levi non si sia suicidato? «Una persona della sua altezza morale non decide di buttarsi giù dalle scale: non era nello stile di Primo Levi. Sono convinta sia andata diversamente: penso che abbia perso l’equilibrio». Lei è stata allieva del padre di Natalia Ginzburg, Giuseppe Levi, il protagonista di Lessico famigliare. «Una persona di valore. Non una mente originale, ma un bravo maestro. Eravamo in tre, Dulbecco, Luria e io: tutti suoi allievi, tutti arrivati a Stoccolma. Ricordo quando Giuseppe Levi venne a Firenze, nella pensione dov’eravamo nascosti, e non sapeva che nome dire. Per non sbagliare, chiese solo: dov’è la Rita?». Eravate fuggiti da Torino? «Dopo l’8 settembre lasciammo Torino per raggiungere il Sud, ma scendemmo di soppiatto a Firenze perché sul treno avevo notato un ufficiale fascista. Arrivammo alla pensione dando un falso nome, il primo che mi era venuto in mente: Lupani. I proprietari avevano intuito qualcosa, ma tacquero».
Lei ha conosciuto bene altri due grandi del Novecento: Bobbio e Montanelli.
«Con Bobbio eravamo amici di famiglia: suo padre e suo fratello Antonio erano chirurghi. Vecchie frequentazioni torinesi. Siamo rimasti amici per tutta la vita. Con Montanelli eravamo coetanei: nati lo stesso giorno mese e anno, il 22 aprile 1909. A lungo ho fatto fatica a stimarlo: era un uomo di destra. Poi l’ho conosciuto di persona. E l’ho stimato». Lei nel biennio del governo Prodi è stata molto lodata e molto criticata per la sua scelta di sostenere sempre il governo. «Stimo molto Prodi, e anche la Finocchiaro. Non ho mai mancato una votazione perché il mio voto era decisivo; ora che è ininfluente non serve la mia presenza. Ma non ho mai inteso la mia funzione di senatore a vita come una funzione di parte. Sento di rappresentare l’intero mio Paese, tutti gli italiani». Ci sono donne e uomini di destra che stima? «Innanzitutto, Gianni Letta. L’ho visto di recente: uomo di valore, al servizio dello Stato italiano. Conosco da tempo la Moratti, una persona seria. Ora ho incontrato anche Alemanno e con mia sorpresa l’ho trovato simpatico, mi piace quando parla. Mi pare stia facendo bene il sindaco di Roma». Lei ha incontrato anche la Gelmini. Che impressione le ha fatto? «Buona. Una persona gentile, con cui è facile comunicare. Abbiamo instaurato un eccellente rapporto. La stimo anche per le cose che ha fatto: il ripristino del voto di condotta è giusto. Pur essendo così giovane e pur non avendo conoscenze scientifiche, visto che è avvocato, sta svolgendo il suo lavoro con coerenza». È vero che l’ha emozionata più la notizia della nomina a senatore a vita di quella del Nobel? «Sono state due emozioni diverse. Da Stoccolma chiamarono mentre stavo leggendo un giallo di Agatha Christie, Dieci piccoli indiani. Mentre ricordo a memoria la telefonata dal Quirinale: 'Sono Ciampi. La nomino senatore a vita per la sua attività scientifica e sociale, e la abbraccio'. La mia ammirazione e gratitudine per Ciampi è stata ed è enorme. Anche per Napolitano, che incontro spesso, ho viva simpatia e ammirazione». Non le sono mancati un marito e i figli?
«Ero ancora adolescente quando decisi che non mi sarei sposata. Dissi a me stessa che non avrei mai obbedito a un uomo come mia madre obbediva a mio padre. Eravamo una famiglia vittoriana. Mamma dipendeva dalle decisioni che venivano da mio padre. Era questo il motivo per il quale gli serbavo rancore. L’ho stimato solo dopo la sua morte precoce». Com’è il suo rapporto con Israele? Teme per il futuro?
«Sono molto amica del presidente, Shimon Peres. Spero che l’apertura di Obama all’Iran dia buoni risultati. Se si dovessero usare armi distruttive non scomparirebbe solo Israele. Per questo la sua distruzione non è accettabile, non è concepibile, e non la penso possibile». Ricorda l’altra grande crisi, quella del 1929? «Certo. Ero ragazza, e rammento un’epoca dura, difficile. Oggi ritrovo un’atmosfera analoga, ma anche con motivi di speranza. Ricorderò sempre il primo viaggio in America: in particolare mi aveva colpito il fatto che i neri, quando salivo sull’autobus, erano tenuti ad alzarsi per cedermi il posto in quanto bianca, e io non riuscivo a comprenderne la ragione. Oggi però un nero è presidente degli Stati Uniti. E può rappresentare per l’America un nuovo Roosevelt». Vivremo davvero molto più a lungo? «No. Non c’è posto. Se tutti vivessimo sino a cento o più anni, non lasceremmo il giusto spazio ai nuovi nati». Lei è stata la prima donna ammessa all’Accademia Pontificia. Che ricordo ha di Wojtyla? «Meraviglioso. Una personalità carismatica, spesso incompresa dai laici. Non tutti capirono che era uomo illuminato, progressista. Certo più di Roncalli, che prima di diventare Papa intratteneva rapporti amichevoli con Mussolini». E Ratzinger? «Ho avuto modo di incontrarlo varie volte: è persona estremamente colta, con una forte preparazione filosofica. Come Pontefice, non posso e non debbo giudicarlo». Non ha paura della morte?
«Non me ne importa. È solo il corpo che muore. Credo che qualcosa di noi sopravviva».
L’anima? «No. Il messaggio. Le azioni, i pensieri è quanto rimane di ognuno di noi. Io credo di lasciare buone azioni, buoni pensieri. Per questo, anche se alla mia età può succedere in ogni momento, non ho paura di morire»." (da Aldo Cazzullo, Ho vissuto un secolo senza padroni, "Corriere della Sera", 12/04/'09)
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