mercoledì 8 aprile 2009

La seduzione della cultura nella storia tedesca di Wolf Lepenies


"Non saranno i grandi ingegni che hanno viziato un po’ troppo i tedeschi abituandoli a baloccarsi con la cultura e a trascurare la politica? Goethe e Schiller, Kant e Hegel, Beethoven, Wagner e Nietzsche, per citarne solo alcuni, esaltano la grandezza dello spirito tedesco maanche la sua incapacità di incarnarsi in istituzioni. Ce lo ricorda il sociologo Wolf Lepenies in un affascinante e denso saggio, La seduzione della cultura nella storia tedesca (Il Mulino), rivisitando con un’amplissima prospettiva e in versione nuova temi già affrontati in libri come Malinconia e società (1969) e Le tre culture. Sociologia fra letteratura e scienza (2000). Fin dall’inizio dell’epoca moderna la vita culturale del paese è rimasta estranea alla gestione del potere. La cultura è stata compensazione, sostiene l’autore, surrogato di un’azione politica vissuta come delusione e mancanza di libertà. Come l’Italia anche la Germania raggiunse tardi l’unità nazionale. Era più facile sentirsi tedeschi a teatro, come ai tempi di Lessing, o fra le pagine del Werther goethiano che non alla corte di un qualche principe o duca. Weimar non fu un centro di potere, mala culla del classicismo tedesco. Persino Napoleone venerava Goethe e dunque come non montarsi la testa anche se il paese era a pezzi? Nietzsche rincarò la dose affermando che «ciò che è grande nel senso della cultura era impolitico, anzi antipolitico». Ma lo scetticismo verso la res publica finì per rendere accettabile anche l’assenza della morale come dimostrarono tragici eventi del ’900. Fra letteratura e sociologia, idee e fatti Lepenies mette a fuoco ben altro concetto di responsabilità usando come filo conduttore l’opera e la personalità di Thomas Mann, il quale, pur dubbioso verso i sentimenti democratici dei propri compatrioti, fin dalle Considerazioni di un impolitico (1918) cercò di confutare l’ idea che potere e intelletto non potessero riconciliarsi. Ancora nel 1933 affermò echeggiando Wagner: «Chi se la svigna dalla politica, mente a se stesso». Ma questo libro in cui il dottissimo Lepenies, ex docente a Princeton e a Berlino, trasforma il suo sterminato schedario in una sorta di labirinto per il lettore con eccessive digressioni su singole opere, è soprattutto la storia degli intellettuali tedeschi e della loro tragica impotenza: non di rado, connivenza con il potere o colpevole silenzio riciclato come «emigrazione interna» ai tempi del nazismo. Ancora nel 1948, dopo anni di dittatura e una guerra che aveva sconvolto l’Europa, il poeta Gottfried Benn sostenne che «l’Occidente non è condannato dai sistemi totalitari o dai crimini delle SS (...), ma dall’abietta resa della sua intellighenzia a concetti politici». Nel frattempo perfino Hitler aveva subito il fascino dell’arte: sua l’ambizione di trasformare la Germania in stato culturale e se stesso in un sommo interprete. Paradossalmente cultura e politica si davano la mano per rappresentare la storia tedesca come messinscena operistica nel crepuscolo dei falsi dei. Ma quella fu anche l’epoca della grande emigrazione intellettuale verso gli Stati Uniti, dove i tedeschi, primo fra tutti Thomas Mann, si riconobbero nella vera democrazia lasciando non poche testimonianze. E’ un capitolo suggestivo in cui il sociologo parte da lontano: da Novalis e Whitman, cheMannsalutò come compatriota spirituale di Goethe, per arrivare fino a Woody Allen e al moderno pensiero filosofico tedesco, del quale forse è debitore perfino un film come Zelig, storia di un uomo eterodiretto. La tragedia dei tedeschi, come disse Max Weber, fu che a nessun Hohenzollern, a differenza degli Stuart o dei Borboni, era stata tagliata la testa. Di rivoluzioni ci fu solo quella pacifica del 1989 quando gli intellettuali sembrarono assumersi responsabilità politiche senza tradire la loro autentica vocazione. Fu la cultura a sconfiggere il potere? Fu piuttosto il potere a implodere all’est, mentre il paese ebbe difficoltà a ritrovare una propria identità. Lo stesso Günter Grass, ancor oggi, enfatizza la «nazione culturale» tedesca e dichiara un errore l’unificazione. Lepenies va oltre e guarda all’Europa, dove la Germania sta ricostruendo forse quel rapporto mancato. Magari nelnomedi Goethe, il meno tedesco di tutti i tedeschi, come disse Gide, che non si era rifugiato nella torre d’avorio per rifuggire la politica" (da Luigi Forte, Gli intellettuali tedeschi così impotenti, "TuttoLibri", "La Stampa", 04/04/'09)

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