'La letteratura è una fiammella da tenere
accesa specie in tempi segnati dalla velocità
e dal consumo, dalla fretta e dall’istantaneo.'
"Ho conosciuto Massimo Rizzante all'inizio degli Anni Novanta. Gianni Celati mi aveva parlato di lui. Dopo qualche tempo ricevetti per posta un suo libretto, Il geografo e il viaggiatore, stampato da una piccola tipografia dell'Italia centrale. Un libro sorprendente, dedicato a Italo Calvino e a Celati stesso; un libro di grande intelligenza, scritto in modo cristallino, che era insieme un'autobiografia intellettuale di un lettore accanito, di un poeta e di un flâneur: un «despatrio», andato a Parigi e rimasto lì per un po' di anni a seguire i seminari di Milan Kundera, di cui poi è diventato il traduttore in italiano. Solo anni dopo dopo ho incontrato Rizzante: alto, capelli neri appena stempiati, indossava abiti scuri, come certi artisti visivi. La sua passione per la letteratura è stata per me nel corso del tempo una bussola: indicava a volte il Nord estremo dell'Islanda, a volte il Sud caraibico o il cono meridionale dell'America, a volte l'Est di autori semisconosciuti, da lui compresi come maestri di vita, oltre che di scrittura, da Danilo Kis a Norman Manea. Ho imparato molto dalle conversazioni con lui, anche se adesso che sono trascorsi parecchi anni mi rammarico di non aver parlato di altri autori sconosciuti, oppure dei suoi amici della rivista L’Atelier du Roman, del modo d'incontrarsi, discutere, leggersi a vicenda di questo piccolo gruppo di scrittori, poeti e saggisti. Di quel lavoro intensissimo, di cui la comunità letteraria italiana, tutta rivolta ai premi letterari e alle loro vicende, pronta a beccarsi per un nonnulla, sa poco o niente, c'informa ora un bel libro di Rizzante, Non siamo gli ultimi (Effigie), dal programmatico sottotitolo: «La letteratura tra fine dell’opera e rigenerazione umana». Si tratta della raccolta di saggi, articoli, recensioni, interventi redatti per il trimestrale francese diretto da Lakis Proguidis, riscritti per l'edizione italiana. Non semplici note, ma appassionate e risolutive riflessioni su cosa è oggi la letteratura, quale il suo senso, quale il suo destino, accompagnate da una serie di piccole fotografie degli autori di cui tratta sul margine della pagina, un album visivo, ma anche una scrittura per figure. Rizzante pratica da tempo un'idea di letteratura come «rigenerazione umana»; ovvero, affida alla letteratura non il compito d'intrattenimento, bensì d'essere strumento privilegiato per una politica umana in grado di rifondare la possibilità d'una esperienza vitale; niente a che fare con il neo-umanesimo di tanti, o con il culto del postumano. La letteratura non finisce con i nostri padri e nonni, ma continua con noi, e con chi verrà dopo di noi. Una fiammella importantissima da tenere accesa nel buio lancinante di questo universo caotico e assurdo in cui viviamo. Ci sono pagine del libro dedicate a Coetzee e a Bellow, a Bolano e a Svevo, davvero vertiginose per capacità di penetrazione e per passione di vita, ma soprattutto c'è dentro una polemica continua, e tuttavia mai astiosa, contro il tempo in cui viviamo, segnato dalla velocità e dal consumo, dalla fretta e dall'istantaneo. E' l'eterno presente che ci divora, giorno per giorno, cancellando quel deposito intangibile che è la letteratura stessa, quella del passato come quella del presente. In una bella recensione di Non siamo gli ultimi, che si legge in rete (NazioneIndiana) Gianni Celati parla dell’attuale letteratura industriale come il punto in cui ci si dedica maggiormente al massacro dell'eredità di cui i libri sono portatori. La cultura audiovisiva - televisiva in particolare - congiunta al lavoro dei manager fa dei libri «neutri oggetti di profitto». Rizzante è stato uno dei pochi a percepire attraverso il suo sguardo ampio e cosmopolita quello che stiamo perdendo. Ma il volume, diario autobiografico, contiene anche un'idea importante per il futuro: la letteratura odierna è una letteratura dell'esilio, della diaspora, delle frontiere erranti, una letteratura senza territorio, che prende le distanze dalla prigione dell’attualità e non perde fiducia nel dialogo con il passato e coi morti. Solo in questo modo è vero che oggi coloro che leggono e scrivono non sono gli ultimi, ma dei passeurs, dei passatori, «individui dediti a far passare nuove idee o scoperte» creando tramiti e canali di comunicazione. Qualcosa di superfluo, probabilmente, ma anche d'assolutamente indispensabile. Rizzante è un maestro in questo. Il libro lo racconta pagina dopo pagina." (da Marco Belpoliti, Da Svevo a Bellow le nostre lanterne, "TuttoLibri", "La Stampa", 31/10/'09)
Biblioteca civica "MINO MILANI" bibliogarlasco@yahoo.it tel. 0382/801009 "Le paradis, à n'en pas douter, n'est qu'une immense bibliothèque" (Gaston Bachelard) SELEZIONE DI ARTICOLI SULL'UNIVERSO-LIBRO
sabato 31 ottobre 2009
Zio Valentino per l'Italia con il catalogo sotto braccio
"Ora che i tempi sono cambiati e al posto dell'editore c'è la casa editrice, ora che Bompiani, il mio editore di una volta, non c'è più, a chi parlerò con lo stesso calore del libro che sto scrivendo? È un buon libro? È un libro che richiede qualche ritocco? E in che punto? Si mantiene al livello degli altri libri che ho scritto? E ancora: il mio lavoro, le ore in cui i dubbi e le insicurezze assalgono lo scrittore mentre il suo romanzo si avvia alla pubblicazione, non meritano un po' di entusiasmo, un incoraggiamento e insomma una vera partecipazione? Lo scrittore in questo rapporto con l'editore non è una persona fragile e vulnerabile che ha bisogno di sentimento, di intelligenza, di comprensione, più che di un'accoglienza e di un parere favorevole? Tutte queste cose mi fanno sentire la mancanza di Valentino Bompiani. Ricordo le parole che mi scrisse quando nella primavera del '61 gli inviai la prima parte del libro che stavo scrivendo, quello che poi intitolai Ferito a morte: «Caro La Capria, la prima parte del suo libro mi ha incantato, se la seconda parte sarà della stessa qualità lei avrà scritto un libro importante che potremo sostenere con convinzione. Lo stesso giorno in cui arriverà il dattiloscritto lo passeremo in composizione», eccetera. Non ripeto queste parole di Bompiani per vantarmi, ma per far capire quale era il suo stile. E si può immaginare l'effetto che facevano queste parole a un giovane scrittore ancora sconosciuto? Uno dei più grandi editori italiani scrive al giovane scrittore sconosciuto che è incantato. Si può capire allora come il giovane scrittore si senta carico di energia e sicuro che porterà baldanzosamente a conclusione la seconda parte del suo libro. Questo è capitato a me quando c'era l'editore Valentino Bompiani.
Sì, lo so anch'io che «zio Valentino» aveva il suo caratterino e a volte aveva scatti d'ira memorabili, che però scomparivano con la stessa velocità con cui arrivavano. La sua era stata un'educazione militare, suo padre e la sua tradizione familiare erano improntati al senso del dovere, alla disciplina, all'onore e così via. In questo era un po' ottocentesco. Ma questo suo carattere lo portava a dare generosamente e a pretendere dagli altri la stessa dedizione. Lui poteva essere tenero e rigido, a volte appunto militaresco; più verso se stesso però.
Se non fosse stato così come avrebbe potuto portare a termine, in momenti difficili, in un'Italia ancora sotto i bombardamenti, il Dizionario delle Opere e dei Personaggi? Un'impresa alla quale aveva dato il meglio di sé, impegnandosi a suo rischio e pericolo con le banche, e da lui perseguita con tenacia e coraggio.
Lui per primo si sobbarcava fatiche non lievi, come quando andava in giro per l'Italia per far conoscere ai librai l'importanza di quest'opera che avrebbe dovuto entrare, come effettivamente avvenne, in tutte le famiglie. Mi è difficile immaginare un altro grande editore, Mondadori o Einaudi per esempio, a spasso per l'Italia con il proprio catalogo sotto il braccio. Ma Bompiani era un editore particolare, un editore artigianale, e anche un editore-scrittore che, come disse una volta, scriveva coi libri degli altri il suo libro. E da scrittore capiva i problemi dei suoi scrittori, aveva la capacità di entrare nella loro testa e sapeva perciò come trattare con loro con finezza di sentimento perché «i suoi scrittori erano la sua famiglia». Sapeva anche come sceglierli: quella doppia linea della letteratura italiana, quella degli «scrittori», che va da Savinio a Flaiano da una parte, e quella dei «romanzieri», da Moravia a Brancati a Piovene dall'altra, è ben rappresentata nel suo catalogo. Così come fu tempestiva la sua scelta degli stranieri, da Proust (Un amore di Swann tradotto da Giacomo Debenedetti) a Camus (Lo straniero), che formarono la nostra educazione letteraria e sentimentale. E come era costante Valentino Bompiani e fedele alle amicizie e alle scelte che il suo intuito gli aveva dettato!
Ricordo un periodo molto, molto lungo, di anni, in cui gli avevo detto di non aspettarsi più niente da me perché io per primo non credevo più in me, e io a scrivergli che non avevo più talento e lui a replicare ostinatamente che no, che mi sbagliavo, che attraversavo una crisi che molti scrittori avevano attraversato, che lui credeva nel mio talento e niente e nessuno avrebbero potuto convincerlo del contrario, nemmeno io. Di tutto questo sono grato a Bompiani, e qui non voglio solo tesserne l'elogio, ma solo riconoscergli quel che gli devo e quel che gli è dovuto.
Negli ultimi suoi anni ogni volta che veniva a Roma mi invitava a raggiungerlo in uno dei suoi ristoranti preferiti. Gli piaceva parlare di libri, delle nuove tendenze, degli scrittori più giovani e promettenti, ma sapeva che non avrebbe potuto più pubblicare i loro libri. Aveva liquidato la sua casa editrice e si era ormai voltato da un'altra parte. Aveva più di novant'anni, e mi guardava con l'occhio malinconico di chi ama la vita e sa che presto dovrà lasciarla." (da Raffaele La Capria, Zio Valentino per l'Italia con il catalogo sotto braccio, "TuttoLibri", "La Stampa", 31/10/'09)
mercoledì 28 ottobre 2009
Leggere Orwell a Pyongyang
"'La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l'ignoranza è forza'. Pure nella grafia coreana, la traduzione delle parole non lascia spazio a dubbi. E il frontespizio del libro nemmeno: 'George Orwell' è scritto in piccoli idiogrammi, sulla copertina anonima. 1984, si legge al centro, con tanto di numeri, senza alcuna possibilità d'equivoco.
Biblioteca nazionale di Pyongyang, pomeriggio di un giorno qualsiasi di fine ottobre 2009. All'ombra di una grande statua di Kim Il Sung, 'Presidente eterno', le cui mani posate in grembo sorreggono un quotidiano mentre lo sguardo domina paterno l'immensa sala centrale, chini su minuscoli banchi di legno stuoli di lettori compulsano, assieme a testi cari alla tradizione asiatica, una serie di volumi insoliti per questa latitudine: i capolavori della letteratura occidentale.
Il titolo 1984, romanzo di fantasia estremo e terribile, scritto nel 1948 ma di cui molti hanno intravisto la successiva materializzazione proprio nella società ipercontrollata della Corea del Nord, è - per quanto sembri incredibile - tra questi. Al piano terra, una folla di persone vestite tutte uguali nella loro divisa scura si aggira come un gruppo di formiche attorno agli schermi piatti dei computer contenenti i cataloghi. Selezioniamo con curiosità, sotto l'occhio vigile delle guide incaricate di seguire il visitatore straniero 24 ore su 24 fino alla sua stanza d'albergo, il soggetto 'Orwell'. In due secondi appaiono alcune opere disponibili del grande scrittore visionario. C'è 'Omaggio alla Catalogna', la collezione di 'Romanzi e saggi', e persino La fattoria degli animali, l'altro testo zeppo di allegorie geniali sul totalitarismo, concepito alla fine degli Anni Trenta.
Come mai questi libri hanno passato le maglie strettissime di una censura in perenne allerta e solitamente spietata? Come è possibile che il regime non sia a conoscenza dell'accostamento immediato che, ovunque nel mondo, viene fatto tra il Regno eremita e il fosco romanzo di Orwell? La signora Hwang, addetta alle relazioni della Biblioteca, non appare molto disponibile a fornire spiegazioni, e va di fretta. Un'altra visita incombe e troppe domande sembrano indisporla. In Corea del Nord, del resto, non è salutare toccare certi argomenti. Almeno tredici gulag sparsi nelle provincie non lontano dal confine con la Cina ospitano tuttora non si sa quante migliaia di dissidenti e oppositori. E i giornalisti stranieri, come dimostra la vicenda delle due reporter americane di recente liberate su intervento di Bill Clinton venuto qui a trattare con il figlio del Presidente eterno, il bizzoso Kim Jong Il, sono a malapena ammessi e sopportati.
«È un libro molto letto - spiega la donna in modo sbrigativo - spesso bisogna aspettare qualche tempo quando viene richiesto. Anzi, lo chiedono di continuo, ed è sempre prenotato». La risposta dunque c'è. I lettori coreani, benché immersi in una bolla d'aria del tutto priva di informazioni e contatti con la realtà esterna, conoscono il valore inestimabile contenuto nella profezia di Orwell, che li riguarda direttamente. A dispetto dell'ignoranza del regime, come si legge in quelle pagine avveniristiche, che vuole tramutarsi in forza.
Nella sala numero 3, dove gli squadrati ritratti dei due Kim, padre e figlio, si stagliano sulla parete, le 250 persone ammesse possono richiedere volumi di scienze sociali, economia, letteratura. «Il Grande leader - recita orgogliosa la signora Hwang, fasciata in un grazioso costume locale bianco - una volta seduto a questi tavoli capì subito che la posizione di lettura migliore doveva essere non sul ripiano, ma leggermente obliqua. E, sull'istante, fece cambiare tutti i banchi».
Che cosa leggono allora su questi scranni ora inclinati studenti, operaie e lavoratori? Il giro fra i banchi miete diffidenza, più che altro per la possibile reazione dei dirigenti incaricati di tenere la situazione sotto controllo. Dietro i piccoli occhiali tondi e fra le mani incallite spuntano allora a sorpresa Shakespeare, Victor Hugo, Puskin, Dostojevskij, Heine, Tolstoj, Goethe, Andersen, Bronte. E, inaspettatamente, nonostante l'odio storico del regime verso gli Stati Uniti, persino alcuni americani, Mark Twain ed Hemingway. Tradotti in coreano. Ma ci sono anche Maupassant, Arthur Conan Doyle, Tagore.
Al piano superiore, dietro il tavolo delle richieste un carrellino che sembra un giocattolo scorre sui binari scaricando altri volumi. Che cosa c'è dentro? Assieme a tante opere locali, ai testi sacri scritti da e su Kim Il Sung, in ogni caso i più letti e venerati, compaiono Guenter Grass e Franz Kafka. Chiediamo anche noi i testi in italiano disponibili. Arrivano, in originale, oltre a Esercizi di algebra superiore (in due volumi) e agli Atti dell'Accademia dei georgofili (dispense, Firenze 1982), La Divina Commedia e I promessi sposi. La gentile impiegata addetta allo smistamento non conosce Leopardi e Montale, ma dice che comunque è possibile far arrivare qui testi dall'estero per i lettori coreani. Invita anzi a farlo, e in qualsiasi lingua. I libri verranno poi tradotti o lasciati a disposizione di coloro che sapranno leggerli anche nelle versioni originali. In una stanza attigua un gruppo di giovani, cuffie al collo, azionano registratori che ripetono lezioni in inglese, francese, tedesco, spagnolo, russo, cinese, arabo, turco, italiano.
Nuova sosta al catalogo. Digitiamo in fretta, prima che sia tardi, le opere di autori considerati campioni della libertà di espressione. A caso: Solgenitsijn, Thomas Bernhard, Garcia Marquez, Neruda. Il computer li segnala disponibili. Estremo tentativo: Fahrenheit 451 di Ray Bradbury e Lo scherzo di Milan Kundera. Presenti!
Fuori, l'aria di Piazza Kim Il Sung è una cappa pesante. La Corea del Nord resta un incubo fatto realtà, con un controllo totale sulle persone. Il fiato del Partito si sente a ogni istante, e l'adulazione verso la famiglia al potere è un'ossessione che diventa un obbligo: nelle canzoni, nelle poesie, nelle esibizioni artistiche e sportive. Un 1984 vero. Con telecamere e microfoni sistemati dappertutto. Le pagine del romanzo ricordano a ogni passo l'esistenza paranoica del protagonista Winston: 'Prese il libro di storia per bambini e guardò il ritratto del Grande Fratello che campeggiava sul frontespizio. I suoi occhi lo fissarono, ipnotici. Era come se una qualche forza immensa vi schiacciasse, qualcosa che vi penetrava nel cranio e vi martellava il cervello, inculcandovi la paura di avere opinioni personali e quasi persuadendovi a negare l'evidenza di quanto vi trasmettevano i sensi. Un bel giorno il Partito avrebbe proclamato che due più due fa cinque, e voi avreste dovuto crederci. Era inevitabile che prima o poi succedesse, era nella logica stessa delle premesse su cui si basava il Partito. (...) Ma la cosa terribile non era tanto il fatto che vi avrebbero uccisi se l'aveste pensata diversamente, ma che potevano aver ragione loro. In fin dei conti, come facciamo a sapere che due più due fa quattro?'.
All'albergo Yanggakdo, nell'isola sul fiume Taedong dove vengono ospitati gli stranieri, i clienti venuti dalla Cina vanno al casinò gettando fortune. Ma al ristorante girevole del 47esimo piano non c'è quasi nessuno. Una giovane donna locale beve un'aranciata e discute amabilmente di architettura. La politica, qui, è terreno minato. Il discorso cade sulla letteratura e sugli autori francesi. «Ha letto I fiori del male di Baudelaire?». La domanda, inaspettata e innocente, finisce per essere micidiale. Le guance avvampano. Abbassa il capo e risponde di sì, mentre gli occhi le si riempiono di lacrime. In 1984 Winston si innamora di Julia sebbene l'amore, e il sesso, siano proibiti. Finisce in segreto per odiare il partito e comincia a scrivere un diario, nonostante farlo sia un crimine gravissimo. Quante pagine, quanti diari segreti ci sono oggi, al riparo da occhi indiscreti, nelle case dei coraggiosi abitanti della Corea del Nord in fila per leggere i libri della libertà?" (da Marco Ansaldo, Leggere Orwell a Pyongyang, "La Repubblica", 28/10/'09)
lunedì 26 ottobre 2009
Book-Keepers
"Al confronto Omero sembra un dilettante. Andava in giro a recitare a memoria due poemi anche voluminosi, questo è vero, ma li aveva scritti lui, ed erano sempre gli stessi. Le persone-libro, no. Peregrinano da un luogo all’altro portando ogni volta un testo diverso con sè per farlo ascoltare. Chi ha letto Fahrenheit 451, ritroverà l’idea di Ray Bradbury, l’autore del romanzo che raccontava di un mondo senza più romanzi né saggi o enciclopedie, bruciati da inconsueti pompieri distruttori della cultura. Il sapere salvato da una comunità di volontari, gli uomini-libro per l’appunto. La fantasia di Bradbury diventa realtà due anni fa in Spagna e da lì la scorsa primavera arriva in Italia. Il gruppo originario è di sei donne e un uomo. Fra queste donne c’è Sandra Giuliani, editrice. E’ lei che invita il fondatore del progetto spagnolo, Antonio Rodriguez Menendez, a venire a Roma per uno stage intensivo.
«Da quel momento - racconta Sandra Giuliani - inizia il miracolo: noi andiamo in giro a recitare i testi imparati a memoria e il gruppo aumenta, miracolo dell'ascolto e condivisione profonda della filosofia: la memoria riconquista il piacere della lettura, un piacere analitico del testo e conquista il piacere della propria voce che dice il testo donandolo ad altri. Lettura come interazione, comunicazione, dono». Il gruppo aumenta, in modo anche piuttosto sorprendente. Oggi sono in 24, quattro uomini e venti donne. La persona-libro italiana più giovane ha 16 anni, ma la più anziana ne ha 92. «A occhio e croce gli estremi hanno la stessa capacità di memoria - spiega Sandra - che aumenta invece nella fascia mediana dai 30 anni ai 57». I loro lavori? Sono liberi professionisti, pensionati, dirigenti e impiegati, commercianti, archeologi, medici, editori, vivaisti.
Da quando sono nate, le persone-libro italiane hanno partecipato a otto eventi. Hanno recitato libri a memoria durante festival di lettura ma sono anche andate a declamare in strada come è accaduto ad Ariccia, invitate dal comune che voleva rilanciare il centro storico. E bisognava vedere i volti stupiti dei passanti che si trovavano all’improvviso davanti a un gruppo di persone con addosso una canottiera con su scritto «Sono una persona libro» e a sentir raccontare storie lontane anni luce nello spazio e nel tempo da un piccolo paese a sud di Roma.
Non chiedono compensi, solo un rimborso spese se c’è una trasferta da affrontare. Non chiedono nulla, se non dieci euro l’anno, anche a chi decide di diventare una persona-libro. Vanno versate all’associazione Donne di carta. Altri requisiti? «Amare un libro in particolare, avere la pazienza e la cura di allenare la propria memoria», risponde Sandra. «Non si può recitare un libro se non lo si ama», conferma Monica Maggi, anche lei persona-libro, ma specializzata in poesie. «Mi riesce molto meglio, le sento di più». Perché una delle regole del gruppo bandisce gli eroismi: non è necessario imparare a memoria la Divina Commedia o i Promessi Sposi, basta un capitolo, l’importante è amarlo e riuscire a farlo amare a chi ascolta. «Ci incontriamo periodicamente per sentire i testi che stiamo imparando, per dare consigli sulla dizione; usiamo una tecnica semplice: i testi vanno detti e non recitati, il timbro di voce deve essere colloquiale e la gestualità non interpretativa ma accompagnante il ritmo del testo, il piacere che noi proviamo deve essere il primo oggetto di comunicazione come se dicessimo “senti com'è bello questo brano”. Da questo lavoro emergono le scelte rispetto agli eventi pubblici, la partecipazione è libera: possiamo essere tre oppure venti e anche al momento dell'esibizione resta libera la scelta di dire o di far parte silenziosamente del pubblico», spiega Sandra.
E, però, la comunità si allarga di incontro in incontro, superando ogni aspettativa iniziale. «Si diventa persone-libro venendo ad ascoltare le esibizioni e innamorandosi del progetto, dopo di che si partecipa alle riunioni di lavoro con un proprio testo e poi si parte. Diventare soci significa condividere le assemblee e i progetti di promozione, cioè come ogni socio bisogna aiutare negli stand durante le fiere, creare gruppi di acquisto per i libri dei soci, fare promozione del Catalogo, insomma vivere l'associazione». Gli incontri sono ogni volta diversi. In genere si recitano romanzi - da Il mio nome è rosso di Pamuk a Quoi l’eternité della Yourcenar o L’Arte della Gioia di Goliarda Sapienza, Palomar di Italo Calvino, Diario 1942-43 della Hillesum, e anche la Costituzione italiana.
«Non c'è un criterio imposto se non il piacere. Di condividere quanto ci fa piacere avere letto, scoperto, recuperato. E non c’è un luogo fisso, andiamo anche nelle case se si decide di organizzare una serata ascoltando la recitazione dei libri preferiti», spiega Sandra. A volte la scelta dei testi dipende anche dal tema dell’incontro. L’ultimo appuntamento, venerdì scorso, al Teatro del Torrino a Roma, aveva come argomento i diritti civili: le letture recitate andavano da testi di Primo Levi a Anna Politkovskaja.
La settimana prossima, il 30 ottobre, la serata sarà dedicata a Helen Humphreys, scrittrice canadese. Sarà collegata via Skype, leggerà in inglese parti dell’ultimo libro tradotto in Italia Cani selvaggi, mentre almeno in tre persone-libro lo reciteranno a memoria in italiano.
Il Decalogo delle persone-libro lo dice con chiarezza: «Siamo una stravagante minoranza ... non siamo sicuri di nulla se non del fatto che i libri siano davvero al sicuro soltanto nella nostra testa». Perché «difendere in questo modo i libri significa riconoscere l’errore che c’è dietro la distruzione delle biblioteche, sia quella di Don Chisciotte o di Sarajevo o di Baghdad: chi distrugge un libro prima o poi finisce per uccidere anche le persone»." (da Flavia Amabile, Le persone-libro, "La Stampa", 26/10/'09)
sabato 24 ottobre 2009
L'invenzione dei giovani di Jon Savage
"Con pantaloni larghi mezzo metro di diametro, eccolo giovanissimo teddy boy; con berretto e giubbino in cuoio, eccolo rocker quindicenne. E prima ancora, eccolo con lo sguardo allucinato del 17enne Jim Stark (in Gioventù bruciata) oppure con il ciuffo ribelle del 16enne Holden Caulfield (Il giovane Holden). Lui e sempre lui: è il teenager l'icona del nostro Novecento. Tenero, smarrito, tormentato, avvilito, studente, proletario, disoccupato il golden boy è stato il motore e l'animatore del «secolo breve» - per dirla con Hobsbawm -, ne ha determinato sorti e destini tra pace e guerra, cinema, musica e letteratura.
Ma quando nasce lo scugnizzo moderno, quello che fa gruppo o gang e impone tendenze? La sua data di battesimo - solitamente si dice - è alla metà degli Anni Cinquanta o giù di lì. Niente di meno vero, afferma, dopo un ventennio di ricerche e una gran dovizia di documenti, il critico musicale e saggista Jon Savage ne L'invenzione dei giovani, in uscita da Feltrinelli. Savage racconta una storia «segreta», assolutamente mai disegnata: l'«invenzione» del moderno teenager nel primo ‘900 in un'appassionante vicenda fatta di sommosse di piazza, provocazione, rabbia, destra e sinistra, svastiche e bandiere rosse, consumismo, gioielli, cosmetici e storie criminali.
All'inizio, spiega Savage, fu il crimine: a focalizzare l'attenzione di giornali e studiosi sui giovanissimi come qualcosa di speciale, un'entità tutta da riconsiderare, furono proprio le spericolatezze dei minori. Carne fresca alle prigioni la davano soprattutto i ragazzi come accadeva, per esempio, a Manhattan dove nel 1889 su una popolazione di 98 mila detenuti 11 mila avevano meno di venti anni. Il barbuto profeta della giovinezza, G. Stanley Hall, proprio partendo da queste considerazioni, in Adolescence elaborò una summa dell'età più intensa. Lo fece agli albori del secolo quando videro la luce i due capolavori dell'universo in crescita, Peter Pan di J. M. Barrie e Il meraviglioso mago di Oz di L. Frank Baum (nel 1939 le ragazzine che si disposero in lunghissime file per assistere alla proiezione del film con Judy Garland finirono vittime di crisi e convulsioni suggestionate dalla pubblicità).
E sempre all'inizio del secolo gli adolescenti stavano conquistando una pubblica opinione particolarmente attenta. Sedotta e scandalizzata dalle imprese, per esempio, di sette come gli Apache, con il culto degli indiani d'America; come «la banda del boccale», nota per i suoi vandalismi e per le gare di bevute; come i Five Points o i Whyos di New York, che disponevano di un listino prezzi per omicidi e ricatti (con testa rasata e abbigliati con spille e bracciali metallici come tanti skinhead si cimentavano anche in avventure meno cruente come tagliare trecce e capelli alle signorine sole). Ben diverso invece lo spirito godereccio del «Bright Young People» degli Anni Venti, descritto in pagine sublimi da Evelyn Waugh. La Rapsodia in blue di George Gershwin accompagnava «ogni corpo a corpo sul divano» e la marijuana alimentava le fantasie insieme alla sorella cocaina che, «pericolosa quanto un serpente a sonagli», stimolava i suicidi e anche gli omicidi dei minorenni inglesi. La polvere bianca rivitalizzava anche le feste tra Parigi e Berlino dove 16 e 17enni si travestivano con singolari maschere, come quella indossata dallo spericolato milionario Harry Crosby, fatta con dieci piccioni morti e sette serpenti vivi in un sacco.
Un'elettrizzazione giovanile di massa, un boogie-woogie ininterrotto e permanente, proprio grazie ai teenagers, collegò in questo periodo e nel decennio successivo le capitali d'Europa e d'Oltreoceano. Dove soggiornavano gli snobbissimi «big man» e «slicker», distinzione avanzata da F. Scott Fitzgerald per gli annoiati studenti del college che si dedicavano all'arte di sedurre le ragazze delle classi privilegiate. I gruppi con gilet arabescati e cicca all'angolo della bocca ambivano poi a stare continuamente alla ribalta delle cronache. In una calda serata dell'agosto del 1939 più di centomila fan adolescenti erano pronti all'assalto del gigantesco Soldier Field di Chicago. In un battibaleno distrussero le piattaforme da ballo, gli strumenti musicali e costrinsero la band di Jimmy Dorsey a rifugiarsi dietro gli spalti.
La musica-oggetto di culto per l'età più verde diventò così una molla incontrollata, una spinta alla protesta: era l'opinione del critico musicale Francis Newton, ovvero lo storico Hobsbawm celato dietro pseudonimo. Teenager bianchi e neri oscillanti al ritmo di swing desideravano partire per ingrossare le fila dei combattenti antifranchisti in Spagna: al Greenwich Village, nacque persino il night del Fronte popolare Café Society, frequentato pure da Eleanor Roosevelt, in cui si mescolavano «divi, debuttanti e plebei».
Nella ribellione giovanile a volte però i diciassettenni potevano diventare altrettanti San Sebastiano trafitti dalle loro stesse imprese. I sedicenni Swing Kids, che nella Germania di Hitler se la spassavano con il proibitissimo jazz nelle ville alla periferia delle metropoli tedesche, finirono agonizzanti dietro il filo spinato o al fronte orientale. A soli 17 anni e mezzo, il cospiratore antinazista Helmut Hübener, fu decapitato dopo un processo di venti minuti. E aveva la stessa età dei Pirati Edelweiss che distribuivano volantini contro le camicie brune. Solo quando la guerra volgerà verso la fine il New York Times Magazine sancirà con la «carta dei diritti del teen ager» la nascita del moderno adolescente, il vero divo del secondo dopoguerra.
E oggi? Dopo aver toccato tante vette, sua maestà il teenager sembra in difficoltà, con l'età del malessere e delle turbolenze che si allontana dal nostro interesse. Oggi, anche se sempre più fragili e marginali, gli adolescenti non esibiscono più il pugno, lo schiaffo, la volontà di ribellione. E se il secondo millennio ha dunque, fin dal suo apparire, inventato i giovani e segnato con la sua fine anche il loro declino, ora passa il testimone. E' il momento di altri teenager, gli evergreen, i Peter Pan canuti o bamboccioni ingrigiti." (da Mirella Serri, I giovani? Sono vecchi di un secolo, "TuttoLibri", "La Stampa", 24/10/'09)
Sono l'ultimo a scendere di Giulio Mozzi
"Giulio Mozzi ha al suo attivo cinque raccolte di novelle, stese nei quindici anni precedenti e in genere accolte con buon successo, cui ora ne aggiunge una sesta. A dire il vero, non si tratta di racconti autonomi, ma piuttosto di pagine di diario, senza alcun carattere di morboso soggettivismo, meglio denominarle quindi, come fa l'Autore, «diario in pubblico». Sono infatti quasi registrazioni quotidiane di quanto è avvenuto a lui, Giulio Mozzi, nome e cognome esibiti allo scoperto, nell'esercizio capillare della sua professione, che è di una sorta di «viaggiatore in letteratura», portato a scorrazzare per la penisola su treni di ogni tipo e ad ogni ora del giorno, quasi per uno sfruttamento sistematico dell'orario ferroviario. Tutto ciò corrispondeva anche alla sostanza dei racconti precedenti, che però si sforzavano di seguire le regole del mestiere, con accurate indagini psicologiche, che oltretutto richiedevano ampio numero di pagine per condurre le opportune analisi, e anche un mascheramento dell'Autore sotto sembianze di personaggi fittizi. Qui invece già il titolo è eloquente, Sono l'ultimo a scendere, con un'ostentazione palese della propria identità anagrafica, e l'accenno a un'occasione appunto di specie logistica. Così è, pur nel rispetto del proprio mondo di affetti e passioni, in questo caso il sunnominato Giulio Mozzi raggiunge una straordinaria immediatezza di espressione che proietta la narrativa verso nuovi lidi. Ovviamente, l'oralità domina queste pagine di diario, ivi compresi spunti dialettali, secondo la buona ricetta neorealista che porta i vari personaggi a parlare nel proprio idioma.
Ma oltre alla chiacchiera spicciola, ognuno di questi squarci di vita in diretta è animato dal ronzio dei telefonini o dall'arrivo degli sms. Ovvero, questa raccolta esemplifica come meglio non si potrebbe una mia ipotesi, che oggi la narrativa debba farsi magra magra per filtrare attraverso la cruna dell'ago fornita dall'informatica, e insomma tradursi in emissioni filiformi, dove trionfa la paratassi, una frase dopo l'altra, una profluvie di «dico io», «dice lui»: se si vuole, la vittoria assoluta del minimalismo.
Tutto questo non è solo un capriccio stilistico, anche se percorso al negativo, verso una totale bocciatura di ogni stilismo, e il raggiungimento di un «livello zero» della scrittura, o addirittura di un sottozero. Il risultato che premia è
che pure validi contenuti umani e psichici così affluiscono abbondantemente,
infilzati in questa specie di spiedo o di spillone con cui Giulio Mozzi trafigge brani palpitanti di verità. C'è un bello scorrere di casi e sentimenti, ci sono le vessazioni inutili di controllori e bigliettai delle ferrovie, o di addetti agli autobus di linea, maleducazioni di compagni di viaggio che urlano nei telefonini, obbligando gli altri a entrare loro malgrado in fatti personali così sfacciatamente ostentati. Ci sono sopraffazioni alle spalle degli extracomunitari, o scoperte improvvise di morti, di dolori, di ingiustizie sociali. E poi, tanta comicità involontaria, tanti piccoli equivoci senza importanza, per dirla con un altro maestro nell'arte dei racconti, Antonio Tabucchi. Ma mentre quest'ultimo arpeggia in genere con proustiana raffinatezza, Mozzi va dritto allo scopo, senza bellurie, con nuda e spietata immediatezza." (da Renato Barilli, Storie ambulanti senza importanza, "TuttoLibri", "La Stampa", 24/10/'09)
Vertigine della lista di Umberto Eco
"Anni fa frequentavo una curiosa biblioteca di filosofia. Era diretta da un simpatico personaggio che passava il tempo a cambiare di posto i libri dagli scaffali, chiedendo ai visitatori continui consigli su quello che avrebbe dovuto essere l'Ordine Perfetto per quell'accozzaglia di testi. Dove mettiamo il testo di Adorno sul giovane Hegel, con la Scuola di Francoforte o nella letteratura secondaria sull'idealismo? Le Vite dei filosofi di Diogene Laerzio va fra la storiografia filosofia o fra la filosofia antica? E la monografia di Deleuze su Nietzsche, il pamphlet di Derrida sulla televisione, le autobiografie di Vico e Croce? Provavamo a spiegargli che l'organizzazione del materiale librario serve soltanto a poter ritrovare alla svelta quel che serve, e un buon catalogo (lì inesistente) è l'unica cosa che il lettore desidera. Ma l'argomento strumentale non attaccava. Il direttore proiettava sul suo piccolo mondo di polverosi volumi una questione metafisica molto più ampia: quella della catalogazione universale delle cose e degli esseri, tanto globale quanto definitiva. Poi qualcuno svelò l'arcano: il bibliotecario era anarchico; e dunque, lottando contro l'arbitrarietà d'ogni ordine costituito, andava alla ricerca d'uno straccio di motivazione.
Cambiai luogo di studio. La figura del bibliotecario anarchico ben sintetizza il dissidio profondo fra l'uso funzionale e quello metafisico d'ogni sorta di cataloghi tematizzato nell'ultimo libro di Umberto Eco, che alla Vertigine della lista è appunto dedicato. Prendendo spunto da una mostra su questo tema che si terrà al Louvre nel mese di novembre, da lui stesso organizzata, Eco non presenta tanto una riflessione sul problema logico della classificazione (argomento del suo Kant e l'ornitorinco), quanto semmai una considerazione teorica circa la presenza costante di elenchi, liste, enumerazioni e schedari nel mondo delle arti, siano esse letterarie o pittoriche.
Dalla descrizione dello scudo d'Achille nell'Iliade a quella degli oggetti nel cassetto del Bloom joyciano, passando per il Cantico dei Cantici e la Teogonia di Esiodo, per il Gargantua di Rabelais e il Paradiso perduto di Milton, sino ai più recenti testi di Huysmans, Breton, Queneau, Perec, Gadda, Calvino, Borges, Arbasino e tanti altri, sembra che gli scrittori saturino le loro opere narrative con inventari infiniti, ora per circoscrivere ambienti e situazioni in modo dettagliatissimo, ora per totalizzare interi universi di finzione, finendo spesso per scivolare nell'ironica incongruità dell'elenco senza fine, nell'euforica vertigine della lista. Ed è proprio nell'universo estetico che si coglie perfettamente, quasi ossessivamente, lo slittamento continuo fra l'elencazione effettuata per banali necessità del momento (la lista della spesa, gettata via appena tornati a casa) e la volontà più o meno strisciante di un ordinamento metafisico del mondo, che per forza di cose segue criteri il più delle volte incongrui. Basti pensare alla relazione polemica fra Don Giovanni e Leporello: laddove il primo seduce per il puro piacere di farlo, ma con la smania mortale di non tralasciare proprio nessuna («purché porti la gonnella»), il secondo tiene il conto rigorosissimo di quante malcapitate siano passate dal letto del suo padrone («un catalogo egli è che ho fatt'io»). Sembra cioè che «il piacere di porle in lista» si divida equamente fra i due personaggi, ma con scopi molto diversi: totalizzazione metafisica il primo, enumerazione infinita il secondo.
Scatta così nelle opere d'arte il godimento estetico per l'«eccetera», il carattere sublime dell'esorbitante, l'eccessivo, lo strabordante, l'immenso, lo smisurato, di tutto ciò che in vario modo oltrepassa quella forma conchiusa dell'opera che è sicura garanzia del suo valore estetico. Da questo gioco fra finito e infinito prende avvio lo slancio metafisico, l'anelito verso l'assoluto, la ricerca del senso ultimo delle cose, i quali, come sapeva bene il nostro importuno bibliotecario, finiscono spesso per far emergere il non senso più cupo, l'assurdità del tutto. Ed è anche per questa ragione che, nota giustamente Eco, quando l'enumerazione si fa sempre più fitta e più lunga, progressivamente si perde il significato di quanto viene elencato per far risaltare il semplice gioco dei significanti, la musicalità dell'elencazione, il ritmo vorticoso di una cosa che segue l'altra che segue l'altra che segue l'altra ... all'infinito.
Ma come rendere visivamente l'«eccetera», in che modo suggerire all'interno di un'immagine qualcosa che costitutivamente non si può far vedere? Ecco una sfida tipicamente semiotica che Eco raccoglie nel suo libro, in vista dell'esposizione parigina. E, crediamo, risolve egregiamente a sua volta proponendo una sorta di inventario: una messa in serie di immagini straordinarie (distribuite lungo il libro insieme all'antologia dei testi), dove le soluzioni pittoriche volta per volta sperimentate dai vari artisti sono di grande interesse: moltiplicazione delle figure, uso sapiente dello sfumato, personaggi che escono fuori dalla cornice, orizzonti lontanissimi con soggetti sempre più piccoli, sovrapposizioni di corpi e accostamenti di cose. Dal sublime letterario si passa così alla vertigine vera e propria, quella che si prova quando gli occhi perdono la focalizzazione delle cose, e si teme di cadere giù, passando nel giro d'un secondo dal funzionalismo quotidiano al terrore per l'assoluto. Pensate a James Stewart: prima inseguiva ladri, poi Kim Novak." (da Gianfranco Marrone, I cataloghi del mondo, "TuttoLibri", "La Stampa", 24/10/'09)
Neglected Classics
"Eppure, era così semplice: cercare di definire che cos'è un classico è «sprecare fiato», ma «la maggior parte di noi lo sa istintivamente». Ci voleva BBC4, che è come la nostra benemerita Radio3, per tagliare corto in una discussione vecchia di secoli: un classico è un classico è un classico, e tanto basta. In queste settimane è in corso una serie formidabile, che ribalta il proprio intento vagamente funereo (disseppellire dieci grandi romanzi dimenticati) grazie alla vitalità dei protagonisti. Funziona così: dieci scrittori famosi patrocinano ciascuno un classico caduto nell'oblio. Il pubblico vota, e il libro vincente viene trasmesso per radio.
Funziona. In primo luogo, perché il titolo Neglected Classics scarica il pubblico dai sensi di colpa: se sono neglected, non è grave non averli letti. E poi, perché è entusiasmante sentire pezzi da novanta come Ruth Rendell o Beryl Bainbridge o Colm Tóibín, spendersi con passione per resuscitare Un eroe del nostro tempo di Lermontov ma anche The Price of Salt di Patricia Highsmith, uscito sotto pseudonimo nel 1952. Rasselas del critico settecentesco Samuel Johnson, sponsorizzato dal critico attuale Howard Jacobson, fu scritto in una settimana per pagare i funerali della madre, e divenne così popolare che lo leggono anche i personaggi di Jane Eyre, Middlemarch e Piccole donne. Nell'arringa di Jacobson c'è anche, forse, la ragione del suo tramonto: «Non è un voltapagina, è bello degustare la precisione del linguaggio di Samuel Johnson».
Ecco: forse un classico è un classico è un classico perché innesca quel verbo, degustare, così inappropriato per la troppa narrativa di rapido consumo sfornata dall'industria editoriale. E forse, se il conflitto è tra fare indigestione di libri-spazzatura o comunque poco nutrienti, e invece assaporare poche cose di buona, classica qualità, è giunta l'ora di fondare «Slow Book». Meglio pochi, ma buoni. E lentamente.
Proprio gli inglesi sono bravissimi a inventare cose allegre, sulla promozione della lettura. Club del libro, giochi a premi, agenzie matrimoniali basate sulle affinità letterarie, settimane «regala un libro», cacce al tesoro, e anche magnifiche serie radiofoniche sui classici sepolti. Copiamo da loro. Oggi più che mai, leggere è un contravveleno e un gesto politico." (da Giovanna Zucconi, Con la Bbc si degustano i classici, "TuttoLibri", "La Stampa", 24/10/'09)
lunedì 19 ottobre 2009
Un coeur intelligent di Alain Finkielkraut
"Non accade spesso che una raccolta di saggi consacrati ala letteratura entusiasmi lettori e critici e si imponga subito come un bestseller. Ma davvero non è sorprendente che ciò sia potuto accadere a Un coeur intelligent del filosofo e giornalista francese Alain Finkielkraut (Stock/Flammarion; in Italia uscirà per Adelphi), perché basta scorrere le prime pagine del libro per capire la sua non comune forza di attrazione. Finkielkraut ci propone la sua lettura di nove grandi storie: Lo scherzo di M. Kundera, Tutto scorre di V. Grossman, Storia di un tedesco di S. Haffner, Il primo uomo di A. Camus, La macchia umana di Ph. Roth, Lord Jim di J. Conrad, Memorie del sottosuolo di F. Dostoevskij, Washington Square di H. James, Il pranzo di Babette di K. Blixen. Tutti i romanzi scelti qui da Finkielkraut ci invitano a diffidare dalle contrapposizioni manichee, dalle chimere sentimentali, dalle ambizioni demiurgiche, dall'utopia dell'uomo nuovo; tutti ci insegnano invece a prestare attenzione alla irriducibile diversità dei comportamenti individuali e alla necessità di interpretarli alla luce dei condizionamenti della vita reale. Siamo andati a trovare Finkielkraut nel suo appartamento interamente tappezzato di libri che si affaccia sui tetti di Montparnasse. Com'è nata l'idea di questo libro? 'E' un'idea che risale a una conferenza che tenni nel 1994 su Lord Jim di Conrad. Fu allora che pensai a un libro dedicato all'ascolto, non già della filosofia, ma della letteratura, un libro dove trattare i romanzieri come maestri. Ma il clima culturale dell'epoca era poco propizio: lo strutturalismo alla cui scuola mi ero formato offriva degli strumenti per analizzare i testi letterari ma restava ostinatamente formalista e relativista. A loro volta, tanto la filosofia che le scienze sociali avevano un atteggiamento condiscendente nei confronti della letteratura considerata alla stregua di un 'pensiero selvaggio' da chiarire e completare'. Cosa intende con 'cuore intelligente'? 'E' una bellissima espressione che troviamo in un passo del Vecchio Testamento in cui il re Salomone supplica Dio di accordargli 'un cuore intelligente', 'un cuore saggio e perspicace'. Hannah Arendt se ne serve in modo estremamente illuminante nel corso della sua riflessione sul ventesimo secolo. Mi è sembrato che questo 'cuore intelligente' fosse anche il tratto distintivo della letteratura. Ciò che oggi ci minaccia non è né l'assenza totale di intelligenza né quella di cuore, ma il fatto che queste due facoltà si ignorano reciprocamente'. Lei dice che 'abbimao bisogno della letteratura per sottrarre il mondo reale alle letture sommarie'. A cosa si riferisce? 'La nostra esistenza è una sorta di racconto ininterrotto: viviamo e al tempo stesso tessiamo la trama della nostra vita e sviluppiamo un'attività fantasmatica continua. La letteratura è già là. Abbiamo bisogno di grandi romanzi per strapparci alle letture semplificatrici che siamo soliti fare della nostra vita e di quella delgi altri. Non è questo l'insegnamento che ci viene da Don Chisciotte o da Madame Bovary?'. La letteratura ci insegna anche l'arte delle sfumature? 'Sì, perché è un'arte di importanza capitale che non abbiamo più il tempo di praticare. Pensiamo all'ultimo Barthes che diceva di voler vivere esclusivamente in accordo alle sfumature'. Lei osserva che un avolta la lettura ci iniziava alla conoscenza del mondo reale mentre oggi la civilizzazione delle immagini ci trasporta in un mondo virtuale dove non c'è più posto per i libri. Non eccede in pessimismo? 'Ciò che temo è che si vada smarrendo una concezione della lettura intesa come conversazione silenziosa con i grandi testi. Siamo entrati in un universo completamente diverso, chiassoso e insieme "comunicazionale". Per gli adolescenti di oggi, incollati davanti al computer e alla televisione, la letteratura è diventata marginale. Si tratta, a mio giudizio, di una mutazione terribile'. [...]" (da Benedetta Craveri, Affidatevi al pensiero del cuore, "La Repubblica", 17/10/'09)
sabato 17 ottobre 2009
Ipazia, vita e sogni di una scienziata del IV secolo di Adriano Petta e Antonino Colavito
"Perché il nome di Ipazia non ci dice nulla? Perché, se diciamo Saffo o Aspasia, pensiamo subito all'origine femminile della poesia e della filosofia, e invece al nome di Ipazia restiamo inerti? Perché un progetto dell'Unesco per la ricerca scientifica femminile porta il suo nome? Chi era Ipazia? Ipazia era tante cose. astronoma, matematica, musicologa, filosofa, medico. Visse nel IV secolo d. C. ad Alessandria d'Egitto e insegnò nella celebre biblioteca fino a quando il 'grattacielo' del sapere antico fu distrutto dalle fiamme (verso l'anno 400, secondo la datazione del libro in uscita, nel 270 secondo molti). Non fu solo scienziata, ma sacerdotessa pagana, fondendo i confini tra religione e scienza in maniera diversa da come faceva il Cristianesimo dominante. E per questo motivo fu uccisa. Dei sicari del vescovo Cirillo la aggredirono per strada e la scarnificarono con conchiglie affilate. I suoi resti furono dati alle fiamme nel Cinerone, dove veniva bruciata la spazzatura. E quel giorno i monaci esultarono con le parole di s. Agostino, per il quale la donna è solo 'immondizia'. 'Una macchia indelebile' nella storia del cristianesimo, così definì il suo assassinio lo storico Edward Gibbon. Secondo Mario Luzi, che a lei ha dedicato il poemetto Il libro di Ipazia, il suo è tra i 'nomi numinosi' della storia del mondo. Ma, prima di Luzi, avevano scritto di lei Voltaire, Diderot, Leopardi, Proust, Pascal, Calvino ... Eppure in Italia è tuttora sconosciuta. Adriano Petta, studioso di storia della scienza, ce la racconta nel romanzo che sarà in libreria il prossimo venerdì 23 ottobre: Ipazia, vita e sogni di una scienziata del IV secolo (edito da la Lepre). [...]" (da Brunella Schisa, Ipazia, scienziata, bella libera. Prima martire della Ragione, "Il Venerdì di Repubblica", 16/10/'09)
Agora, il film di Alejandro Amenabar
Come scrivere un bestseller in 57 giorni di Luca Ricci
"Anche quattro scarafaggi potrebbero scrivere un bestseller. Sbuca oggi nelle librerie - forse attraverso una conduttura o una crepa nel muro - Come scrivere un bestseller in 57 giorni di Luca Ricci (Laterza). Giusto in tempo prima di finire soffocato all'ombra delle termopili di volumi del nuovo Dan Brown, tra una settimana. Quello di Ricci, trrntacinquenne pisano già autore di raccolte di racconti pluripremiate e di La persecuzione del rigorista per Einaudi, non è un saggio o un manuale, ma un irriverente e divertente romanzo-pamphlet che si prende gioco, non senza autoironia, dell'industria della letteratura, delle sue nevrosi e dei suoi cliché, della fauna che la popola, degli scrittori alla moda, dei lettori, dei critici, dei premi, di tutti: compresi quelli che scrivono libri contro chi scrive bestseller. La storia: quattro blatte (John, Paul, George e Ringo ...) decidono dis alvare le finanze del padrone della casa sotto sfratto dove abitano - un inconcludente scrittore fallito - sostituendosi a lui alla tastiera per scrivere un romanzo con tutti gli ingredienti necessari a scalare le classifiche di vendita. Perché, sostengono gli scarafaggi, 'oggigiorno si riproduce sempre la stessa opera, gli editori pubblicano sempre lo stesso libro. O almeno, ci provano disperatamente'. Teorizzano le bestiole: 'Molti scrittori non si mettono al lavoro con l'idea di scrivere un semplice libro, ma direttamente un bestseller', cioè non qualcosa che si imponga all'attenzione dell'umanità come un obbligo, quale per esempio Ulisse di Joyce, ma qualcosa che 'eventualmente, si può non leggere'. Altre definizioni di bestseller. 'Un libro idiota che risulta intelligente'; 'Un libro scritto così male da sembrare già un film'; 'Un libro che riescono a leggere quelli che di solito non leggono'. Dopodiché gli scarafaggi si mettono al lavoro e sezionano i bestseller del momento, individuando i cardini e gli espedienti sui quali invariabilmente si poggiano. Dunque Ricci, chiunque - anche lei, se solo volesse arricchirsi - è in grado di scrivere un bestseller? 'Nessuno scrittore vuole non essere letto e, sì, chiunque, anche uno scarafaggio, può scrivere un potenziale bestseller con tutte le prerogative per vendere molto. Poi non è detto che venda molto: decide il mercato'. Quindi non è poi così facile e automatico fare il botto. 'Ci vogliono qualità anche per scrivere un bestseller. Non ne faccio una questione di talento, di letteratura alta o bassa, di genio o mediocrità. Solo di coerenza: l'importante è non tradire se stessi. L'escamotage degli scarafaggi che fanno il verso al topo Firmino o al Bradipo di Savage nasce da un grande timore: mi spaventa una società letteraria che scrive, pubblica, critica, premia e legge sempre lo stesso tipo di libro. Ma non ho una tesi preconfezionata, non mi irrigidisco su nessuna posizione ideologica'. E allora con chi ce l'ha? 'Con chi si siede al computer pensando al mercato. Il mercato dovrebbe essere una conseguenza e mai una causa di cò che si scrive. Lo scrittore deve pensare al lettore, non al pubblico. Questa confusione lessicale spiega molto. Onestà intellettuale, ricorda? I vampiri, le minorenni che scrivono diari erotici o gli investigatori che parlano in dialetto vengono dopo. E non è neppure un problema di generi. Oggi in Italia il noir è brillante, fors ei nostri migliori scrittori scrivono noir. La cultura del bestseller invece è più melliflua, di solito è un cocktail avvelenato che mischia più cose insieme. E' ormai un genere autonomo'. Vale a dire? 'Un conto è un libro che vende molte copie, un conto è un libro che potrebbe vendere molte copie. Il bestseller non è più una categoria di mercato, bensì un genere. Gli ingredienti di successo incidono sulla creatività, e in certi casi è più importante saper pianificare che saper scrivere. Mi piacerebbe suscitare una discussione sullo stato attuale delle cose, su questa piccola rivoluzione copernicana'. Non è, comunque, sempre meglio legegre un brutto libro piuttosto che una rivista di gossip? 'Non sono così convinto che Stieg Larsson sia meglio di Novella 2000. Più precisamente: se si ha spirito critico, si può leggere e vedere di tutto. Non sono uno snob che non guarda X Factor o il Grande Fratello: bisogna interessarsi alle forme del contemporaneo, sapere cosa piace a otto milioni di persone, che hanno diritto di voto come te. Il problema è credere che il Grande Fratello sia vita vera e non un format'.
La letteratura di massa, si sostiene, crea nuovi lettori, che poi cresceranno. Non crede? 'No, non sono convinto che la letteratura di massa sia una strada per portare nuova gente ad altre forme di letteratura. Penso che i lettori diseducati da questi bestseller resteranno perlopiù drogati da una forma consumistica che non porta a niente. Leggeranno solo quella roba lì. Prendiamo il fenomeno Twilight. Doveva essere letteratura per ragazzi, ma poi l'hanno letta anche gli adulti. Il problema è che la fruizione dei libri è cambiata: si legge un libro così come si affitta un film da Blockbuster, si va al cinema o si fa una partita alla PlayStation'. Detta così continua a non sembrare una cosa tanto negativa ... 'Ma è negativissima. In questo modo il libro ha un solo imperativo: intrattenere. Ciò vuol dire privilegiare unicamente la variazione narrativa, a discapito della ricchezza di un testo. Io continuo a pensare alla letteratura come a un forziere pieno di tesori. Odio fare quello che dice che oggi è sempre peggio di ieri, ma il rischio è di arrivare, come accaduto per la tv, al pensiero unico. Ce l'avrei anche con i poeti, se il mercato editoriale di punto in bianco offrisse solo poesia. Si spera che il pluralismo sopravviva non solo nei cataloghi editoriali'. Il pluralismo e gli scarafaggi. 'Soprattutto gli scarfaggi'." (da Emilio Marrese, Ecco come uno scarafaggio può scrivere un bestseller, "Il Venerdì di Repubblica", 16/10/'09)
venerdì 16 ottobre 2009
Silvia Vegetti Finzi: "Troppe immagini nella vita dei più piccoli"
"Per Silvia Vegetti Finzi, psicologa e docente di Psicologia dinamica all'Università di Pavia, l'allarme fiabe non è solo una prerogativa inglese. Tutt'altro. Professoressa, anche i bimbi italiani ascoltano meno fiabe e per questo imparano a parlare più tardi? 'Certo, le campagne nazionali di invito alla lettura pe rl'infanzia hanno registrato questa carenza. Nelle nuove generazioni, prevale l'immagine, il messaggio iconico. La tentazione dei più piccoli, oggi, è di esprimersi con le figure, più che con le parole. I bambini esercitano la vista più che l'udito. La loro immaginazione risulta più sviluppata della struttura logica del pensiero. E' per questo che, arrivati a scuola, incontrano più difficoltà'. Com'è la lingua dei bambini che ascoltano poche fiabe? 'Una lingua contratta, telegrafica, che si addice a una società della fretta come la nostra. E' una lingua dei messaggini scritti sul cellulare, dove la "x" sostituisce il "per"'. Quanto è ancora importante la fiaba per la formazione dell'infanzia? 'La fiaba raggiunge i bambini esattamente dove sono: nel mondo fantastico. Li introduce alla narrazione, insegna loro a condividere le emozioni e, ovviamente, a esprimersi meglio'." (da Dario Pappalardo, Silvia Vegetti Finzi: 'Troppe immagini nella vita dei più piccoli', "La Repubblica", 16/10/'09)
Leggete le fiabe ai figli o parleranno più tardi
"C'era una volta. Ma adesso non c'è più. O come minimo, c'è sempre di meno. I genitori hanno abbandonato o diminuito una vecchia abitudine: leggere o raccontare una favola ai figli per farli addormentare. E il risultato è che i bambini imparano a parlare sempre più tardi. Così sostiene un rapporto del Ministero dell'Istruzione britannico che fotografa l'alfabetizzazione del Regno Unito: il fenomeno che balza agli occhi dallo studio è infatti quello, in parte già noto, degli adulti che hanno sempre meno tempo per occuparsi della prole. Da un lato, i genitori sono sempre più affaticati; dall'altro, nuove tecnologie distraggono gli uni e gli altri, che si tratti di internet, social network come Facebook, telefonini, videogiochi. Risultato: il numero delle parole che i grandi scambiano con i piccini è in calo costante. Meno fiabe, meno dialogo, uguale apprendimento più lento: all'asilo e perfino alle elementari, in Gran Bretagna, entrano bambini di 5-6 anni con una capacità di comunicazione che sarebbe lecito aspettarsi da un bambino di un anno e mezzo, che ha appena imparato a camminare. Insomma, un disastro: perché quei bambini impareranno lo stesso a parlare, ma varie ricerche dimostrano che spesso chi ha problemi di linguaggio nell'infanzia può sviluppare difficoltà e disabilità mentali di vario grado crescendo. Per questo il Governo britannico lancia l'allarme. 'Il numero dei bambini che cominciano le scuole elementari senza sapere neanche formare una frase rudimentale è in crescita', afferma il rapporto preparato da Jean Gross, responsabile della comunicazione per il Ministero dell'Istruzione, e anticipato ieri dal Times di Londra. Le più recenti statistiche governative indicano che il 18% dei bambini di 5 anni nelle scuole del Regno, ovvero più di 100 mila bambini, non sono al livello di alfabetizzazione previsto per la loro età. Il problema non riguarda soltanto i figli degli immigrati, per i quali sarebbe più comprensibile un ritardo nell'apprendimento dell'inglese, ma anche per quelli britannici. Il ritardo è più spiccato nei bambini poveri, che secondo la ricerca della dottoressa Gross ascoltano 'soltanto 600 parole all'ora' in famiglia, in confronto alle duemila parole all'ora che sono la media per le classi benestanti. Inoltre i bambini che crescono in famiglie povere o disagiate ricevono soltanto un elogio per ogni due rimproveri, mentre nelle case benestanti il rapporto è rovesciato e anche rallenterebbe l'alfabetizzazione. 'Gli adulti sono sempre più impegnati e hanno meno tempo da dedicare ai figli', dice l'autrice del rapporto. 'E per le prossime generazioni sarà peggio, perché un bambino a cui nessuno leggeva le favole non le leggerà di certo ai propri figli'." (da Enrico Franceschini, Leggete le fiabe ai figli o parleranno più tardi, "La Repubblica", 16/10/'09)
giovedì 15 ottobre 2009
Galileo, processo con il trucco
"L’Osservatorio astronomico di Parigi è un edificio imponente, con biblioteca mozzafiato e strumenti che scrutano il cielo con confidenza. La gloria di Luigi XIV si mostra in ogni angolo e mura larghe due metri proteggono infinite storie, anche l’ultima qui nata: la nuova e più interessante edizione del processo a Galileo Galilei. Vi attende lo storico italo-svizzero Francesco Beretta, del Centre national de la recherche scientifique (Cnrs) di Lione; la traduzione, la fattura e il commento dettagliato dei due volumi saranno realizzati da Michel-Pierre Lerner e Alain Segonds, direttori di ricerche al Cnrs e conoscitori formidabili di storia dell’astronomia, per le Belles Lettres di Parigi. Uscirà anche, per la parte dei documenti originali, nell’aggiornamento all’edizione nazionale di Galileo curata da Paolo Galluzzi, direttore dell’Istituto e Museo di storia della scienza di Firenze. Beretta confida: «Capire il processo di Galileo significa innanzitutto comprendere il funzionamento del tribunale dell’inquisizione in quel periodo del ’600. Osservarne i meccanismi attraverso il paragone con altri casi meno importanti, verificare i punti anomali, i margini utilizzati dai giudici per procedere». E ancora: «Lo 'stile del tribunale' consisteva in una serie di dispositivi che non erano codificati come oggi. Il giudice poteva orientare il processo in un senso o nell’altro. Conoscerlo è indispensabile per interpretare correttamente i documenti». È il caso di pubblicarli ancora? Non disponiamo di tutto il materiale? A tali domande si può rispondere con un po’ di storia (la scriviamo con l’aiuto dei tre studiosi incontrati a Parigi). Sergio Pagano, prefetto dell’Archivio segreto vaticano, ha pubblicato nel giugno 2009 una nuova edizione del processo, che riprende la sua del 1984 con altri documenti ritrovati. Nel 1998, grazie all’iniziativa di Giovanni Paolo II per la «purificazione della memoria», fu aperto ufficialmente l’archivio della Congregazione per la dottrina della fede che conserva le carte del tribunale romano del Sant’Uffizio (da non confondersi con l’Archivio segreto vaticano, quello del Papa, disponibile dal 1881). Il fascicolo degli atti galileiani, noti come «il volume del processo», faceva un tempo parte della collezione delle materie criminali dell’Archivio del Sant’Uffizio, che comprendeva alla fine dell’Antico Regime circa 4 mila tomi. Quando Napoleone decise nel 1809 di creare a Parigi l’Archivio centrale dell’Impero, dove sarebbero confluiti quelli dei Paesi sottomessi, iniziarono le operazioni di trasporto: al Sant’Uffizio toccò nella primavera del 1810. Il volume di Galileo fu spedito a parte, giacché Napoleone chiese personalmente alcuni documenti cruciali, quali il processo ai Templari, la bolla che lo scomunicava e, appunto, le carte sullo scienziato. Secondo l’inventario di Parigi del 1813, oltre i 4 mila volumi di materie criminali, gli archivisti ne ricevettero altri 2 mila di incartamenti dottrinali o di giurisdizione dell’Inquisizione. Ve n’era poi un altro migliaio con decreti e lettere. Totale, circa 7 mila volumi. Caduto Napoleone, si cercò di riportare il tutto a Roma. Spuntano i nomi di Marino Marini e di Giulio Ginnasi, i quali, sentiti i superiori e visti i costi, decisero di buttar via i 4 mila volumi dei processi criminali. Tra essi c’erano Bruno, Campanella e tutti i filosofi italiani che riprenderanno statura nell’Ottocento (di Bruno, infatti, conosciamo solo il sommario del processo — una cinquantina di carte delle originali, probabilmente la copia appartenuta a un consultore — giacché l’insieme andò perduto e restano i soli documenti veneziani). Galileo, arrivando a parte, finì tra le carte di uno dei ministri napoleonici, il conte Louis C. Blacas che, esiliato a Vienna, si porterà con sé il faldone. La vedova lo restituirà nel 1843 a Gregorio XVI; Pio IX lo consegnerà all’Archivio segreto vaticano nel 1850, anno nel quale Marino Marini, nel frattempo giunto a quell’Archivio, pubblicò i primi documenti del processo. Ma la sua fu opera parziale e apologetica. A questo punto cominciano le edizioni, anche se a rigor di termini le carte non sarebbero state visibili senza permesso fino al 1881. Nel 1867-69 escono quelle contrapposte di liberali e cattolici, poi arriva nel 1877 la «diplomatica» di Gebler; infine c’è Antonio Favaro, docente a Padova, che nell’ambito della «nazionale» galileiana (XIX volume) pubblica le carte nel 1907 (la prima è del 1902, in fascicolo a parte). Offre il testo del processo e i decreti del Sant’Uffizio che gli furono trascritti dall’archivista. Nel 1984 ecco l’edizione Pagano: oltre le carte processuali (riprende Favaro) ripubblica il famoso G3, il documento reso noto da Redondi nel 1983 in Galileo eretico (Einaudi) su cui si costruì la tesi non accolta dalla storiografia della condanna per atomismo. Pagano formulò l’ipotesi che il volume del processo non fosse l’incartamento originale, ma un sunto, un estratto realizzato per l’Indice, al fine di giustificare l’inserimento del Dialogo tra i libri proibiti. Tutte le precedenti ricostruzioni del processo sarebbero così state relativizzate, data l’incompletezza della documentazione. E qui arriva Beretta. Egli ha mostrato, in una serie di studi, che questi documenti sono proprio quelli utilizzati da Urbano VIII il 16 giugno del 1633 per condannare Galileo. Magari ce ne saranno stati altri, ma il Papa si pronunciò sulla base della documentazione a noi nota. Tre cardinali inquisitori erano assenti alla seduta di abiura, il 22 giugno, ma il fatto non ha l’importanza che alcuni studiosi gli attribuiscono, perché il verdetto l’aveva già pronunciato il Papa in persona, il 16 giugno, e il 22 non restava ai porporati che firmare la sentenza già stesa. Nel 1998, con l’apertura dell’Archivio del Sant’Uffizio sono stati scoperti una trentina di nuovi documenti (per Beretta «non cambiano sostanzialmente il quadro del processo»). Pagano nella sua recente edizione li riprende insieme a quelli del 1984, offrendo una nuova collazione degli originali in cui, fra l’altro, convalida la tesi di Beretta sulla natura dell’incartamento processuale. Dov’è la novità? Lo studioso italo-svizzero cercherà di dare l’insieme completo della documentazione, e questo significa ripubblicare anche il dossier fiorentino che contiene un’altra parte del processo (Pagano offre solo la romana). A Firenze, per esempio, c’è la copia autentica della sentenza, perché l’originale era nel volume — delle sentenze, appunto— del 1633 disperso a Parigi. Beretta, Lerner e Segonds sottolineano che tali documenti sono noti, ma pubblicandoli insieme cambiano l’immagine complessiva, giacché non verranno dati per gruppi distinti, ma nell’ordine cronologico e in tal modo si potrà seguire passo dopo passo lo sviluppo del processo. Risalteranno così anche le anomalie rispetto allo stile. Per esempio, si sa che il processo a Galileo scatta per la pubblicazione del Dialogo sopra i due massimi sistemi, ma questo libro — ricordano — «vide la luce con due imprimatur, ovvero con doppia approvazione ecclesiastica». Ora, seguendo lo svolgimento del processo appare chiaramente che manca nell’incartamento il manoscritto del Dialogo recante il doppio imprimatur, che nel 1630 fu consegnato da Galileo a Urbano VIII: sembra proprio che il pontefice in persona su quell’originale, di suo pugno, abbia corretto il titolo. Nel 1632 il volume era a Firenze, lo stampatore non poteva azionare il torchio senza placet , pena la prigione. Durante il processo, Galileo invocò per difendersi la concessione dell’imprimatur da parte del Maestro del Sacro Palazzo, Niccolò Riccardi, facendo anche allusione all’intervento del Papa. Per proteggersi, Riccardi si era fatto mandare dall’inquisitore di Firenze il manoscritto incriminato nell’estate del 1632. In altri processi coevi, il testo originale è conservato nell’incartamento giudiziario per decidere se fosse colpevole delle cattive dottrine del libro l’autore o chi concesse l’approvazione. Ma il manoscritto del Dialogo sparì: si voleva celare che il permesso di stampa lo aveva dato il Maestro del Sacro Palazzo, consenziente il Papa. Galileo, che non fu torturato, il 22 giugno 1633 giurò in ginocchio — mano sui Vangeli — che il movimento della Terra è contrario alla fede cristiana. Fece l’abiura davanti ai cardinali inquisitori. Riccardi era presente fra i consultori, e il testo della sentenza è costruito per far cadere tutta la colpa sullo scienziato e liberare l’alto prelato dall’incubo di aver concesso quell’imprimatur." (da Armando Torno, Galileo, processo con il trucco, "Corriere della Sera", 13/10/'09)
mercoledì 14 ottobre 2009
La donna da un libro al giorno
"La signora legge in giardino, sul trattore, sulla panchina, in spiaggia, sulla neve. Legge di giorno e di notte, al tavolino e a letto. Il medaglione che sfoggia in petto dice tutto: un omino che legge sul gabinetto. Naturalmente la signora, che faceva l'avvocato, specializzata in cause ambientali, sa bene che la lettura, a questi ritmi, è un lusso che si può permettere perché la serenità economica aiuta. Ah, certo, i ritmi: un libro al giorno. Un libro al giorno per un anno, 365 libri dal leggere tutti di un fiato, dall'alba al tramonto. Ma non pensiate che quella di Nina Sankovitch, 46 anni, da Westport, Connecticut, sia una sfida snob e demodée: al fruscìo della carta stampata la signora non disdegna lo schermo del computer. Anzi. La signora è una vera blogger e redallday.org, "leggi tutto il giorno", si chiama il sito in cui incasella, uno a uno, i libri che ha letto e di cui offre, uno per uno, una sua recensione. Oggi siamo a quota 350, la signora ha cominciato giusto un anno fa, era il 28 ottobre, il giorno del suo 46esimo compleanno: L'eleganza del riccio, il bestseller di Muriel Barbery, è stata la prima scelta, poi a ruota Gli emigrati di W. G. Sebald, Un giorno per morire di Jean Claude Izzo, e vai così. La signora legge di tutto, alto e basso, Thomas Pynchon e l'ultimo noir. L'unico relax dal testo scritto, rivela al New York Times, è una puntata di New York Csi in tv: il poliziesco distrae sempre. Non punta a nessun record, non è una bibliofila, dice: "Leggere, scrivere, leggere per 365 giorni". Perché lo fa? "Perché no?" è la risposta. "Amo leggere, non c'è altra cosa al mondo che vorrei fare di più, e con il blog voglio dividere la mia gioia". Solo questo?
C'è anche un bel reparto italiano nella libreria della signora. Non è una studiosa di letteratura: segue l'istinto. Sembra un personaggio uscito da Italo Calvino: Se una notte d'inverno un viaggiatore, la lettura come magnifica ossessione. "Non l'ho letto", dice. Punto. Di un grande come Alberto Moravia, per esempio, ha letto un romanzo minore: L'amore coniugale. Ma non è un caso: è un romanzo che racconta la storia di uno scrittore che si perde nella scrittura. Nina ne è attratta: "Le due pagine in cui il narratore critica la sua stessa scrittura potrebbero servire come ottimo esercizio per ogni scrittore".
Ha letto anche Montalbano, Nina, La pazienza del Ragno: "Camilleri ha tutto quello che io adoro in un poliziesco: bella ambientazione piena di dettagli sul paesaggio e sul cibo, una varietà di personaggi che sono tanto interessanti quanto caratteristici del luogo ...". A Nina piace l'Italia dei dettagli, l'Italia verace: "Recentemente ho letto Valeria Parrella e ho amato quelle sue piccole storie ambientate a Napoli". Ha già in programma un altro noir italiano: "Questa settimana o la prossima voglio leggermi Poisonville di Massimo Carlotto e Marco Videtta", che sarebbe la traduzione di Nordest. Noir, ancora noir. "Oh, se è per questo ho letto quella grandissima raccolta di brevi storie noir, Roma Nera", dice: ed è una raccolta curata da Chiara Stangalino e Maxim Jakubowski per il mercato anglosassone, racconti di Antonio Scurati, Carlo Lucarelli, Tommaso Pincio, Enrico Franceschini, Nicola Lagioia.
Tra pochi giorni l'esperimento finirà: ma il 28 ottobre del 2009 sarà davvero l'ultimo del suo blog? "Io così sto anche cercando di alleviare il dolore che sento da quando ho perso mia sorella, quattro anni fa, dopo una breve malattia. Quest'anno ho l'età che lei aveva quando è morta. Era troppo giovane per morire, amava tantissimo la lettura. E io non riuscirei mai a colmare neppure una frazione di tutte le letture che si è lasciata indietro". Leggi ancora, Nina, leggi finché puoi." (da Angelo Aquaro, La donna da un libro al giorno, un blog, e un dolore nascosto, "La Repubblica", 13/10/'09)
martedì 13 ottobre 2009
Il tempo invecchia in fretta di Antonio Tabucchi
"Di Il tempo invecchia in fretta, la sua opera più recente appena andata in libreria per Feltrinelli, Antonio Tabucchi rivendica con passione la forma, che è quella dell’antologia di racconti (il sottotitolo, Nove storie, è uguale al titolo della celebre raccolta di Salinger, un libro, sostiene Tabucchi, «anche più bello del Giovane Holden»). «Perché un racconto - ha spiegato lo scrittore ieri a un gruppo di giornalisti milanesi - è un meccanismo letterario speciale, con regole ferree, l’equivalente in prosa del sonetto, come il sonetto concluso e da leggere tutto d’un fiato». Se il tempo invecchia in fretta, come afferma il suo libro, il racconto però lo frena, lo fissa, lo aggancia fulmineamente, lo fa balenare, «mentre il romanzo può attendere, è paziente. Può attendere d’essere scritto e può attendere d’essere letto. Un racconto invece è imperioso».
Cronache del «secolo breve», i racconti di Tabucchi sembrano pescare nelle ceneri tiepide del passato piccoli relitti, tracce sbigottite, ricordi contraffatti dalla distanza degli avvenimenti, dalla senilità dei protagonisti. Protagonisti che sono per la maggior parte figure dell’Est europeo, quell’Est che si è affacciato per ultimo all’esplorazione e al ricordo, dove tanti si sentono superstiti, sopravvissuti senza più scopo. E allora lo scopo di un tempo, per pessimo che fosse, si spoglia della sua negatività per diventare memoria nostalgica (la spia della Ddr che rimpiange la sua attività attenta e indefessa); addirittura il nemico di un tempo diventa l’unico alleato possibile (l’ex generale ungherese che solo con l’ex generale sovietico che ha schiacciato la rivolta magiara nel 1956 ritrova il piacere dell’esistenza).
In questo mondo e in questo secolo che s’è consumato così in fretta, con tanta spietatezza, «si può avere nostalgia del peggio, eccome - ha ribadito ieri Tabucchi. E per dimostrarlo ulteriormente ha raccontato una storia inedita. Il decimo racconto del suo libro, avrebbe potuto essere, ma invece di scriverlo ce l’ha detto a voce. Riguarda un grande scrittore angolano, Luandino Vieira, «il Gadda della lingua portoghese, un maestro nell’impastare dialetti locali e idioma colto. Luandino, uno pseudonimo adottato in onore della capitale dell’Angola dov’è cresciuto, è figlio di contadini immigrati in Africa dal Portogallo, e ha scritto i suoi romanzi più importanti - in Italia sono usciti La vita vera di Domingo Xavier da Pironti e Luuanda da Feltrinelli - nel lager di Tarrafal, a Capo Verde, dove è stato prigioniero politico per molti anni».
Infame, il campo di concentramento: «I compagni morivano di malaria; nelle baracche di zinco la temperatura era di 40 gradi. Uscito dopo la Rivoluzione dei garofani, onorato con un incarico ufficiale per la sua milizia anticolonialista, quando in Angola prevale la guerra per bande Luandino si esilia in Portogallo e smette di scrivere. «Ma qualche anno fa - racconta Tabucchi - si sparge la notizia che sta per uscire un suo nuovo libro. Un giornalista riesce a intervistarlo. Quando ho letto l’intervista sono rimasto folgorato. Alla domanda del giornalista: “Quali sono stati gli anni migliori della sua vita?”, Vieira ha risposto: “Gli anni del Lager”». Perché il tempo invecchia in fretta, e la nostalgia coglie solo un barlume del passato, la speranza, lo scopo, l’esaltazione. Quello che dava un senso alla tua vita. Anche il Lager." (da Maria Giulia Minetti, Tabucchi racconta
la nostalgia del peggio, "La Stampa", 13/10/'09)
sabato 10 ottobre 2009
Edward Hopper, il pittore che narrò le nostre solitudini
"«Nel novantanove per cento dei casi - disse Edward Hopper poco prima di morire - gli artisti vengono dimenticati dieci minuti dopo la morte». Affermazione che risponde senza dubbio al vero, ma non per lui. Ora, alla vigilia della grande mostra a lui dedicata a Milano dal 14 ottobre, ne è la conferma l'uscita in Italia per l’editore Johan & Levi della «biografia intima», va da sé monumentale, Edward Hopper (trad. di Irene Inserra e Marcella Mancini) scritta da Gail Levin, curatrice dell'opera di Hopper presso il Whitney Museum di New York, insegnante al Baruch College e autrice in passato di altri libri sul medesimo argomento.
La Levin, che ha avuto accesso alle lettere della moglie di Hopper, Josephine Nivison, e ai diari da questa tenuti tra gli Anni '20 e i '60, racconta la vita e i quadri del Maestro alla luce dell'antagonismo anche violento che caratterizzava le dinamiche di una coppia a dir poco simbiotica, che ricorda almeno in parte quella formata da Francis e Zelda Scott Fitzgerald: anche Jo infatti era un'artista, e oltre a fare da modella per il marito e a riciclare abiti usati dipingeva a sua volta. Frustrata dal successo del marito, con cui peraltro collaborava per trovare sempre nuovi soggetti, veniva da questi immancabilmente ostacolata. Non solo: Hopper di tanto in tanto la picchiava, e nella sua misoginia arrivava al punto da proibire alla consorte di mettersi al volante dell'auto di famiglia. Scrive per esempio Jo: «manifesta una ferma opposizione ogni volta che respiro ... vivo nell'ansia costante di un suo divieto».
Nel racconto della Levin tuttavia il privato diventa pubblico, perché queste scene di vita da un matrimonio si intrecciano con la genesi di quadri ormai celeberrimi, a cominciare da quel Nighthawks che dipinto nel 1942 è ben presto diventato non solo una delle metafore più pregnanti della condizione umana e dell'alienazione metropolitana, ma anche l'oggetto di un processo di banalizzazione ad alzo zero. «Ormai siamo abituati a vedere il triste bar aperto tutta la notte popolato da Babbo Natale con le sue renne, dai personaggi dei Peanuts, da anatre e persino da un gruppo di conigli chiamati gli hopper», nota la Levin. C'è chi si è spinto fino alla parodia, come l'artista austriaco Gottfried Helnwein nel suo Boulevard of Broken Dreams (1987), in cui ha sostituito le anonime figure di Hopper con Humphrey Bogart, James Dean, Elvis Presley e Marilyn Monroe. Per tacere delle copertine, delle copie in legno o ceramica, smalto o cartone, e delle ovvie riproduzioni su T-shirt, tazze e poster (toccate in sorte ai capolavori di tanti altri grandi, da Van Gogh a Picasso).
Quel che colpisce, però, al di là della sorte dell'opera d'arte all'epoca della sua riproducibilità tecnica, è l'enorme influenza esercitata da Hopper sui colleghi. Il suo uso della cultura popolare americana ha segnato un gran numero di artisti figurativi: oltre ad Andy Warhol, si pensi a Tom Wesselmann o George Segal, che alla Levin confessa: «Ciò che mi piace di Hopper è il modo poetico in cui riusciva ad allontanarsi dalla realtà». E l'inglese David Hockney, famoso per le sue piscine californiane? Per lui Hopper è «il più grande artista americano del '900». Anche gli iperrealisti, da Roger Brown a Richard Estes a Ralph Goings a Idelle Weber, vengono stregati dalla sua attrazione per le immagini «secondarie»: facciate, vetrate, stazioni di servizio (non a caso il giovane Hopper a Parigi si avvicinò alla fotografia, stupendosi per la «personalità che un buon fotografo può mettere in un'immagine»). Dopodiché, ecco i concettualisti, tra cui l'inglese Victor Burgin, con la sua rivisitazione di Office at Night.
L'onda lunga sprigionata dalle tele di Hopper ha tuttavia toccato anche altri ambiti artistici, compresa la letteratura. Pare perfino scontato avvicinare l'opera del pittore americano a quella di Raymond Carver, e dunque a quella dei tanti nipotini di quest'ultimo, più o meno a loro agio dopo essere stati iscritti d'ufficio alla voce «minimalisti», come ad esempio Bret Ellis e McInerney fino al nostro Aldo Nove che proprio ora racconta un «incontro immaginario» tra l’artista e lo scrittore in Si parla troppo di silenzio. Quante volte del resto nel corso degli ultimi decenni siamo incappati nell'aggettivo «hopperiano», nelle quarte di copertina di romanzi non solo americani?
Quanto al cinema, che catturò l'immaginazione del piccolo Hopper al tempo in cui bambino frequentava con la famiglia la sala della natia Nyack, e che gli dette da mangiare quando agli inizi della carriera disegnava locandine cinematografiche, prima divenne uno dei soggetti dei suoi quadri, e poi attinse a piene mani dal suo lavoro. «Dal momento che i noir e le opere di Hopper erano frutto della stessa cultura americana, non è facile stabilire chi sia venuto prima», scrive la Levin a proposito delle affinità tra il pittore e il regista Fritz Lang. Nel 1965, per il suo Two Comedians, Hopper s'ispirò esplicitamente al film Amanti Perduti di Marcel Carné. Ma quante sono le pellicole che devono almeno un'inquadratura ai quadri di Edward Hopper? La casa solitaria dipinta in House by the Railroad torna in film come Psycho di Alfred Hitchcock o Il Gigante di George Stevens. Nighthawks ha ispirato tra gli altri George Roy Hill per La Stangata e Aki Kaurismäki per Nuvole in viaggio. E poi ancora Lynch e Fassbinder e Wenders, che quand'è a New York torna sempre a vedere Hopper al Whitney, e che omaggiò la tela Sun in an Empty Room in L'amico americano, tratto dal romanzo di Handke: a sua volta grande ammiratore del pittore. Inutile aggiungere che dalla morte di Hopper, avvenuta a New York nel 1967, sono passati ben più di dieci minuti." (da Giuseppe Culicchia, Edward Hopper, il pittore che narrò le nostre solitudini, "TuttoLibri", "La Stampa", 10/10/'09)
venerdì 9 ottobre 2009
Herta Muller, Nobel ai margini
"«Cerco sempre di immaginarmi ai margini dell’avvenimento che sto osservando. Vedo che gli uomini agiscono in modo apparentemente libero e non si accorgono di essere sottoposti a vincoli ben precisi, di essere prigionieri di un meccanismo, di agire con la libertà di una marionetta. E io cerco di rappresentare questo meccanismo». Così Herta Müller spiegava nel 1984 il suo lavoro di scrittrice romeno-tedesca. Due anni prima era uscito in Romania il suo primo libro di racconti, Bassure, in un’edizione fortemente sforbiciata dai censori di Ceausescu; tre anni dopo la Müller, col marito, lascerà per sempre la Romania per stabilirsi a Berlino Ovest e dare pieno avvio alla carriera letteraria oggi coronata dal Nobel.
Ma sbaglieremmo a pensare a Herta Müller come a una «dissidente», almeno nel senso abituale del termine. La scelta di collocarsi «ai margini», e la convinzione che il comportamento umano sia desolatamente condizionabile, e dunque condizionato, ne fanno piuttosto una vera e propria outsider, anche rispetto alla comunità di provenienza. Ai tedeschi del Banato - raffigurati in tutta la miseria morale, lo squallore e la meschinità provinciale che soltanto Thomas Bernhard, parlando degli austriaci, aveva saputo descrivere con tanta disturbante efficacia - Herta Müller non piaceva più di quanto piacesse al regime. Se il realismo socialista vietava di raccontare una società contadina alienata e gretta, la minoranza tedesca si aspettava dai suoi rappresentanti letterari una narrazione epica, e in ogni caso positiva (era stato Carlo VI d’Absburgo, all’inizio del ’700, a chiamare nel Banato, appena sottratto ai Turchi, un nucleo di coloni tedeschi, con l’intenzione di modernizzare quella nuova e remota provincia dell’impero).
Herta Müller invece racconta una vita ridotta alla mera sopravvivenza, al ripetersi indifferenziato di gesti e azioni che quasi cancellano ogni specificità umana, uniformandola al pigro e indifferente divenire della natura. La quale natura, né romantica né «socialista», non nasconde mai la meschinità e la crudeltà gratuita che ne contraddistinguono il modo d’essere: odori e sapori sgradevoli, il caldo soffocante o il gelo pungente, la malattia e la morte sono altrettanti rimandi a un agitarsi incessante che non perviene mai a un approdo. «Credo di essere nata con un senso di disgusto per la vita», proseguiva la scrittrice in quella lontana intervista. «Non sono cresciuta, sono stata cresciuta. Non si poteva fare nulla, si doveva fare tutto». E non è chiaro se sta parlando del socialismo reale, della piccola e asfittica comunità tedesca, o di entrambi.
Tutta l’opera successiva di Herta Müller ruota intorno a questo buco nero sentimentale, psicologico, sociale: che racconti l’adolescenza surreale sotto Ceausescu, la disumanità della dittatura o lo smarrimento della nuova vita in Occidente, c’è in lei ogni volta la sensazione sgradevole quanto appiccicosa che i conti non tornano mai, che i conti non possono tornare. Siamo appunto marionette, e il massimo di libertà cui possiamo aspirare è renderci conto di esserlo.
In questo quadro fosco - non mancano, qua e là, tratti ironici: ma è un’ironia che diventa subito sarcasmo, e amarezza - la scrittura gioca un ruolo centrale. Ridotto a mero osservatore «ai margini», e prigioniero anch’egli di un meccanismo implacabile, lo scrittore scende idealmente dal piedistallo della retorica per accucciarsi a terra, nella sporcizia e tra i rifiuti. La scrittura dunque diviene scabra, essenziale, quasi da poema in prosa, e urticante; l’osservazione minuziosa dei dettagli, tanto più profonda quanto più fastidiosa, si traduce in una struttura linguistica dove ogni frase si muove da sé, segnando ogni volta un possibile inizio e una possibile fine del racconto. Nei libri di Herta Müller le parole si muovono senza mèta, in un disinteresse glaciale che demolisce il principio stesso della narrazione, e nell’ostinazione per i dettagli rivelano, quasi naturalmente e senza alcun intervento esterno, la totale e inguaribile insensatezza del mondo.
Herta Müller ricorre spesso all’io narrante di una bambina per costruire i suoi incubi; gli adulti, quasi sempre, sono automi destinati a ripetere all’infinito quegli stessi atti che fin dal principio li definiscono. L’infanzia è dunque il solo àmbito sottratto alla sfera maleodorante della necessità: come in Agota Kristof, anche nella Müller lo sguardo del bambino arriva là dove gli altri non riescono neppure ad affacciarsi. La qualità principale della bambina di Herta Müller è non saper nulla, non avere esperienza di nulla, non aver letto né scritto nulla: è uno specchio senza cornice, e soltanto in questo modo - cioè senza le sovrastrutture del pensiero razionale e del linguaggio - può rappresentare davvero il mondo. E così il socialismo reale non è più un’abiezione, né una fosca profezia, ma la metafora perfetta della condizione umana." (da Fabrizio Rondolino, Herta Muller, Nobel ai margini, "La Stampa", 09/10/'09)
Herta Müller takes Nobel prize for literature (da Guardian.Books)
Herta Müller Wins Nobel Prize in Literature (da NYTimes.Books)
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