sabato 24 ottobre 2009

Vertigine della lista di Umberto Eco


"Anni fa frequentavo una curiosa biblioteca di filosofia. Era diretta da un simpatico personaggio che passava il tempo a cambiare di posto i libri dagli scaffali, chiedendo ai visitatori continui consigli su quello che avrebbe dovuto essere l'Ordine Perfetto per quell'accozzaglia di testi. Dove mettiamo il testo di Adorno sul giovane Hegel, con la Scuola di Francoforte o nella letteratura secondaria sull'idealismo? Le Vite dei filosofi di Diogene Laerzio va fra la storiografia filosofia o fra la filosofia antica? E la monografia di Deleuze su Nietzsche, il pamphlet di Derrida sulla televisione, le autobiografie di Vico e Croce? Provavamo a spiegargli che l'organizzazione del materiale librario serve soltanto a poter ritrovare alla svelta quel che serve, e un buon catalogo (lì inesistente) è l'unica cosa che il lettore desidera. Ma l'argomento strumentale non attaccava. Il direttore proiettava sul suo piccolo mondo di polverosi volumi una questione metafisica molto più ampia: quella della catalogazione universale delle cose e degli esseri, tanto globale quanto definitiva. Poi qualcuno svelò l'arcano: il bibliotecario era anarchico; e dunque, lottando contro l'arbitrarietà d'ogni ordine costituito, andava alla ricerca d'uno straccio di motivazione.
Cambiai luogo di studio. La figura del bibliotecario anarchico ben sintetizza il dissidio profondo fra l'uso funzionale e quello metafisico d'ogni sorta di cataloghi tematizzato nell'ultimo libro di Umberto Eco, che alla Vertigine della lista è appunto dedicato. Prendendo spunto da una mostra su questo tema che si terrà al Louvre nel mese di novembre, da lui stesso organizzata, Eco non presenta tanto una riflessione sul problema logico della classificazione (argomento del suo Kant e l'ornitorinco), quanto semmai una considerazione teorica circa la presenza costante di elenchi, liste, enumerazioni e schedari nel mondo delle arti, siano esse letterarie o pittoriche.
Dalla descrizione dello scudo d'Achille nell'Iliade a quella degli oggetti nel cassetto del Bloom joyciano, passando per il Cantico dei Cantici e la Teogonia di Esiodo, per il Gargantua di Rabelais e il Paradiso perduto di Milton, sino ai più recenti testi di Huysmans, Breton, Queneau, Perec, Gadda, Calvino, Borges, Arbasino e tanti altri, sembra che gli scrittori saturino le loro opere narrative con inventari infiniti, ora per circoscrivere ambienti e situazioni in modo dettagliatissimo, ora per totalizzare interi universi di finzione, finendo spesso per scivolare nell'ironica incongruità dell'elenco senza fine, nell'euforica vertigine della lista. Ed è proprio nell'universo estetico che si coglie perfettamente, quasi ossessivamente, lo slittamento continuo fra l'elencazione effettuata per banali necessità del momento (la lista della spesa, gettata via appena tornati a casa) e la volontà più o meno strisciante di un ordinamento metafisico del mondo, che per forza di cose segue criteri il più delle volte incongrui. Basti pensare alla relazione polemica fra Don Giovanni e Leporello: laddove il primo seduce per il puro piacere di farlo, ma con la smania mortale di non tralasciare proprio nessuna («purché porti la gonnella»), il secondo tiene il conto rigorosissimo di quante malcapitate siano passate dal letto del suo padrone («un catalogo egli è che ho fatt'io»). Sembra cioè che «il piacere di porle in lista» si divida equamente fra i due personaggi, ma con scopi molto diversi: totalizzazione metafisica il primo, enumerazione infinita il secondo.
Scatta così nelle opere d'arte il godimento estetico per l'«eccetera», il carattere sublime dell'esorbitante, l'eccessivo, lo strabordante, l'immenso, lo smisurato, di tutto ciò che in vario modo oltrepassa quella forma conchiusa dell'opera che è sicura garanzia del suo valore estetico. Da questo gioco fra finito e infinito prende avvio lo slancio metafisico, l'anelito verso l'assoluto, la ricerca del senso ultimo delle cose, i quali, come sapeva bene il nostro importuno bibliotecario, finiscono spesso per far emergere il non senso più cupo, l'assurdità del tutto. Ed è anche per questa ragione che, nota giustamente Eco, quando l'enumerazione si fa sempre più fitta e più lunga, progressivamente si perde il significato di quanto viene elencato per far risaltare il semplice gioco dei significanti, la musicalità dell'elencazione, il ritmo vorticoso di una cosa che segue l'altra che segue l'altra che segue l'altra ... all'infinito.
Ma come rendere visivamente l'«eccetera», in che modo suggerire all'interno di un'immagine qualcosa che costitutivamente non si può far vedere? Ecco una sfida tipicamente semiotica che Eco raccoglie nel suo libro, in vista dell'esposizione parigina. E, crediamo, risolve egregiamente a sua volta proponendo una sorta di inventario: una messa in serie di immagini straordinarie (distribuite lungo il libro insieme all'antologia dei testi), dove le soluzioni pittoriche volta per volta sperimentate dai vari artisti sono di grande interesse: moltiplicazione delle figure, uso sapiente dello sfumato, personaggi che escono fuori dalla cornice, orizzonti lontanissimi con soggetti sempre più piccoli, sovrapposizioni di corpi e accostamenti di cose. Dal sublime letterario si passa così alla vertigine vera e propria, quella che si prova quando gli occhi perdono la focalizzazione delle cose, e si teme di cadere giù, passando nel giro d'un secondo dal funzionalismo quotidiano al terrore per l'assoluto. Pensate a James Stewart: prima inseguiva ladri, poi Kim Novak." (da Gianfranco Marrone, I cataloghi del mondo, "TuttoLibri", "La Stampa", 24/10/'09)

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