sabato 3 ottobre 2009

Il grande silenzio di Alberto Asor Rosa


"In un punto della conversazione-intervista con Alberto Asor Rosa, Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali (Laterza), Simonetta Fiori ricorda come in molti passaggi epocali gli intellettuali siano stati costretti a scoprire - tra alti lamenti - la loro incapacità di confrontarsi con le novità portate dalla tecnica. Fu così per Socrate che guardava con sospetto il testo scritto perché avrebbe favorito più l'oblio che il ricordo, ma fu così anche per Baudelaire (1859), che imputava alla fotografia la causa dell'«impoverimento del genio artistico francese», per Paul Valéry (1937), che temeva la radio quasi fosse il potenziale assassino della letteratura, per Walter Benjamin e le sue considerazioni sull'era della «riproducibilità tecnica», fino allo sgomento con cui oggi si assiste all'irruzione della «rete» e ai rischi della scomparsa del libro. Quell'osservazione è uno dei punti chiave del dialogo da cui scaturisce il libro. E' come se in queste pagine Asor Rosa scrutasse dalla soglia un mondo nuovo e sconosciuto, consapevole di una insanabile frattura con il passato e anche della sfida conoscitiva racchiusa in una discontinuità che investe i fondamenti ultimi del mestiere dell'intellettuale. Asor Rosa è nato nel 1933. Come per molti della sua generazione (troppo giovani per «aver fatto» la Resistenza e che vissero - seppure intensamente - il '68 già da adulti e professori), l'assenza di un momento epico, di un punto alto intorno a cui costruire la propria rappresentazione autobiografica gli ha consentito un rapporto più sciolto con il passato, la possibilità di riattraversare gli anni della formazione, della scoperta della politica, della lunga militanza a sinistra, senza la necessità di guardarsi dai rischi dell'abiura o del compiacimento agiografico. Iscritto al Pci nel 1952, poi animatore del filone operaista negli Anni 60 (quelli dei Quaderni Rossi, di Classe operaia, Contropiano, di Operai e capitale di Mario Tronti), ancora protagonista nelle file del Pci negli anni 70 e 80 fino alla svolta di Occhetto e al disfacimento del partito, Asor Rosa ci propone una biografia venata di inquietudini, mai appagata, affascinata più dalle eresie che dai dogmi. E' così per il suo rapporto con la politica, è così anche per la sua produzione intellettuale, per quei suoi libri che - da Scrittori e Popolo (pensato e scritto tra il 1962 e il 1964) a Fuori dall’occidente, ovvero ragionamento sull'apocalissi, del 1991 -, scandiscono più di tre decenni del dibattito culturale italiano. Oggi Asor Rosa guarda ai «nodi» più problematici della situazione politica italiana con un distacco segnato da un marcato pessimismo, che si parli di Berlusconi, della crisi dell'Università o dello straripamento della «rappresentazione» televisiva della realtà. Esprime tutto il suo disagio davanti alle nubi che si addensano sulla nostra unità nazionale, sulla laicità dello Stato, sulla preservazione dello Stato di diritto, sulla mancata separazione
tra interessi privati e pubblici. Si interroga sulla svolta degli Anni '90 trascurando però di soffermarsi sulla Lega, il fenomeno a mio avviso più significativo della rottura che c'è stata nel nostro sistema politico. La sostanza del libro resta però ancorata alla vivida percezione che la storia abbia subito
una brusca impennata, che ci si sia lasciati alle spalle le colonne d'Ercole del mondo conosciuto per avventurarsi in un oceano su cui non esistono rotte già tracciate, mappe con cui orientarsi. Asor Rosa lo chiama «civiltà montante», riferendosi all'irruzione di una realtà affermatasi sulla base della liquidazione delle forme tradizionali della cultura intellettuale, «fondata sul presupposto che la storia avesse un senso, che si potesse influire su quel senso o, ammesso che quel senso fosse perduto o lacerato, occorresse lavorare per ridefinirlo». Con molta onestà ammette di guardare a questa «civiltà montante» senza indulgere a visioni profetiche, ma semplicemente attingendo ad uno specifico punto di osservazione, legato alla sua professione e al suo vissuto. Fra i tanti elementi che caratterizzano la discontinuità postnovecentesca egli privilegia infatti quelli che più direttamente riguardano il mestiere dell'intellettuale, sottolineando l'esaurirsi di una «funzione» che per almeno due secoli (fino agli Anni 70 e 80 del Novecento) li ha visti protagonisti di un rapporto così stretto tra politica e cultura da impedire qualsiasi forma di disimpegno, di distacco ascetico (e cita in questo senso Thomas Mann). Ma a questa constatazione, non segue nessun rimpianto per il passato, nessun pessimismo alla Ortega y Gasset o Spengler. In un confronto serrato con il presente, ad aiutarlo in questo passaggio Asor Rosa chiama invece Norberto Bobbio, l'intellettuale che alimenta più i dubbi che le certezze, che si rifiuta di trasformare «il sapere umano necessariamente limitato e finito in sapienza profetica», che si sottrae a ogni appartenenza «organica» e fonda sull'autonomia e sulla «mitezza» l'interpretazione del proprio ruolo." (da Giovanni De Luna, L'intellettuale ha perso il mestiere, "TuttoLibri", "La Stampa", 03/10/'09)

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