venerdì 9 ottobre 2009

Herta Muller, Nobel ai margini


"«Cerco sempre di immaginarmi ai margini dell’avvenimento che sto osservando. Vedo che gli uomini agiscono in modo apparentemente libero e non si accorgono di essere sottoposti a vincoli ben precisi, di essere prigionieri di un meccanismo, di agire con la libertà di una marionetta. E io cerco di rappresentare questo meccanismo». Così Herta Müller spiegava nel 1984 il suo lavoro di scrittrice romeno-tedesca. Due anni prima era uscito in Romania il suo primo libro di racconti, Bassure, in un’edizione fortemente sforbiciata dai censori di Ceausescu; tre anni dopo la Müller, col marito, lascerà per sempre la Romania per stabilirsi a Berlino Ovest e dare pieno avvio alla carriera letteraria oggi coronata dal Nobel.
Ma sbaglieremmo a pensare a Herta Müller come a una «dissidente», almeno nel senso abituale del termine. La scelta di collocarsi «ai margini», e la convinzione che il comportamento umano sia desolatamente condizionabile, e dunque condizionato, ne fanno piuttosto una vera e propria outsider, anche rispetto alla comunità di provenienza. Ai tedeschi del Banato - raffigurati in tutta la miseria morale, lo squallore e la meschinità provinciale che soltanto Thomas Bernhard, parlando degli austriaci, aveva saputo descrivere con tanta disturbante efficacia - Herta Müller non piaceva più di quanto piacesse al regime. Se il realismo socialista vietava di raccontare una società contadina alienata e gretta, la minoranza tedesca si aspettava dai suoi rappresentanti letterari una narrazione epica, e in ogni caso positiva (era stato Carlo VI d’Absburgo, all’inizio del ’700, a chiamare nel Banato, appena sottratto ai Turchi, un nucleo di coloni tedeschi, con l’intenzione di modernizzare quella nuova e remota provincia dell’impero).
Herta Müller invece racconta una vita ridotta alla mera sopravvivenza, al ripetersi indifferenziato di gesti e azioni che quasi cancellano ogni specificità umana, uniformandola al pigro e indifferente divenire della natura. La quale natura, né romantica né «socialista», non nasconde mai la meschinità e la crudeltà gratuita che ne contraddistinguono il modo d’essere: odori e sapori sgradevoli, il caldo soffocante o il gelo pungente, la malattia e la morte sono altrettanti rimandi a un agitarsi incessante che non perviene mai a un approdo. «Credo di essere nata con un senso di disgusto per la vita», proseguiva la scrittrice in quella lontana intervista. «Non sono cresciuta, sono stata cresciuta. Non si poteva fare nulla, si doveva fare tutto». E non è chiaro se sta parlando del socialismo reale, della piccola e asfittica comunità tedesca, o di entrambi.
Tutta l’opera successiva di Herta Müller ruota intorno a questo buco nero sentimentale, psicologico, sociale: che racconti l’adolescenza surreale sotto Ceausescu, la disumanità della dittatura o lo smarrimento della nuova vita in Occidente, c’è in lei ogni volta la sensazione sgradevole quanto appiccicosa che i conti non tornano mai, che i conti non possono tornare. Siamo appunto marionette, e il massimo di libertà cui possiamo aspirare è renderci conto di esserlo.
In questo quadro fosco - non mancano, qua e là, tratti ironici: ma è un’ironia che diventa subito sarcasmo, e amarezza - la scrittura gioca un ruolo centrale. Ridotto a mero osservatore «ai margini», e prigioniero anch’egli di un meccanismo implacabile, lo scrittore scende idealmente dal piedistallo della retorica per accucciarsi a terra, nella sporcizia e tra i rifiuti. La scrittura dunque diviene scabra, essenziale, quasi da poema in prosa, e urticante; l’osservazione minuziosa dei dettagli, tanto più profonda quanto più fastidiosa, si traduce in una struttura linguistica dove ogni frase si muove da sé, segnando ogni volta un possibile inizio e una possibile fine del racconto. Nei libri di Herta Müller le parole si muovono senza mèta, in un disinteresse glaciale che demolisce il principio stesso della narrazione, e nell’ostinazione per i dettagli rivelano, quasi naturalmente e senza alcun intervento esterno, la totale e inguaribile insensatezza del mondo.
Herta Müller ricorre spesso all’io narrante di una bambina per costruire i suoi incubi; gli adulti, quasi sempre, sono automi destinati a ripetere all’infinito quegli stessi atti che fin dal principio li definiscono. L’infanzia è dunque il solo àmbito sottratto alla sfera maleodorante della necessità: come in Agota Kristof, anche nella Müller lo sguardo del bambino arriva là dove gli altri non riescono neppure ad affacciarsi. La qualità principale della bambina di Herta Müller è non saper nulla, non avere esperienza di nulla, non aver letto né scritto nulla: è uno specchio senza cornice, e soltanto in questo modo - cioè senza le sovrastrutture del pensiero razionale e del linguaggio - può rappresentare davvero il mondo. E così il socialismo reale non è più un’abiezione, né una fosca profezia, ma la metafora perfetta della condizione umana." (da Fabrizio Rondolino, Herta Muller, Nobel ai margini, "La Stampa", 09/10/'09)

Herta Müller takes Nobel prize for literature (da Guardian.Books)

Herta Müller Wins Nobel Prize in Literature (da NYTimes.Books)

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